Copertina
Autore Alexandra David-Néel
Titolo Nel paese dei briganti gentiluomini
EdizioneVoland, Roma, 2012 [2000], Supereconomici 6 , pag. 449, cop.fle., dim. 11x18,5x3 cm , Isbn 978-88-6243-117-0
OriginaleAu pays des brigands gentilshommes [1933]
CuratoreGuia Boni
TraduttoreGuia Boni
LettoreElisabetta Cavalli, 2012
Classe viaggi , paesi: Tibet , paesi: Cina , religione
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Pagina 9

CAPITOLO I


Quel mattino un sole radioso illuminava il cielo azzurro facendo rifulgere la terra gialla, seccata dal gelo invernale. Era il principio di febbraio, la neve era ancora accatastata nei viottoli del grande monastero di Kumbum e imbiancava le cime vicine, ma i sentieri erano cosparsi da un chiarore primaverile. Le strade, con i sassi e i fili d'erba, intonavano allegri canti che invitavano alla partenza.

I muli carichi di bagagli, addobbati con pon-pon rossi, facevano risuonare con impazienza i campanelli che portavano al collo... Ero in procinto di partire. L'avventura che mi apprestavo a vivere avrebbe superato per difficoltà tutte quelle che l'avevano preceduta e già ne pregustavo l'ebbrezza. Un rimpianto, però, gettava sulla mia partenza un'ombra di malinconia.

Avrei passato volentieri il resto dei miei giorni a cullarmi nella calma della città monastica dove avevo appena trascorso due anni e otto mesi. Era così tranquilla la mia casetta decorata con affreschi ingenui, riparata in fondo a un minuscolo chiostro nel sontuoso palazzo del lama Pegyai Tulku! Mi ero abituata ad ammirare dal mio balcone i tetti dorati dei templi e, in lontananza, le montagne erbose dove pascolavano yak pelosi e grandi cammelli condotti dalle carovane mongole. La sera mi piaceva ascoltare la grave armonia delle musiche sacre quando i lama facevano, sulle immense terrazze del grande salone, le loro serenate agli dèi. Mi piacevano ancora di più le ore trascorse a seguire il pensiero degli antichi saggi buddhisti sui libri tirati fuori apposta per me da biblioteche sigillate dove riposavano avvolti in cangianti broccati gialli. Si stava lì per studiare, meditare: lo spirito vi assaporava, fino a ubriacarsene, la sottile voluttà dell'isolamento e del silenzio.

Eppure, malgrado tutto, lasciavo Kumbum. Per stabilirmi in quel luogo definitivamente sarei dovuta diventare membro del monastero, ma al mio sesso era vietato e poi mi ero ripromessa di entrare a Lhasa, la città proibita. Come sarei potuta restare?...

La consuetudine tibetana vuole che, al momento della partenza, un ospite di riguardo sia accompagnato per un lungo tratto di strada da coloro che lo hanno ospitato. L'intendente e i trapa del lama Pegyai vi si volevano conformare scortandomi per diversi chilometri, ma insistetti affinché si risparmiassero questa inutile fatica e mi congedai vicino a un ponticello che segnava il confine della città monastica. Lì ci scambiammo gli auguri e le solite sciarpe di omaggio dopo di che la mia carovana si mise in cammino.

Mio figlio adottivo, il lama Yongden, e io la seguimmo a piedi fino alla cima della collina da cui si scorgeva il monastero. Ci restava un rito da compiere. Tra le pietre, nella neve, piantammo e accendemmo alcuni bastoncini di incenso in onore di Tsongkhapa, il fondatore della setta dei Gelupa, nato sul luogo dove sorge ora il monastero di Kumbum, costruito per glorificare la memoria del grande maestro.

