Copertina
Autore Mike Davis
Titolo La città di quarzo
SottotitoloIndagine sul futuro di Los Angeles
Edizionemanifestolibri, Roma, 1993 , pag. 208, dim. 145x210x15 mm , Isbn 978-88-7285-024-4
OriginaleCity of Quartz
EdizioneVintage, New York, 1990
TraduttoreAndrea Rocco
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe sociologia , urbanistica , città
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Indice


UNO SGUARDO DAI PASSATI FUTURI            7

Primo maggio                             12
Il millennio dei costruttori             15

SOLE SPENDENTE O «NOIR»?
GLI INTELLETTUALI DI L.A.                19

I propagandisti                          24
I demistificatori                        29
I «noirs»                                35
Gli esuli                                44
Gli stregoni                             52
I comunardi                              58
I mercenari                              65
Gramsci contro Blade Runner              76

LE LINEE DEL POTERE.
CHI COMANDA A LOS ANGELES?               83

Sole e «Open Shop».
    La congiura dei generi (1840-1850)   86
Gli avventurieri del Nord (1860-1870)    87
Otis e il boom (1880-1910)               90
La città di Harry Chandler (1920-1940)   93
Una città con due teste                  98
Emerge il Westside (anni '50)            99
La risposta alla crisi urbana
    (anni '60 e 70)                     102
La nuova mappa del potere               105
La nuova Piovra                         107
1 pericoli della co-prosperità          110
Il paradossale «Los Angeles Times»      114
La macchina dei soldi in trasformazione 116
Dare GA L.A. Wugokashite iruka          119

FORTEZZA LOS ANGELES                    121

La distruzione dello spazio pubblico    123
La città proibita                       125
Sadismo stradale                        129
Franck Gehry come l'ispettore Callaghan 132
Lo Shopping Center panottico            135
«Robocop in affitto»                    138
Il Lapd. La polizia nell'era spaziale   141
La città carceraria                     144
Paura della folla                       147

ROCCIA E MARTELLO                       151

Vietnam qui                             152
Gangbuster                              154
Little Jimmy contro i Playboy Gangsters 160
Coprifuoco per una generazione          166
Il «black flash»                        170
Il lumpenproletariat rivoluzionario     173
Gioventù buttata                        180
L'econonúa politica del crack           187

LOS ANGELES, ILLUSIONI IN FIAMME        197

Un'Intifada nera?                       200
La grande paura                         204

 

 

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Pagina 19

SOLE SPLENDENTE O «NOIR»? GLI INTELLETTUALI DI LOS ANGELES


«Si deve capire che Los Angeles non è pura città. È invece, e lo è stata fin dal 1888, una merce; qualcosa da pubblicizzare e vendere alla gente degli Stati Uniti come si fa con le sigarette, con le automobili o con gli sciacqui dentali» (Morrow Mayo, in Los Angeles, 1933).

Nell'estate del 1989 una nota rivista di moda, sempre a caccia di novità e tendenze, riferì da Los Angeles che l'ultima moda scoppiata in città era quella dell'«intellettualismo». Dalle celebrità dello spettacolo che compravano decine di paia di occhiali «da intellettuale» alla «gente di Los Angeles che ha fatto dell'intellettualismo uno stile di vita», la città, secondo l'articolo, era nel pieno di un boom di comportamenti libreschi: «Qui c'è un reale interesse a diventare intellettuali, a liberarsi della superficialità, a farsi una cultura». Il corrispondente dalla West Coast della rivista notava con soddisfazione che il «nuovo intellettualismo» che stava travolgendo Los Angeles apparteneva alla stessa lunghezza d'onda delle stravaganze messianiche che l'avevano preceduto in città: quella del perfect body e quella della spiritualità «New Age». Inoltre gli Angelenos avevano già individuato il punto cruciale del successo del loro nuovo passatempo nel fatto che «i libri si comprano» e che un'esplosione di feticismo da merce e di febbrile imprenditorialità avrebbe accompagnato l'installazione della Cultura.

