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| << | < | > | >> |IndiceV Prefazione di Guido Davico Bonino Io e l'altro 3 I sosia E. T. A. HOFFMANN 48 Monos e Daimonos EDWARD BULWER-LYTTON 57 Il velo nero del Pastore NATHANIEL HAWTHORNE 72 L'ombra HANS CHRISTIAN ANDERSEN 84 William Wilson EDGAR ALLAN POE 103 Il naso NIKOLAJ GOGOL 127 Il cavaliere doppio THÉOPHILE GAUTIER 136 Uno spirito in un lampone IGINO UGO TARCHETTI 147 L'angolo prediletto HENRY JAMES 182 Lui? GUY DE MAUPASSANT 189 Markheim ROBERT LOUIS STEVENSON 208 Confessione postuma REMIGIO ZENA 219 Il coinquilino segreto JOSEPH CONRAD 261 Il fu signor Elvesham HERBERT GEORGE WELLS 278 Stefano Giogli, uno e due LUIGI PIRANDELLO 286 Lo spettro HORACIO QUIROGA 296 Giovane anima candida MASSIMO BONTEMPELLl 303 L'ultima visita del Gentiluomo Malato GIOVANNI PAPINI 309 La signora nello specchio VIRGINIA WOOLF 315 La condanna FRANZ KAFKA 326 Anima ALBERTO SAVINIO 333 Le rovine circolari JORGE LUIS BORGES 339 La casa di zucchero SILVINA OCAMPO 348 Lontana JULlO CORTAZAR |
| << | < | > | >> |Pagina VIntroduzioneApriamo insieme il Simposio di Platone e diamo la parola al commediografo greco Aristofane. Siamo in casa di Agatone, si è finito di cenare, su suggerimento di Fedro si è scelto il tema della discussione: l'elogio di Amore. Hanno già parlato Fedro, Pausania, il medico Eurissimaco (Socrate, per ora, tace e ascolta) ed ecco intervenire l'autore delle Rane: Bisogna innanzi tutto che sappiate qual è la natura dell'uomo e quali prove ha sofferto; perché l'antichissima nostra natura non era come l'attuale, ma diversa. In primo luogo l'umanità comprendeva tre sessi, non due come ora, maschio e femmina, ma se ne aggiungeva un terzo partecipe di entrambi e di cui ora è rimasto il nome, mentre la cosa si è perduta. Era allora l'androgino, un sesso a sé, la cui forma e nome partecipavano del maschio e della femmina: ora non è rimasto che il nome che suona vergogna. In secondo luogo, la forma degli umani era un tutto pieno: la schiena e i fianchi a cerchio, quattro braccia e quattro gambe, due volti del tutto uguali sul collo cilindrico, e una sola testa sui due volti, rivolti in senso opposto; e cosi quattro orecchie, due sessi, e tutto il resto analogamente, come è facile immaginare da quanto s'è detto. Camminavano anche ritti come ora, nell'una e nell'altra direzione; ma quando si mettevano a correre rapidamente, come i saltimbanchi fanno capriole levando in alto le gambe, casi quelli veloci ruzzolavano poggiando su quei loro otto arti. Questi uomini primitivi, dalla conformazione doppia rispetto all'attuale, divisi in tre sessi, erano terribilmente vigorosi e tanto superbi da attentare agli dèi e mettere Giove in assillo: «Se li fulmino, come ho fatto con i Giganti, perdo i loro sacrifici in nostro onore: d'altro canto, non posso lasciarmi insolentire...»: Ma finalmente Giove, pensa e ripensa: «Se non erro, - dice, - ce l'ho l'espediente perché gli uomini, pur continuando a esistere ma divenuti piú deboli smettano questa tracotanza. Ora li taglierò in due e cosí saranno piú deboli, e nello stesso tempo piú utili a noi per via che saranno aumentati di numero. E cammineranno ritti su due gambe, ma se ancora gli salterà di fare gli arroganti, e non vorranno vivere quieti, li taglierò in due una seconda volta [...] [...] Quando nasce, tuttavia, all'interno della letteratura occidentale, quando prende corpo sulla pagina il tema del Doppio in senso stretto, quello del «soggetto che vede dinnanzi a sé un altro se stesso (autoscopia) come un'entità autonoma ma identica, o che s'imbatte in un individuo simile a sé in tutto e per tutto»? Rispondono Jourde e Tortonese: «Questo Doppio è essenzialmente moderno, è il romanticismo tedesco che lo mette in auge, e Jean-Paul Richter (1763-1825) inventa per lui, nel 1796, il termine di Doppelgänger». A coniare questo neologismo (letteralmente, «chi cammina al tuo fianco», «il tuo compagno di strada») non ha mancato di contribuire la riflessione di un filosofo come Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), chiamato alla