Da laggiù, mentre il leggero fumo profumato si innalzava davanti a noi, contemplavamo ancora una volta la radiosa visione dell'immenso monastero con le sue numerose case bianche, i suoi palazzi rossi e le innumerevoli "abitazioni degli dèi" sormontate da tetti d'oro. I miei servitori si prosternarono. Yongden si scoprì il capo e io mi inchinai: commossi e silenziosi, sentimmo affiorare in noi le voci delle nostre speranze e dei nostri timori. Allegra fiducia e angoscianti apprensioni si mescolano e si combattono nel cuore di ognuno di noi. Partire per un lungo viaggio in un luogo lontano, in queste regioni dell'Asia, è sempre un'avventura.

Alla fine mi girai rompendo l'incanto che ci tratteneva: gli altri mi seguirono, scendemmo la pista sull'altro versante della montagna. Qualche passo e Kumbum era fuori dalla portata del nostro sguardo...

Il viaggio che avevo in progetto prevedeva di raggiungere Lhasa seguendo un lungo itinerario costeggiando il nord-est del Tibet. Bisognava raggiungere la strada percorsa dalle carovane che andavano da Daqianlu (all'estremità del Sichuan) alla capitale del Tibet e, per arrivarci, attraversare da nord a sud la regione di frontiera ufficialmente compresa nel territorio cinese, ma abitata da tribù di origine tibetana, indipendenti sia da Pechino che da Lhasa e che riconoscevano solo i capi locali.

Partendo da Kumbum sarebbe stato più semplice e rapido seguire, attraverso i chang thang, una delle piste percorse dalle carovane provenienti dal nord. Il confine di queste vaste distese tocca Dangar, una cittadina di frontiera posta a due giorni di cammino da Kumbum. Così il viaggio avrebbe richiesto solo una decina di settimane, tre mesi al massimo, ma serie ragioni mi impedivano di avventurarmi in quella direzione.

Avevo più volte soggiornato in questa regione - quella del lago blu (il Koko Nor). Ero ben nota ai pastori che vi si accampavano e questi, incontrandomi, mi avrebbero subissato di domande sullo scopo del nuovo viaggio. Un anonimato assoluto era la condizione essenziale per il successo dei miei progetti: dovevo seguire le strade dove non correvo il rischio di incontrare nessuno che conoscessi.

Non ho nulla del temperamento di Don Chisciotte e non faccio niente per attirare le avventure: eppure queste non tardarono. Il giorno stesso della nostra partenza, ci mancò poco che non ci scontrassimo con i guidatori di una carovana mongola.

Tra Lousart e Xining, in uno di quegli inenarrabili sentieri cinesi incassati tra pareti di terra alte quattro-cinque metri e larghe a malapena per consentire il passaggio di un carretto, ci scontrammo con un convoglio di cammelli.

Avevamo stabilito che a turno uno dei domestici avrebbe seguito a piedi i muli con i bagagli. Cinque cavalieri quindi, me compresa, avevano una cavalcatura. Ma per evitare a uno degli uomini (erano tutti trapa) la mortificazione di allontanarsi a piedi dal monastero mentre gli altri avevano una cavalcatura, avevo prestato il mio grande mulo nero a uno di loro e viaggiavo in una carrozza cinese, il classico carro senza molle (il jiaozi) della Cina settentrionale che, per mancanza di strade, non può essere usato oltre Xining e Kumbum, in prossimità delle grandi distese del Tibet.

Era questo veicolo a ostruire la strada, di fronte a un centinaio di cammelli carichi di merci. Arrestati nel loro procedere, spinti da quelli che continuavano ad avanzare meccanicamente, i bestioni si schiacciavano nello stretto corridoio.

In quel momento, mi rilassavo passeggiando sulla cresta di una delle muraglie che delimitavano la strada. Dall'alto del mio osservatorio la situazione era chiara. Totale impossibilità di passare contemporaneamente: il carro e i cammelli dovevano tornare indietro e per entrambi significava retrocedere di circa un chilometro.