Come dimostra l'aneddoto, la sola evocazione di «intellettuali di Los Angeles» invita immediatamente all'incredulità, se non alle risate. Pertanto, conviene far riferimento fin dall'inizio a una mitologia - quella della distruzione della sensibilità intellettuale nelle bollenti piane di Los Angeles, - che corrisponde di più a impressioni ricevute e che è almeno parzialmente vera. Prima di tutto, Los Angeles viene vista di solito come un terreno culturale particolarmente infecondo, incapace di produrre, fino a oggi, qualsiasi tipo di intellighenzia indigena. A differenza di San Francisco, che ha generato una storia culturale molto peculiare, dagli Argonauts ai Beats, la storia intellettuale veramente indigena di Los Angeles può sembrare uno scaffale vuoto. Eppure - e per ragioni ancora più peculiari - questa città sostanzialmente sradicata è diventata la capitale mondiale di un'immensa industria culturale, che, a partire dagli anni '20, ha «importato» migliaia di scrittori, cineasti e artisti di grandissimo talento. Analogamente, a partire dagli anni '40, l'industria aerospaziale della California del Sud (e i think-tanks a essa collegati) ha prodotto la più grande concentrazione di scienziati e di ingegneri della terra. A Los Angeles, il lavoro intellettuale è reso collettivo da enormi apparati e consumato direttamente dal grande capitale. Quasi tutti o sono sul libro-paga delle corporations o stanno aspettando speranzosi ai cancelli di qualche studio cinematografico.

Questi rapporti da «capitalismo puro» sono invariabilmente giudicati come distruttori dell'identità degli intellettuali «veri», che si autodefiniscono come artigiani o rentiers delle proprie originali produzioni mentali. Intrappolati nelle reti di Hollywood o catturati dalla logica da Dottor Stranamore dell'industria missilistica, i talenti «sedotti» vengono «sprecati», «prostituiti», «banalizzati» o «distrutti». Trasferirsi a «Lotusland», vuol dire troncare i rapporti con la realtà nazionale, perdere radici fatte di storia e di esperienze, rinunciare a mantenere una distanza critica, immergendosi completamente nella spettacolarizzazione e nell'imbroglio.

Confusi nella stessa immagine-sequenza ci sono Fitzgerald ridotto a uno scribacchino alcoolizzato, West che precipita verso la propria apocalisse individuale (scambiata per un dinner-party), Faulkner che riscrive sceneggiature di serie B, Brecht infuriato per le mutilazioni ai suoi lavori, gli «Hollywood Ten» sulla via della prigione, Didion sull'orlo dell'esaurimento nervoso, e così via. Los Angeles (e la sua alter-ego, Hollywood) diventa così una Mahagonny letteraria: città di seduzione e di sconfitta, agli antipodi dell'intelligenza critica.

Eppure questa stessa retorica (che dà il via a una lunga tradizione di testi su Los Angeles, che risale almeno agli anni '20) indica la contemporanea esistenza di potenti energie critiche. Se infatti Los Angeles è divenuta il luogo archetipo della subordinazione docile e di massa dell'«intellighenzia» industrializzata ai programmi del capitale, è stata anche il terreno fertile dove sono nate alcune delle più acute visioni critiche della cultura del tardocapitalismo e, in particolare, della rovina tendenziale degli strati sociali intermedi (un tema ricorrente, da Nathanael West a Robert Towne).

L'esempio più rilevante è il complesso corpus di quello che chiamano «noir» (sia in letteratura che nel cinema): una convergenza fantastica di realismo duro americano, di espressionismo di Weimar e di marxismo esistenziale, tutto concentrato a smascherare un «luogo di luce e di colpa» (Welles) chiamato Los Angeles. In questo caso Los Angeles diventa la controfigura dei capitalismo in generale. Il significato (e la stranezza) fondamentale di Los Angeles nella storia mondiale è il suo venire a giocare il doppio ruolo di utopia e di distopia per il capitalismo avanzato. Lo stesso luogo, come notava Brecht, simbolizza sia il paradiso che l'inferno. Non a caso L.A. è diventata tappa fondamentale nell'itinerario di ogni intellettuale del tardo XX secolo, che deve, prima o poi, venire a dare un'occhiata e dire la sua sulla questione se «Los Angeles unifica tutto» (slogan ufficiale) o se invece è l'incubo finale della storia americana (come viene ritratta nel «noir»). Los Angeles - molto più di New York, Parigi o Tokyo - polarizza il dibattito: è terreno e oggetto di una feroce battaglia ideologica.