cattedra di filosofia dell'Università di Jena nel 1794, anno in cui pubblica i suoi Fondamenti dell'intera dottrina della scienza. Il sistema fichtiano prevede una sorta di raddoppiamento del soggetto: c'è un Io assoluto e originario, che ingloba in sé il non-io, cioè il mondo esterno, che a sua volta include l'Io empirico. «Il mio Io (empirico) è orrificato dal mio Io (assoluto), questo Démogorgon ripugnante che mi abita», postilla Jean-Paul Richter nell' Appendice comica del suo romanzo Titan (1800-1803), in cui è compresa, nel registro della parodia, una Clavis fichtiana. Ma è Adalbert von Chamisso (1781-1838) con la sua Storia meravigliosa di Peter Schlemil o l'uomo che ha perduto la sua ombra (1814), romanzo breve dallo straordinario, immediato successo in tutta Europa, a consacrare il tema del Doppio al piú alto livello di espressività. Chamisso racconta la storia di un individuo che, giunto in una cittadina dove dovrebbe socialmente affermarsi e divenire in breve tempo agiato, vende ad un uomo in grigio la propria ombra in cambio della borsa magica di Fortunatus, fonte di inesauribili ricchezze: «Il nostro eroe - ha osservato la belga Anne Richter, un'altra specialista di letteratura fantastica - perde a questo punto la propria identità e diventa oggetto di scandalo e di pubblico disprezzo. Rifiutando un secondo patto col diavolo, che gli offre di barattare la propria ombra con la propria anima, Schlemil finisce per accettare la sua condizione, rinuncia al suo doppio ingannatore, e preferisce serbare l'anima pura, vivendo ormai in solitudine, lontano dall'umano consorzio». Sta di fatto che con il suo piccolo capolavoro narrativo von Chamisso aveva aperto una strada, che dai suoi colleghi della «scuola» romantica si inoltrerà sino al Novecento, sia sul versante del romanzo che su quello del racconto. [...] Abbiamo evocato soltanto alcuni romanzi notevoli sul Doppio, scritti ed apparsi tra Otto e Novecento. La nostra antologia non si rivolge peraltro al romanzo, anche nelle sue forme meno espanse, ma al racconto. E infatti nelle strutture, di necessità «economiche», del narrar breve che l'evocazione fantastica del Doppio consegue risultati di particolare incisività. Come hanno sottolineato i primi studiosi dello sviluppo letterario di questo tema, come la tedesca Wilhelmine Kraus sin dal 1930 o l'inglese Ralph Tymms circa vent'anni dopo (1949), la contrazione architetturale della forma-racconto è singolarmente adatta ad esprimere, e contrario, la tensione incontrollabile a rompere ogni confine, a slanciarsi, finalmente liberi, al di là dei limiti del proprio destino, che è la costante d'ogni conflitto dell'io con l'altro da sé, col suo Doppio. | << | < | > | >> |Pagina 57Il velo nero del pastoreParabola
di Nathaniel Hawthorne
Il sacrestano, sotto il portico della chiesa di Milford, tirava con vigore la corda della campana. I vecchi del villaggio si avviarono curvi giú per la strada. Alcuni bambini, dalle facce vispe, saltellavano allegri accanto ai loro genitori, o fingevano un'andatura piú grave e severa, consci della dignità che conferivano gli abiti festivi. Alcuni azzimati giovanotti guardavano in tralice le graziose fanciulle, e si immaginavano che il sole della domenica le rendesse piú leggiadre che nei giorni feriali. Quando la folla fu quasi tutta passata attraverso il portico, il sacrestano fece rintoccar la campana, tenendo fisso l'occhio sulla porta del presbiterio. Non appena avesse scorto il sacerdote, avrebbe smesso di suonare. - Ma che mai si è messo sul volto, il buon pastore Hooper? si chiese stupito il sacrestano. Tutti quelli che lo udirono si voltarono immediatamente e scorsero il signor Hooper che, lento e immerso nei propri pensieri, avanzava verso la chiesa. Come di comune accordo tutti sobbalzarono, rivelando maggior stupore di quello che avrebbero provato, se qualche ignoto pastore fosse venuto a spolverare i cuscini del pulpito del reverendo Hooper. - Ma siete sicuro che sia veramente il nostro pastore? - chiese al sacrestano il rispettabile signor Gray. - Senza dubbio che è il nostro buon signor