La consuetudine vuole che, prima di inoltrarsi in una gola del genere, i carrettieri o i conduttori di bestie urlino per avvertire del loro arrivo coloro che potrebbero entrare dalla parte opposta. Non avevamo sentito i mongoli chiamarci e, quanto ai miei uomini, credo che neanche loro si fossero fatti sentire. La colpa era di tutti e due, ma in Oriente questo non conta niente. Bisogna salvaguardare innanzitutto il prestigio. Qualunque cosa pur di non "perdere la faccia", pensano i cinesi e i tibetani. I miei ovviamente condividevano questa opinione, e per non perdere la loro stima, cosa che poteva avere serie conseguenze nelle peregrinazioni avventurose che mi proponevo, bisognava adattarsi al loro parere. Nella fattispecie, la "faccia" esigeva l'arretramento dei cammelli e il procedere trionfante del mio carro.

- Indietro! - disse Yongden al mongolo che camminava in testa e si trovava al momento schiacciato tra i miei cavalieri e i suoi animali che spingevano.

- Indietro! - echeggiarono i miei servitori.

Altri due conduttori accorsero sulla cresta che dominava la gola.

- Impossibile, - disse uno di loro - abbiamo più di cento bestie e voi solo un carro. Ai vostri muli sarà facile tonare indietro.

Continuavo a guardare dall'alto.

In effetti, l'uomo aveva ragione. Logica, buon senso e coscienza ne convenivano: toccava al nostro carro indietreggiare... Ma c'era la "faccia" e, contro questa, logica, buon senso e coscienza in questo paese contavano ben poco. Se avessi ceduto ne avrei pagato le conseguenze, un giorno di vero pericolo, quando avrei avuto bisogno della fiducia e della fermezza dei miei uomini. Quale era il rapporto con l'arretramento di un carro in un sentiero incassato? Nessuno, è ovvio, ma non potevo cambiare la mentalità dei miei compagni di viaggio.

- Indietro! - rispose Yongden alle contestazioni del mongolo.

- Indietro! - echeggiarono gli altri.

La discussione si surriscaldò, si giunse agli insulti, alle minacce. I cammelli aggiungevano i loro versi stonati allo scompiglio; i muli spaventati cercavano di impennarsi e, non riuscendoci per mancanza di spazio, cominciarono a mordersi tra loro... Quel trambusto in fondo al burrone aveva un che di pittoresco.

Un mongolo si mise in spalla un fucile. Le cose precipitarono. Ora, dopo quel tentativo di minaccia, anche volendo, non avrei più potuto cedere.

- Anche noi abbiamo i fucili - risposero i miei, abituati alla vita dei chang thang dove le scaramucce sono frequenti, e imbracciarono le armi che portavano a tracolla.

Si sarebbero ammazzati?...

Probabilmente i mongoli pensarono che per mostrarsi tanto ostinati, uomini così ben vestiti e con così belle cavalcature dovevano occupare un rango di prestigio nella scala sociale, e che ferire o uccidere uno di noi avrebbe avuto serie conseguenze per l'omicida. Si decisero a tornare indietro.

I grossi e lenti cammelli attaccati gli uni agli altri dal naso e dalla coda, in fila da dieci o otto, si prestavano male a questo esercizio. Mentre i conduttori si occupavano di loro, scesi dal mio osservatorio, risalii sul carro causa di tanto scompiglio e, liberato il corridoio, lo traversai con aria dignitosa. La "faccia" era salva.

Ma non avevo il cuore abbastanza "mandarino" per godermi la vittoria senza rimorsi. Cogliendo al passaggio gli sguardi dei cammellieri, feci loro segno, mostrai due dollari cinesi e, passando la mano sotto le tende che avvolgevano il mio veicolo, lasciai cadere le due grandi monete. I mongoli compresero il mio gesto, raccolsero il denaro e lodarono la mia carità. I miei non mi avevano vista... la "faccia" continuava a essere salva!