In questo capitolo cercherò di tracciare una sintetica storia della cultura prodotta dalle successive ondate di immigrazione intellettuale e dei loro rapporti con le istituzioni culturali dominanti del tempo nella costruzione e decostruzione della mitografia di Los Angeles. Il mio interesse va quindi non tanto alla cultura prodotta a Los Angeles, quanto alla produzione culturale «su» Los Angeles, specialmente quando essa diventa una forza materiale che gioca un ruolo all'interno dell'evoluzione reale della città. Perché, come ha sottolineato Michael Sorkin, «L.A. è probabilmente la città più 'mediata' d'America, visibile quasi soltanto con le lenti fittizie dei suoi mitologi».

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GLI STREGONI


«Se la California del Sud vuole continuare a raccogliere la sfida del suo stesso ambiente [...] la sua necessità suprema [...] è quella di avere sempre uomini abili, creativi, estremamente dotati e molto preparati nel campo della scienza e delle sue applicazioni» (Robert Millikan).

«Nella California del Sud si è riunito il più grande e disparato assortimento di Messia, Stregoni, Santi e Veggenti nella storia delle aberrazioni» (Farnsworth Crowder).

Negli anni '40, non tutti gli intellettuali di rilievo di Los Angeles finirono dietro i cancelli di uno studio cinematografico. Anche considerando i rispettivi valori di scambio del prestigio letterario e di quello scientifico, la famosa scuderia degli scrittori della Mgm era poca cosa se confrontata con la straordinaria concentrazione di premi Nobel radunata intorno al nuovo California Institute of Technology (Cal Tech) di Pasadena dalla metà degli anni '20 in poi. Con un corpo docente (permanente o temporaneo) che comprendeva gente come Einstein, Millikan, Michelson, Von Karman, Oppenheimer, Dobzhansky, Pauling e Noyes, Cal Tech era la prima istituzione dell'Ovest a poter rivendicare il primato a livello nazionale in una delle scienze maggiori, la fisica. Fatto ancora più importante, Cal Tech non era una pura torre d'avorio, ma il nucleo dinamico di una emergente tecnostruttura che possedeva una delle chiavi del futuro della California del Sud. Mentre i suoi ingegneri aeronautici collaudavano i progetti per il DC-3 di Donald Douglas nella loro galleria del vento, e mentre i suoi geologi risolvevano i problemi tecnici dell'industria petrolifera californiana, altri scienziati del Cal Tech si trovavano all'Arroyo Seco di Pasadena, poco sopra la diga di Devil's Gate (dove c'è oggi il Jet Propulsion Laboratory), intenti a dare il via all'era spaziale con i loro innovativi esperimenti balistici. A farla breve, Cal Tech, insieme con il Dipartimento della Difesa, inventò l'economia sudcaliforniana del dopoguerra, fondata sulla scienza.

Ma la stessa Cal Tech era in larga misura invenzione di George Ellery Hale, pioniere dell'astrofisica e fondatore dell'osservatorio di Mount Wilson. Tormentato da Pasadena e dalla sua straordinaria concentrazione di ricchezze «pensionate», Hale progettò un vasto triangolo scientifico-culturale che ruotava intorno all'Osservatorio («il più grande patrimonio della California del Sud»), all'Istituto e alla Huntington Library (di cui in parte ispirò la fondazione). L'infaticabile Hale (molto vicino agli interessi dei Carnegie) fu anche il catalizzatore dell'organizzazione del National Research Council nel 1917, a sostegno della mobilitazione bellica di Woodrow Wilson. Il Nrc era il complesso scientifico-militare-industriale in embrione, che riuniva i maggiori fisici della nazione, gli ingegneri-capo dell'esercito e i capi di corporations largamente dipendenti dalla ricerca scientifica, come AT&T e General Electric. In più, era il modello di collaborazione regionale triangolare che Hale voleva stabilire intorno a Cal Tech e il cui risultato finale fu la creazione dell'industria aerospaziale di Los Angeles.