Hooper, - rispose il sacrestano. - Avrebbe dovuto scambiar pulpito col pastore Shute di Westbury, non fosse che ieri il signor Shute si è scusato, dovendo predicare a un funerale. La causa di tanto stupore può sembrare forse insignificante. Il signor Hooper, una persona dall'aspetto distinto, sui trent'anni, sebbene ancora scapolo era vestito con tutto il decoro confacente a un sacerdote, come se una premurosa moglie gli avesse insaldato il colletto e rimosso la polvere della settimana dal vestito domenicale. Nel suo aspetto non vi era che una cosa notevole. Stretto attorno alla fronte gli pendeva davanti alla faccia un velo nero, che era mosso dal respiro del pastore. Visto piú da vicino, esso sembrava formato da un pezzo di crespo raddoppiato, che nascondeva interamente il volto, tranne la bocca e il mento, ma con ogni probabilità non gli impediva di vedere, anche se diffondeva un'ombra scura su tutte le cose, viventi o inanimate. Con quella cupa ombra dinanzi agli occhi, il buon signor Hooper continuò dunque a procedere, come al solito, lento e tranquillo, un po' curvo e con lo sguardo rivolto a terra, siccome usano le persone astratte, senza però dimenticare di rivolgere un gentile cenno di saluto a quanti dei suoi parrocchiani ancora si trovassero sui gradini della chiesa. Ma questi erano cosi stupefatti, che quasi si dimenticavano di rispondergli. - Mi pare quasi impossibile che il volto del nostro buon signor Hooper si trovi dietro quel velo di crespo, - disse il sacrestano. - È una cosa che non mi piace, - mormorò una vecchia, mentre zoppicando entrava in chiesa. - Si è trasformato in qualcosa di tremendo, con quel semplice velo che gli nasconde la faccia. - Il nostro pastore è impazzito! - esclamò il vecchio signor Gray, seguendo il sacerdote attraverso la soglia. La voce di qualche inspiegabile fenomeno aveva preceduto l'ingresso del pastore nella chiesa ed eccitato l'intera congregazione. Pochi poterono astenersi dal volgere il capo verso la porta; molti eran rimasti in piedi e la fissavano direttamente; mentre parecchi ragazzini si issavano sui sedili e poi si lasciavan cader giú con un terribile frastuono. Era un agitarsi generale, un fruscio di sottane femminili, uno scalpiccio di piedi maschili; cosa che contrastava fortemente con quella silente quiete che dovrebbe accogliere l'ingresso del sacerdote. Ma il signor Hooper non parve notare la commozione dei suoi fedeli. Entrò con passo quasi silenzioso, curvò leggermente il capo in direzione dei banchi ai due lati, e si inchinò passando davanti al suo piú vecchio parrocchiano, un vegliardo dai capelli bianchi, che occupava una poltrona nel centro della navata. Fu curioso notare con quanta lentezza questo venerabile signore riusci a percepire che l'aspetto del pastore presentava qualcosa di strano. Egli non parve infatti partecipare alla diffusa commozione, finché il signor Hooper non ebbe salito gli scalini e non si fu mostrato sul pulpito, fronteggiando la sua congregazione, sempre col velo nero che gli intercettava lo sguardo. Il misterioso emblema non fu mai sollevato. Venne scosso dal ritmo del respiro mentre il sacerdote recitò il salmo; diffuse un'ombra cupa tra lui e la pagina quando lesse la Sacra Scrittura; anche durante la preghiera si posò greve sul volto sollevato verso l'alto. Intendeva forse nascondere il suo viso all'Essere tremendo, cui si rivolgeva? L'effetto di questo semplice pezzo di crespo fu tale che piú di una donna dai nervi un po' delicati si trovò nella necessità di uscire di chiesa. E tuttavia quella accolta di pallidi volti presentava al pastore una visione non meno terribile di quanto apparisse loro il velo nero. Il signor Hooper godeva la fama di predicatore valente, ma non molto energico. Egli cercava di avviare i suoi parrocchiani sulla strada che conduce al Cielo con miti e suasive influenze piú che non ve li incalzasse coi fulmini del Verbo. Il sermone che pronunziò quel mattino era improntato alle sue abituali caratteristiche oratorie. Ma vi era qualcosa, nel tono con cui venne letto, o nell'immaginazione dell'uditorio, che