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Per non attirare l'attenzione e ridurre le spese di viaggio, avevo deciso di viaggiare nel modo più modesto, per lo meno quello che mi sembrava tale all'epoca; più tardi ne avrei conosciuto un altro, ancora più modesto: quello del pellegrino mendicante. Avevo comprato un solo cavallo e sette muli, pensando di affittare per strada le bestie supplementari per il trasporto dei bagagli. Ne avevo anche calcolato il peso di modo che, in caso di bisogno, con i domestici a piedi, sei muli fossero in grado di portare tutti i bagagli. Se fossimo stati costretti a caricare una maggiore quantità di viveri, potevamo utilizzare il cavallo di Yongden e il grande mulo nero che mi ero riservata. Essendo tutti buoni camminatori, non eravamo spaventati da questa prospettiva.

Già a Lanzhou mi dovetti felicitare per la mia previdenza. I mulattieri si rifiutavano di andare a Hezuozhen temendo di vedersi rubare gli animali e di essere maltrattati dai musulmani. Mi dicevano che il viaggio era pericoloso e mi esortavano a cambiare strada. Ma di rado mi lascio convincere a mutare i miei progetti e, alla fine, trovai un uomo che acconsentì ad affittarmi tre muli e ad accompagnarmi fino alla temuta città.

Il cammino non era privo di interessi; traversammo il fiume Tao su una chiatta e penetrammo in una regione di aride montagne dal suolo bianco gesso con un riverbero accecante.

La sfortuna continuava a perseguitarci. Poco dopo aver attraversato il fiume, Yongden fu colto da un violento attacco di febbre. Il chinino che gli diedi ebbe scarsissimo effetto. Insistette per proseguire il viaggio e, pur avendo passato una brutta notte, ci mettemmo in cammino presto, come al solito. Dopo aver resistito coraggiosamente fino a sera, svenne. I ragazzi ebbero appena il tempo di farlo scendere da cavallo per evitargli di cadere; si accasciò sul bordo della strada.

Non eravamo lontani da un villaggio, ma non c'erano locande. Vedendoci in difficoltà, un vecchio akon, dipendente della locale moschea, ci offrì ospitalità. La sua minuscola dimora era composta da un'unica camera, una cucina e una stalla che si affacciava su un cortile che fiancheggiava il muro della piccola moschea.

Quel brav'uomo si ritirò con la moglie in cucina e lasciò la sua stanza al malato. Questi era cosciente solo a metà, delirava e le cose prive di senso che diceva dimostravano che gli tornavano in mente ricordi del suo paese.

Il domestico che aveva funzione di cuoco accese un fuoco in un angolo del cortile per preparare da mangiare senza contaminare la cucina dei nostri ospiti con carne di un animale che non era stato ammazzato secondo il rito musulmano. Mi ero, peraltro, preoccupata di informarli che non c'era del maiale tra le nostre provviste.

Una volta pronta la minestra, mi sedetti anch'io nel cortile a mangiare.

Intorno a me era stato tutto imbiancato con la calce spenta: la casetta, le mura, il recinto, la moschea e la torre. Nessuna figura magica stampata su carta rossa o gialla ornava la porta, nessun altare per gli avi, nessuna statua di divinità si scorgeva all'interno. Uno spirito molto diverso da quello che avvolge i villaggi cinesi si sprigionava da ogni cosa. Il sole scendeva. Distinto nella lunga veste, il nostro vecchio ospite salì sull'umile minareto e, con voce tenue ma ferma, proclamò l'unità di Allah e invitò i fedeli alla preghiera. Poi, nel cielo ancora chiaro, un sottile quarto di luna fece la sua comparsa sopra un grande cipresso e l'Islam si impose, sovrano; anche se così lontano in terra di Cina.

L'indomani Yongden insistette per partire. Niente poteva fargli meglio, diceva, che abbandonare la regione dove aveva preso la febbre. Questa opinione poteva essere giusta, ma soprattutto era impossibile abusare dell'ospitalità della brava gente che ci aveva aperto la porta.

Il nostro cammino continuava in una regione sprovvista d'acqua dove gli abitanti sopravvivono unicamente grazie a quella che raccolgono nelle cisterne durante la stagione delle piogge. Quest'acqua sporca, spesso putrida, di cui dovevamo servirci per il tè e la cucina non conveniva certo a un malato, eppure Yongden non si aggravò, anzi si ristabilì all'improvviso con la stessa velocità con cui si era ammalato.