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L'apparente sinergia tra la cultura delle gangs e Hollywood (un vecchio tema del mondo del cinema) fa sorgere alcuni dubbi sulla tesi di Lipsitz a proposito della convergenza «controegemonica». In uno scritto su un'altra sottocultura fuorilegge, la scena punk dei tardi anni '70 e dei primi anni '80, David James esprime pessimismo riguardo al fatto che qualsiasi pratica culturale contemporanea, per quanto transitoria e marginale, possa sfuggire a una istantanea associazione e a un riciclaggio da parte dei media dominanti. L'esperienza di Nwa, e ancora meno sottilmente quella dell'intero genere Colors, fa capire che Hollywood è desiderosa di cavare dai barrios e dai ghetti fino all'ultima immagine di vizio, di autodistruzione e di olocausto delle comunità locali. Se le fabbriche dei sogni sono così felici di riprodurre l'incubo come idillio, che ne è del potere di opposizione del realismo documentaristico (una domanda che trascende naturalmente la lotta di classe sulla configurazione ideologica di Los Angeles)? La sconfortante risposta che dà James è che «momenti esemplari» di negazione possono oggi essere colti solo come schermaglie al margine estremo della cultura; la resistenza diviene permanentemente «congetturale». Da qualche parte, tra l'ottimismo gramsciano di Lipsitz e il pessimismo francofortese di James, esiste una reale possibilità di una cultura di opposizione a Los Angeles. Come avrebbe senza dubbio sottolineato Antonio Gramsci, una radicale analisi strutturale della città (del genere di quella compiuta dalla «L.A. School») può acquisire forza sociale solo se incorporata in una visione esperienziale alternativa, in questo caso l'enorme Terzo Mondo di Los Angeles i cui figli saranno la Los Angeles del prossimo millennio. In questa società emergente, polietnica e polilinguistica (con gli Angios come minoranza in declino), le condizioni strutturali di intervento sulla cultura popolare sono in flusso continuo. Chi può predire come i lunghi anni di lotta che ci stanno davanti, prima che i nuovi immigrati Latinos possano sperare di raggiungere un'eguaglianza politica e sociale, influenzeranno la cultura dei ghetti ispanici? Queste città dentro la città saranno colonizzate da un'etica del lavoro neo-taiwanese fatta di frugalità e sottomissione, si disintegreranno in lotte di gang tipo Arancia Meccanica, produrranno una subcultura di opposizione (come il radicalismo yiddish della New York del ragtime) o, forse, tutte e tre le cose insieme? E i confini tra i diversi gruppi diventeranno faglie di conflitti o generatori a alto voltaggio di una cultura urbana alternativa, guidata da avanguardie polietniche?

Certo, «interculturalismo» è uno slogan ambiguo di questi tempi: definisce sia il progranuna delle istituzioni culturali dominanti (che puntano sull'idea di un collegamento, a livello di Pacific Rim, di arti e «performances» sponsorizzate dalle corporations), sia quello della guerriglia di opposizione (che sogna una inedita coalizione di artisti di strada provenienti dalle diverse comunità). Pur tenendo conto dei tradizionali avvertimenti - da Louis Adamic a David James - sul fatto che le opposizioni intellettuali e culturali nella capitale dell'Industria Culturale sono sempre congiunturali (se non congetturali), qualche credito deve essere dato alla osservazione di George Lipsitz: quando le culture di strada di Los Angeles vengono sfregate tra loro nel verso giusto, emettono una luce di straordinario calore e chiarezza.