lo rese di gran lunga il piú potente che le labbra del pastore avessero mai pronunziato. Era colorato, forse piú cupamente del solito, dalla gentile malinconia, propria al carattere del signor Hooper. L'argomento trattato si riferiva al peccato segreto, a quei desolati misteri che cerchiamo di nascondere anche ai nostri piú prossimi, ai nostri piú cari amici, che vorremmo volentieri celare alla nostra stessa coscienza, dimenticando che l'Onnisciente è sempre in grado di vederli. Le sue parole erano pervase da una sottile magia. Ciascun membro della congregazione, anche la fanciulla piú innocente, l'uomo dal cuore piú indurito, aveva l'impressione che il predicatore si fosse insinuato in essi, sempre nascosto dal tremendo velo, e avesse scoperto le loro celate iniquità di opere o pensieri. Molti si nascondevano il petto sotto le mani incrociate. Non v'era nulla di terribile in ciò che il pastore diceva, o almeno nulla di violento; e tuttavia, a ogni tremito della sua voce melanconica, gli ascoltatori si sentivano venir meno. Una commozione inesplicabile si diffondeva di pari passo col senso di terrore. La congregazione era cosi sensibile a questi insoliti attributi del pastore, che tutti si auguravano che un soffio di vento venisse a sollevare il velo, sicuri quasi che avrebbero scoperto il volto di un estraneo, sebbene il portamento, i gesti e la voce fossero indubbiamente quelli del signor Hooper. | << | < | > | >> |Pagina 84William Wilson
di Edgar Allan Poe
Per ora, mi chiamerò William Wilson. La pagina onesta che mi sta di fronte non verrà bruttata dal mio vero nome. Già troppo è stato oggetto di spregio, di ripugnanza, troppo è stato detestato dal mio sangue. Forse che i venti iracondi non hanno recato fino agli estremi limiti del globo la fama di una infamia senza uguale? Rifiuto tra i rifiuti! Forse che non sei morto per il mondo? E la tetraggine di una nube densa e sterminata non si frappone eterna tra le tue speranze ed il cielo? Non vorrei, anche se potessi, qui, oggi, dar corpo al regesto dell'indicibile desolazione, della imperdonabile nequizia dei miei anni recenti. Questo tempo, questi anni, hanno visto subitamente prosperare la mia turpitudine, e mi propongo di descriverne l'origine. Per solito, gli uomini si degradano poco alla volta. Dalle mie spalle ogni dignità scivolò via in un istante, quasi fosse un mantello. Da una malignità relativamente da poco, con passi da gigante giunsi a oltrepassare la dissennatezza di un Eliogabalo. Quale sorte, quale evento ne fu causa, mi si consenta di raccontare. La morte non è lontana; e l'ombra che la precede ha sul mio spirito una influenza lenitiva. Nel momento in cui mi inoltro per la valle dell'oscurità, invoco la simpatia - la pietà forse - dei miei simili. Vorrei mi credessero, in certa misura, vittima di circostanze sottratte a volontà d'uomo. Vorrei che, nelle minuzie della storia che mi accingo a narrare, trovassero, a mio sollievo, una qualche minuscola oasi fatale, nel mezzo della selvatica selva dell'errore. Mi si conceda - questo non mi si può negare - che, quantunque si siano certo date tentazioni non meno grandi, mai uomo venne tentato in tal modo - certamente, mai crollò in quel modo. Forse non vivo da gran tempo in un sogno? E, ora, non muoio vittima degli orrori e del mistero della visione piú innaturale tra quante pullulano sotto la luna? Discendo da una stirpe da sempre famosa per il temperamento fervido e fantastico; già dalla prima infanzia, mostrai di aver tutta ereditata codesta qualità del mio sangue. Con gli anni, assai si accrebbe; per molte ragioni divenni causa di grave inquietudine per i miei amici, e fui esiziale a me stesso. Crebbi ostinato, indulgente alle piú sfrenate stravaganze, preda di indomabili passioni. [...] In verità, l'ardore, l'entusiasmo, la mia imperiosa disposizione, mi segnalarono in breve tra i miei compagni di scuola, e seguendo gradazioni lente, ma naturali, mi diedero ascendenza su tutti coloro che non erano molto piú anziani di me; su tutti, con un'unica eccezione. Questa eccezione era un sollievo che, sebbene non mi