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Poiché ho parlato di kang, devo spiegare di cosa si tratta. I cinesi del Gansu e i tibetani delle regioni limitrofe, che vivono come i cinesi, non usano il letto. Nelle loro case costruiscono delle pedane in muratura. Le dimensioni sono variabili: certe misurano appena 1,50 m di larghezza e 2,50 di lunghezza, altre formano un rettangolo di tre metri per quattro o anche più grande. Sotto la piattaforma c'è un fuoco che in inverno viene alimentato; la parte superiore diventa quindi una stufa che diffonde calore nella stanza. Ma questo è un vantaggio comunque secondario. La pedana serve soprattutto come letto di notte e di giorno per sedersi al caldo, le gambe incrociate, e mangiare, leggere, scrivere o conversare con i visitatori.

Per conto mio, non c'e sensazione più sgradevole di quella di trovarmi stesa su una superficie che talvolta brucia così tanto da bucare le coperte che si mettono sopra per formare uno strato e proteggersi dalle bruciature. Con una temperatura esterna che sfiora i venticinque gradi sottozero, il vento che si insinua tra le ante delle porte sconnesse e nelle finestre senza vetro dalla carta sempre un po' bucherellata, ci si sente gelare dalla parte che non tocca il kang e arrostire dall'altra. Così si passano le notti a rigirarsi per farsi rosolare a destra e a sinistra come, si dice, accadde a San Lorenzo sulla graticola dei torturatori romani. Capita, peraltro, che i bambini lasciati a dormire sulle piattaforme troppo calde vengano "cotti" vivi. Un certo numero di neonati muore tutti gli anni per questa ragione, con gran disperazione dei genitori, ma senza che il caso serva da esempio alle altre madri. Queste, d'altronde, non hanno nessun altro mezzo a disposizione per preservare i loro piccoli dal freddo.

Un kang ben fatto ha due aperture. Una serve a introdurre il combustibile: di solito una miscela secca di paglia e stereo; dall'altra apertura esce il fumo.

Il forno è ermeticamente chiuso all'interno della stanza di modo che né fumo né gas possano entrare.

Ma è raro trovare kang ben funzionanti. La maggior parte ha delle fessure all'interno della stanza. Altri hanno una sola apertura e così manca il tiraggio. Altri ancora peggiori ricevono il combustibile dallo stesso buco che si apre nella stanza e che resta sempre aperto con insopportabili esalazioni.

Ne ho visti anche alcuni in cui semplici tavole formavano un coperchio sul fuoco che covava sotto la cenere. In certi posti, vicini alle miniere, gli indigeni bruciano anche del carbon fossile in questi kang dissestati.

Su uno di questi c'e mancato poco che mio figlio e io morissimo asfissiati in una fattoria dove ero andata a trovare una donna malata. Era nell'Amdo, parecchi mesi prima che intraprendessi questo viaggio e in un'altra regione del paese. I genitori della malata mi avevano supplicata di restare un altro giorno per vedere l'effetto delle medicine che le avevo somministrato e d'altronde, essendo le strade poco sicure, avevo accettato di passare la notte alla fattoria.

Mi avevano dato la stanza migliore dell'abitazione. Secondo l'uso del paese, la dovevo condividere con mio figlio. Ci servirono un ottimo pasto su tavoli bassi, posti sul kang, poi ci lasciarono e non ci mettemmo molto ad addormentarci vestiti, sempre secondo l'uso del paese, stesi sui cuscini posti sul kang bollente. Nel cuore della notte mi svegliai con la testa pesante, incapace di muovermi. Ebbi comunque quel tanto di lucidità per comprendere quello che stava accadendo. Con grande sforzo chiamai Yongden. Anche lui era semicosciente. E feci fatica a farmi capire.

- Presto, presto, - dissi - alzati, portami via, stiamo per morire.