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FORTEZZA LOS ANGELES


Dai giardini ricamati del Westside benestante spuntano come pianticelle inquietanti i cartelli che minacciano 'Risposta Armata!'. I quartieri ancora più esclusivi, situati nei canyon e sulle colline, si isolano del tutto dietro a muri di cinta impenetrabili, sorvegliati da telecamere e guardie armate. A Downtown, il nuovo piano regolatore ha fatto del distretto direzionale della città un vero e proprio castello feudale, le cui torri scintillanti sono separate dai quartieri poveri che le circondano da monumentali bastioni architettonici. A Hollywood, Frank Gehry, star dell'architettura locale, noto per il suo «umanesimo», crea l'apoteosi del look da stato d'assedio con una biblioteca pensata come un fortino della legione straniera. Nel distretto di Westlake e nella San Fernando Valley, la polizia impegnata nella «guerra alla droga», erige barricate permanenti nelle strade e sigilla interi quartieri poveri. A Watts, il costruttore Alexander Haagen ha presentato il suo progetto per ricolonizzare i centri urbani fatiscenti: un centro commerciale «panottico» circondato da reticolati metallici e un distaccamento permanente di polizia, in una torretta di sorveglianza. Infine, alle soglie del prossimo millennio, un ex-capo della polizia propone un «occhio gigante» contro il crimine - un satellite geostazionario a uso delle forze dell'ordine.

Benvenuti nella Los Angeles postliberal, dove la difesa dei livelli di vita di maggior lusso si traduce nella continua repressione dello spazio e del movimento, appoggiata dall'onnipresente Risposta Armata. Questa ossessione per i sistemi di sicurezza fisica e, contemporaneamente, per il controllo architettonico delle delimitazioni sociali, è diventata lo zeitgeist della ristrutturazione urbanistica, il tema centrale del nuovo ambiente edificato degli anni '90. Eppure, la teoria urbanistica contemporanea, pur dibattendo il ruolo delle tecnologie elettroniche nello spazio postmoderno e discutendo la dispersione delle funzioni urbane in una serie di «galassie» nell'agglomerato metropolitano policentrico, ha stranamente evitato di riconoscere la militarizzazione della vita cittadina così cupamente evidente a chi percorre le strade. Nelle sue apocalissi fantascientifiche Hollywood si è rivelata più consapevole e politicamente percettiva, rappresentando una superficie urbana indurita dalle polarizzazioni dell'era reaganiana. Immagini di centri urbani coatti (Fuga da New York, Running Man), squadre della morte poliziesche ad alta tecnologia (Blade Runner), edifici dotati di sensi (Die Hard), Bantustans urbani (They live!), guerriglie urbane di tipo vietnamita (Colors) e così via, per limitarci solo alle tendenze attuali.

Queste visioni distopiche indicano quanto l'odierna faraonica escalation nella sicurezza commerciale abbia soppiantato le speranze di una riforma urbana e di un'integrazione sociale. Le predizioni pessimiste fatte nel 1969, durante l'amministrazione Nixon, dalla National Commission on the Causes and Prevention of Violence si sono tragicamente avverate: viviamo in «città fortezze», brutalmente divise in «cellule fortificate» della società benestante e «luoghi di terrore» dove la polizia combatte i poveri criminalizzati. La Seconda Guerra Civile, cominciata nelle lunghe estati calde degli anni Sessanta è stata istituzionalizzata nella struttura dello spazio urbano. Il vecchio paradigma liberal di un controllo sociale che tenta di bilanciare repressione e riforma, è stato ormai sostituito da una retorica di guerra sociale nella quale gli interessi della middle class e delle classi povere non vengono più presi in considerazione. In città come Los Angeles, sulla cattiva strada della postmodernità, si può osservare la fusione senza precedenti della progettazione urbana, dell'architettura e dell'apparato di polizia in un unico, totale, sistema di sicurezza.

Questa coalescenza epocale ha importanti implicazioni per le relazioni sociali nell'ambiente edificato. In primo luogo, il mercato della sicurezza genera di per sé una sua domanda paranoica. La sicurezza diviene così un bene posizionale definito dall'accesso che il reddito consente a «servizi di protezione» privati o all'appartenenza a speciali enclaves residenziali e quartieri controllati. Come simbolo di prestigio - e qualche volta come linea di demarcazione fra coloro che sono semplicemente benestanti e i veramente ricchi - la sicurezza è unità di misura di una incoluminità personale, ma più ancora dell'isolamento dell'individuo da gruppi e persone indesiderabili nella sfera dell'habitat, del lavoro e dei viaggi.

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