fosse in alcun modo parente, aveva il mio stesso nome e cognome; in: verità, circostanza di assai poco conto; giacché, malgrado l'illustre ascendenza, era, il mio, un nome comune, che la prescrizione ha reso da tempo immemorabile proprietà comune della canaglia. Pertanto, in questa confessione io mi sono scelto il nome William Wilson, titolo fittizio, ma non troppo diverso da quello reale. Soltanto il mio omonimo, tra quelli che il gergo scolastico definiva «i nostri», presumeva di tenermi testa negli studi, come negli spassi e nelle sfide delle ore di divertimento; osava rifiutare un assenso senza discussione alle mie affermazioni, o di sottomettersi alla mia volontà; di piú, osava interferire con le mie arbitrarie decisioni, sotto ogni riguardo. Se si dà sulla terra dispotismo supremo e illimitato, è il dispotismo che un fanciullo forte d'animo esercita sopra i suoi compagni meno energici. La ribellione di Wilson era per me fonte di grande disagio; tanto piú che malgrado la tracotanza con cui in pubblico mi ostinavo a sfidare lui e le sue pretese, intimamente avvertivo che lo temevo, e non potevo non giudicare segno della sua superiorità l'agevolezza con cui egli mi teneva testa; giacché solo una continua, faticosa lotta mi consentiva di non farmi superare. E tuttavia questa superiorità - o questa parità - era in verità riconosciuta da me solo, e da nessun altro; i nostri compagni, inspiegabile cecità, non davano neppur segno di sospettarla. E veramente, la sua sfida, la resistenza, e soprattutto l'impertinenza, l'ostinazione con cui interferiva nelle mie decisioni, erano pertinenti quanto discrete. Sembrava sprovvisto affatto dell'ambizione che mi stimolava, dall'appassionata energia della mente che mi consentiva di dominare. La sua rivalità sembrava essersi ispirata da null'altro che da una capricciosa furia di frustrarmi, stupirmi o mortificarmi; sebbene non di rado non potessi non notare, con un misto sentimento, insieme di stupore, avvilimento e stizza, che alle sue ingiurie, le provocazioni, i contrasti, egli mescolava una affettuosità affatto incongrua e sommamente sgradevole. Potevo solo supporre che quel singolare contegno traesse origine da una vanità estrema che ambiva ad atteggiarsi, intollerabile pretesa, a protezione e benevolenza. Fu forse quest'ultimo tratto del contegno di Wilson che, unitamente all'identità del nome, e il fatto casuale di essere entrati nella scuola nel medesimo giorno, accreditò nelle classi anziane l'idea che noi fossimo fratelli. Gli anziani non fanno di regola indagini troppo accurate nelle taccende dei piú giovani. Credo d'aver già detto, comunque avrei dovuto dire, che Wilson non era in alcun modo imparentato con la mia famiglia. Ma certo, fossimo stati fratelli, saremmo stati gemelli. Giacché, quando già avevo lasciato la scuola del dottor Bransby, mi accadde di apprendere che il mio omonimo era nato il diciannove gennaio 1813: coincidenza senza dubbio singolare; giacché quello appunto è il giorno della mia nascita. Può sembrare strano che, malgrado la continuata angoscia che in me generavano l'emulazione di Wilson, e il suo intollerabile spirito di contraddizione, non m'era possibile indurmi a odiarlo del tutto. E vero, pressoché ogni giorno c'era fra di noi uno scontro, nel quale, concedendomi la palma della vittoria, in qualche modo riusciva a farmi sentire che era lui a meritarla; tuttavia, il mio senso d'orgoglio, e la sua schietta dignità, ci consentivano di non giungere alla rottura; ed anzi nei nostri temperamenti v'erano molti tratti congeniali, che destavano in me un sentimento che solo la nostra situazione impediva maturasse in amicizia. Invero, è arduo per me definire o anche solo descrivere esattamente i miei sentimenti nei suoi confronti. Formavano una miscela eterogenea, disordinata; una petulante animosità, che non arrivava alla avversione, stima, certo, ancor piú rispetto, paura, molta, e una infinita, smaniosa curiosità. Al conoscitore dell'animo umano, non occorrerà dire che, inoltre, Wilson ed io eravamo compagni inseparabili. | << | < | > | >> |Pagina 182Lui?