Dopo qualche istante il ragazzo riuscì a muoversi e si trascinò verso di me. Il kang era largo: il giaciglio di Yongden si trovava dalla parte del muro e il mio dalla parte opposta, vicino alla finestra. Gli scuri erano chiusi, l'oscurità quasi completa. Strisciando a caso attraverso lo spazio che ci separava, Yongden rovesciò i tavolini con i resti della cena, poi, dopo aver sentito la mia testa sotto la mano, la prese e tirò. Nel torpore in cui si trovava, non aveva la nozione esatta dei suoi gesti: sapeva solo che doveva farmi uscire dalla stanza. Trascinata dal ragazzo, raggiunsi il bordo della pedana e caddi pesantemente per terra. Yongden, che si era lasciato scivolare dal kang e si teneva a malapena in piedi, non lasciò la presa e mi strinse più forte. Sentivo le sue dita entrarmi negli occhi, in gola. Continuò a trascinarmi...

Riuscì ad aprire la porta che dava sul cortile, ma le forze lo abbandonarono e mi crollò addosso subito dopo aver oltrepassato la soglia.

Era il 25 dicembre, la notte era bellissima, illuminata dalla luna. Faceva freddo. Secondo le temperature dei giorni passati, il termometro doveva segnare 30 gradi sottozero. Dopo aver rischiato di morire asfissiati, correvamo il pericolo dell'assideramento.

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Altri giorni furono impiegati in occupazioni più utili: consultare i libri e interrogare alcuni lama eruditi. Mi recai anche in un monastero ngagpa in aperta campagna a poca distanza da Labrang. I ngagpa, gli "uomini dalle parole segrete" sono maghi, eredi degli sciamani bön che, prima dell'introduzione del buddhismo in Tibet, svolgevano il ruolo che oggi spetta ai lama. Privati del loro potere, gli sciamani bön si sono presi la rivincita grazie alla superstizione innata nei loro avversari. La cosa è avvenuta naturalmente senza la minima strategia cosciente da parte degli sconfitti.

Il buddhismo predicato in Tibet dai missionari indiani, nell'VIII secolo e in quelli successivi, era molto lontano dal buddhismo originale. Conteneva, accanto a sviluppi filosofici di pregio risalenti alla dottrina primitiva, una quantità di teorie e riti presi a prestito dal sistema religioso, detto tantrico, che dominava allora e domina ancora in India e in Nepal.

In questa sede non pretendo di affrontare l'esame delle oscure origini del tantrismo: basterà dire che questo indirizzo religioso comprende pratiche provenienti dalle più grossolane, o addirittura abiette e ripugnanti, superstizioni: riti magici, metodi di esercizio psichico e teorie filosofiche di valore molto variabile. Gli elementi del sistema tantrico si trovano anche fuori dell'India. Teorie e pratiche analoghe a quelle introdotte in Tibet dai missionari indiani erano già presenti tra gli sciamani bön. Nulla si opponeva a una fusione tra la religione d'importazione e quella indigena. In effetti, molti riti e credenze bön sopravvissero sotto altro nome, nel buddhismo tibetano, mentre i seguaci del bön incorporavano nella loro religione un gran numero di elementi buddhisti.

E così, sotto il nome di ngagpa, sono stati assorbiti veri e propri sciamani nel clero lamaista. Vi occupano un posto distinto, in margine al clero regolare, e il loro ruolo consiste principalmente nel comunicare con i demoni.

Ci sono gruppi indipendenti di ngagpa che hanno i templi dove si riuniscono in periodi prestabiliti e che passano il resto del tempo in famiglia (si possono sposare). Altri ngagpa non fanno parte di nessun gruppo, sono iniziati dal maestro di una setta e praticano, in isolamento, i riti che hanno imparato, per beneficio personale o, più sovente, retribuiti dalle persone che vorrebbero allontanare i guai o con l'intento meno innocente di nuocere a un nemico o con l'intento di farlo morire. La cosiddetta magia nera rientra nell'ambito dei ngagpa e anche se non tutti la praticano, tutti la conoscono.

Alcuni grandi monasteri lamaisti della setta dei "berretti gialli" hanno ritenuto utile prendere come soci, fuori dalle loro mura, alcuni ngagpa che intrattengano, in vece loro, una relazione costante con gli spiriti maligni. Alcuni riti consistono non tanto nel domare questi demoni, ma nel pacificarli e poiché è un culto proibito ai religiosi dei "berretti gialli", questi hanno trovato un modo discreto per ripararsi dai maligni dell'altro mondo facendoli omaggiare dai ngagpa con offerte in cibo. Così si allontanano dal monastero incidenti e malattie e la prosperità sua e dei suoi membri è assicurata.

In cambio di questi servizi, i ngagpa del tempio adiacente al monastero ricevono una sovvenzione.

Il tempio di Labrang era di dimensioni considerevoli e molto ben tenuto.

Gli affreschi sulle pareti rappresentavano i soggetti lugubri e pittoreschi che si ritrovano in tutti gli edifici dedicati alle divinità terribili. Queste sono per lo più ex demoni convertiti o soggiogati con violenza da qualche santo mago che li ha poi costretti a impiegare la loro forza nella difesa della religione lamaista e dei suoi fedeli. Eppure si dice che alcune grandi personalità mistiche rivestano talvolta un aspetto terrificante e demoniaco per terrorizzare e castigare gli esseri malvagi.

Intorno a queste figure misteriose del pantheon tibetano, l'artista aveva riunito, nei suoi affreschi, un'infinità di esseri contorti, maschi e femmine, che scorticavano uomini sfortunati, tirandogli via le budella, pascendosi del cuore o dedicandosi ad altre attività altrettanto "divertenti". I tibetani sono peraltro abituati a raffigurazioni di questo tipo: abbondano nel loro paese e se si escludono gli eruditi, iniziati al loro significato simbolico, nessuno vi presta attenzione.

I ngagpa sono spesso cordiali, privi della tracotanza dei loro confratelli maghi nel clero regolare, escludendo coloro cui si attribuiscono grandi poteri soprannaturali e che godono di un'alta reputazione. La semplicità di comportamento di molti ngagpa dipende probabilmente dal fatto che la loro situazione nel mondo ecclesiastico è di gran lunga inferiore a quella dei monaci di un monastero lamaista. Ma ne ho anche incontrati alcuni la cui cortesia proveniva da una forma di scetticismo che impediva loro di prendere le cose troppo sul serio. Erano animati da una universale benevolenza, un po' pietosa, un po' ironica e molto distante, che distribuivano a tutti e a tutto, senza dimenticare sé stessi.

Fui ricevuta con estrema cortesia dai ngagpa di Labrang. Passai qualche ora a discorrere con loro sorseggiando tè, poi ritornai alla mia locanda.

L'indomani mattina, all'alba, mi rimisi in cammino.

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Molti pensano che un viaggiatore che si inoltri in strade poco battute abbia la sua razione di avventure, leggiadre o drammatiche, ma sempre eccitanti. La realtà è meno romantica. La maggior parte dei giorni trascorre senza che succeda nulla di memorabile. Monotonia, allora? Direi di no. Per colui che sa guardare e sentire, ogni minuto di questa vita libera e vagabonda è un incanto. D'altronde, il viaggiatore è solitamente occupato da un lavoro speciale: ragione o semplicemente pretesto delle sue peregrinazioni. Uno è geografo, l'altro naturalista, io raccoglievo le manifestazioni del pensiero umano, cercando di penetrare il mistero del mondo e di calmare la paura davanti alla sofferenza e alla morte. Filosofie, religioni elette o puerili, sfacciataggini dei maghi, astuzie degli stregoni, estasi dei mistici, era questo l'ambito di ricerca che frugavo con assiduità e pazienza, spigolando qua e là i fatti di cui avevo bisogno. Vi assicuro che anche nei giorni in cui non "accadeva niente" non ero affatto inoperosa.

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