di Guy de Maupassant
A Pierre Decourcelle Mio caro amico, non ci capisci nulla, vero? e non me ne meraviglio. Mi credi impazzito? Forse lo sono un poco, ma non per i motivi che supponi tu. Si. Mi sposo. Cosi è. E tuttavia le mie idee e le mie convinzioni non sono mutate. Considero l'accoppiamento legale una stoltezza. Sono sicuro che otto mariti su dieci sono cornuti. E se lo meritano, se hanno avuto l'imbecillità d'incatenare la loro vita, di rinunciare al libero amore, l'unica cosa bella e allegra di questo mondo, di tarpare le ali alla fantasia che ci spinge senza posa verso tutte le donne ecc. ecc. Mi sento piú che mai incapace d'amare una sola donna, perché amerò sempre troppo tutte le altre. Vorrei avere mille braccia, mille labbra e mille... energie per poter abbracciare nello stesso tempo un esercito di quegli esseri deliziosi e senza importanza. E tuttavia mi sposo. Aggiungo che conosco appena la donna che sarà domani mia moglie. L'ho vista solo quattro o cinque volte. So che non mi dispiace affatto; e mi basta per quel che voglio farne. È piccola, bionda e rotondetta. Dopodomani desidererò ardentemente una donna alta, bruna e sottile. Non è ricca. Appartiene a una famiglia media. È una ragazza come ce ne sono tante nella borghesia modesta, adatta da sposare, senza qualità e senza difetti apparenti. Di lei si dice:,- Mademoiselle Lajolle è molto graziosa -. Domani si dirà: - E molto graziosa, Madame Raymon -. Insomma, appartiene a quel comunissimo tipo di ragazza onesta «di cui si è felici di far la propria moglie», fino al giorno in cui si scopre di preferire proprio tutte le altre donne a quella prescelta. E allora perché ti sposi? dirai tu. Oso appena confessarti la strana e inverosimile ragione che mi spinge a quest'atto insensato. Mi sposo per non essere solo! Non so come dirtelo, come farmi capire. Lo stato della mia mente è tanto miserevole che avrai pietà di me e mi disprezzerai. Non voglio piú star solo, di notte. Voglio sentire un essere accanto a me, contro di me, un essere che possa parlare, dire qualcosa, qualunque cosa. Voglio poter interromperle il sonno; farle improvvisamente una qualsiasi domanda, una domanda stupida, pur di udire una voce, di sentire la mia casa abitata, di sentire un'anima desta, un cervello al lavoro, per vedere, accendendo all'improvviso la candela, una figura umana al mio fianco... perché... perché... (non oso confessare questa vergogna)... perché ho paura quando sono solo. Oh! tu non mi capisci ancora. Non ho paura d'un pericolo. Se entrasse un uomo, lo ucciderei senza un brivido. Non ho paura dei fantasmi; non credo al soprannaturale. Non ho paura dei morti; credo all'annullamento definitivo di ogni essere che scompare. Allora?... si, allora?..., Ebbene! ho paura di me stesso! ho paura della paura; paura degli spasimi della mente che si smarrisce, paura di quell'orrenda sensazione che è il terrore incomprensibile. Ridi pure se vuoi. E una cosa orrenda, inguaribile. Ho paura dei muri, dei mobili, degli oggetti familiari che si animano, per me, d'una specie di vita animale. Ho paura soprattutto dell'orribile turbamento del mio pensiero, della ragione che mi sfugge in un caos, dispersa da una misteriosa invisibile angoscia. All'inizio sento una vaga inquietudine che mi scende nell'animo e mi fa correre un brivido sulla pelle. Mi guardo attorno. Niente! E vorrei qualcosa! Che cosa? Qualcosa di comprensibile. Infatti ho paura unicamente perché non comprendo la mia paura. Se parlo ho paura della mia voce. Se cammino, ho paura dell'ignoto che sta dietro la porta, dietro la tenda, dentro l'armadio, sotto il letto. E tuttavia so che non c'è nulla da nessuna parte. Mi volto bruscamente perché ho paura di ciò che mi sta alle spalle, sebbene non vi sia nulla ed io lo sappia. Mi agito, sento la mia angoscia aumentare; mi chiudo in camera; mi ficco a letto, mi caccio sotto le lenzuola; e rannicchiato, raggomitolato come una palla, chiudo disperatamente gli occhi, e me ne sto cosí per un tempo infinito col pensiero che la candela sul comodino è rimasta accesa e che dovrei pur spegnerla. Ma non oso. Non è spaventoso essere ridotti in questo stato? Una volta non provavo nessuna di queste cose. Rincasavo tranquillamente. Andavo e venivo nel mio appartamento senza che nulla turbasse la serenità del mio spirito. Se mi avessero detto che un giorno mi sarei ammalato d'una paura inverosimile, stupida e tremenda, ne avrei riso di cuore; aprivo le porte al buio con piena sicurezza: mi coricavo con calma, non mettevo il catenaccio, e non m'alzavo mai a metà della notte per assicurarmi che tutte le porte della camera fossero ben chiuse. Questa malattia è cominciata l'anno scorso in uno strano modo. Era una serata umida d'autunno. Dopo cena, quando la domestica se ne fu andata, mi chiesi che cosa avrei fatto. Per un poco camminai su e giú per la camera. Mi sentivo stanco, oppresso senza motivo, incapace di lavorare, senza nemmeno la forza di leggere. Una pioggia sottile bagnava i vetri; ero triste, immerso in una di quelle tristezze senza motivo che fanno venir la voglia di piangere, che dànno il desiderio di parlare con un essere qualunque pur di scuotere di dosso la pesantezza dei propri pensieri. Mi sentivo solo. L'appartamento mi pareva vuoto come non era mai stato. Una solitudine infinita e straziante mi circondava. Che fare? Mi sedetti. Allora un'impazienza nervosa mi corse lungo le gambe. Mi rialzai, e ricominciai a camminare. Forse avevo anche un po' di febbre: sentivo infatti scottare le mie mani che tenevo una sull'altra dietro la schiena, come si fa spesso quando si passeggia lentamente. Poi, all'improvviso, un brivido di freddo mi corse lungo la schiena. Pensai che l'umidità dell'esterno mi penetrasse nel corpo, e mi venne l'idea di accendere il fuoco. Lo accesi; era la prima volta quell'anno. E sedetti di nuovo guardando la fiamma. Ma ben presto l'impossibilità di star fermo mi fece alzare di nuovo, e sentii che dovevo uscire, scuotermi, trovare un amico. | << | < | > | >> |Pagina 261Il fu signor Elvesham
di Herbert George Wells
Consegno alla carta questa storia, senza speranza di essere creduto, ma per offrire, forse, alla prossima vittima una possibilità di salvezza. Che la mia sventura sia almeno utile a un altro. Quanto a me, il caso è disperato, lo so bene. E sono in parte rassegnato alla mia sorte. Mi chiamo Edward George Eden. [...] Parlai ad alta voce. Dissi: - Come diavolo sono arrivato qui? -... E la voce non era la mia. Non era la mia: era gracile, la pronuncia era barbugliante, la risonanza, nella cavità facciale, era diversa. Per rassicurarmi, mi passai una mano sull'altra, e sentii pieghe di pelle floscia, l'ossuta mollezza della vecchiaia. - Sto sognando, - dissi, con quella voce orribile insediatasi chissà come nella mia gola, - sto sognando, di sicuro! - Con la rapidità d'un gesto istintivo, mi ficcai le dita in bocca. Ero sdentato. I miei polpastrelli passarono sulla superficie flaccida di un liscio arco di gengive afflosciate. L'angoscia e la ripugnanza mi diedero la nausea. Provai allora un desiderio disperato di vedermi, di costatare subito, in tutto il suo orrore, la trasformazione subita. Raggiunsi barcollando il ripiano del camino, e cercai a tentoni, su tutta la sua lunghezza, dei fiammiferi. Nel far questo, mi scoppiò in gola una tosse convulsa, e mi strinsi nella camicia da notte di grossa lana che mi trovai addosso. Ma niente fiammiferi, là sopra. Mi accorsi a un tratto di avere le estremità gelate. Tirando su con il naso, tossendo, forse anche piagnucolando, mi rifugiai nel letto. «Sicuramente è un sogno, sicuramente un sogno», piagnucolai tra me. Era un balbettio senile. Mi tirai le coperte sulle spalle, sulle orecchie, infilai la mia mano vizza sotto il guanciale, deciso a calmarmi e a dormire. Certo, ch'era un sogno! La mattina il sogno sarebbe terminato e mi sarei ridestato di nuovo forte e robusto, mi sarei ridestato alla mia gioventu ed ai miei studi. Chiusi gli occhi, respirai con regolarità, e, poiché restavo sveglio, mi misi a contare lentamente le potenze di tre. Ma la cosa agognata non veniva. Non mi addormentavo. E la convinzione che il cambiamento accadutomi fosse inesorabile realtà non faceva che crescere. Tosto mi ritrovai ad occhi aperti, uscite di mente le potenze di tre, con le mie dita ossute sulle gengive afflosciate. Ero realmente, improvvisamente e di colpo, un vecchio. In modo inesplicabile, ero precipitato attraverso la mia vita raggiungendo la vecchiaia, in un modo o nell'altro ero stato frodato di tutta la parte migliore della mia vita: amore, lotta, forza, speranza. Mi rigirai smaniosamente sul guanciale, cercando di convincermi che l'eventualità di un'allucinazione simile rientrasse nell'ordine del possibile. Insensibilmente, ininterrottamente la luce dell'alba cresceva. Alla fine, disperando d'altro sonno, mi misi a sedere sul letto e mi guardai attorno. Una luce debole e fredda lasciava vedere tutta la stanza. Era spaziosa, bene arredata, meglio di qualsiasi altra in cui avessi dormito. In una nicchia si potevano intravedere, su un piccolo piedestallo, candela e fiammiferi: scostai le coperte, e rabbrividendo per l'inclemente ora dell'alba, benché si fosse d'estate, mi alzai e accesi la candela. Poi, tremando a verga a verga, tanto che lo spegnitoio sulla sua asticciola sbatacchiava, barcollai fino allo specchio... e vidi la faccia di Elvesham. Fu una cosa orribile, anche se ormai, oscuramente, la temevo. Egli mi era già sembrato fisicamente debole da far pietà; ma visto adesso, con indosso soltanto la camicia da notte di flanella grezza che aprendosi scopriva i tendini del collo, visto adesso come mio proprio corpo... Non so descrivere la desolata decrepitezza, le guance flosce, il bianco sporco dei radi capelli, gli occhi cisposi e lacrimosi, le labbra biascicanti e cosí flaccide che l'inferiore lasciava intravedere l'orlo roseo interno e quelle orribili gengive scure. Non immaginerete mai, voi che avete spirito e corpo uniti nell'età di natura, non immaginerete mai che cosa fu per me trovarmi in quella mostruosa e demoniaca prigione. Essere giovane, con tutta la brama e il vigore della gioventú, ma preso in trappola, per venir quanto prima stritolato, in quel rudere di corpo tentennante... Ma divago dal filo del racconto. Per qualche tempo debbo essere rimasto intontito per la metamorfosi di cui ero vittima. Era già giorno quando mi riebbi, almeno tanto da poter pensare. In modo incomprensibile, m'avevano cambiato con un altro, benché non riuscissi a concepire, se volevo escludere la magia, come avessero fatto. E nel pensarci mi apparve la diabolica ingegnosità di Elvesham. Mi sembrò evidente che, allo stesso modo ch'io mi trovavo nel suo corpo, egli doveva essere in possesso del mio, cioè della mia forza, del mio futuro. Ma come provarlo? Ripensandoci, la cosa apparí tanto incredibile, persino a me, che la mia mente vi si rifiutò, e dovetti pizzicarmi, toccarmi le gengive sdentate, vedermi nello specchio, palpare gli oggetti, prima d'indurmi ad affrontare nuovamente i fatti. La vita era tutta un'allucinazione? Ero veramente Elvesham, ed egli me? Eden non era, forse, soltanto un sogno della scorsa notte? Esisteva, Eden? Ma, se ero Elvesham, avrei dovuto rammentare dov'ero la mattina prima, il nome della città in cui abitavo, gli avvenimenti anteriori all'inizio del sogno. Mi dibattevo nei miei pensieri. Riandai allo strano sdoppiamento di ricordi, la sera prima. Ora invece avevo la memoria sgombra, non potei spremerne un solo ricordo all'infuori di quelli propri a Eden.
- Su questa via vado incontro alla pazzia! - esclamai con la
mia voce chioccia. Con piede malfermo, trascinai le deboli e tarde membra fino
al lavamani, tuffai in una bacinella d'acqua fredda la mia testa canuta.
Asciugandomi, poi, provai di nuovo. Niente da fare, sentivo indiscutibilmente
d'essere proprio Eden, non Elvesham. Però, Eden nel corpo di Elvesham!
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