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| << | < | > | >> |Indice11 Il climaterio urbano 25 La prevalenza degli slum 51 Il tradimento dello stato 69 Le illusioni del self-help 91 Haussmann ai Tropici 113 Ecologia dello slum 137 I Pas all'assalto del Terzo mondo 157 Un'umanità in surplus? 177 Epilogo. Giù per Vietnam Street 185 Note 213 Ringraziamenti |
| << | < | > | >> |Pagina 18Ritorno a Dickens
La dinamica dell'urbanizzazione del Terzo mondo ricapitola
e al contempo fonde i precedenti di Europa e Nord America del
Diciannovesimo e dell'inizio del Ventesimo secolo. In Cina, la più
grande rivoluzione industriale nella storia è la leva di Archimede che sposta
una popolazione grande quanto quella dell'Europa dai villaggi rurali alle città
soffocate dallo smog e che si inerpicano verso il cielo: dalle riforme di
mercato dei tardi anni settanta a oggi, si stima che più di duecento milioni di
cinesi si siano trasferiti dalle aree rurali alle città. Altri duecentocinquanta
o trecento milioni di persone - la successiva "ondata contadina" - dovrebbero
seguire nei decenni in arrivo. In seguito a questo
colossale afflusso, 166 città cinesi nel 2005 (contro appena nove
città statunitensi) avevano una popolazione superiore al milione. Città che
hanno vissuto un boom industriale come Dong-guan, Shenzhen, Fushan e Chengchow
sono le Sheffield e Pittsburgh del postmoderno. Come ha recentemente messo in
evidenza il "Financial Times", nell'arco di un decennio "la Cina cesserà di
essere il paese prevalentemente rurale che è stato per millenni". In effetti,
il grande finestrone del World Financial Centre di Shanghai potrebbe ben presto
affacciarsi su un vasto mondo urbano mai immaginato non solo da Mao ma neppure
da Le Corbusier.
------------------------------------------------------------------- Fig. 4 Urbanizzazione industriale della Cina (percentuale urbana) Popolazione Pil 1949 11 - 1978 13 - 2003 38 54 2020 (proiezione) 63 85 ------------------------------------------------------------------- È improbabile che anche solo cinquant'anni fa qualcuno potesse presagire che Seoul, con i suoi campi profughi e le sue macerie di guerra, avrebbe compiuto una metamorfosi così vertiginosa (un incredibile 11,4 percento l'anno durante gli anni sessanta) trasformandosi in una megalopoli grande quanto la Greater New York - ma d'altra parte quale vittoriano avrebbe potuto prefigurarsi che negli anni venti sarebbe esistita una città come Los Angeles? Comunque, imprevedibile quanto le sue specifiche storie locali e i suoi miracoli urbani, l'urbanizzazione contemporanea dell'Asia orientale, accompagnata da un Pil triplicato negli ultimi quarant'anni, conserva una relazione quasi classica tra crescita manifatturiera e migrazione urbana. L'ottanta percento del proletariato industriale di Marx oggi vive in Cina o in altri luoghi al di fuori dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti.
In gran parte del mondo in via di sviluppo, però, la crescita
delle città è priva dei potenti motori di esportazione manifatturiera posseduti
dalla Cina, dalla Corea e da Taiwan, oltre che del
vasto afflusso di capitale estero di cui dispone la Cina (attualmente
pari a metà dell'investimento estero totale nell'intero mondo in via
di sviluppo). Dalla metà degli anni ottanta, le grandi città industriali del Sud
del mondo - Bombay, Johannesburg, Buenos Aires,
Belo Horizonte e San Paolo - sono state tutte colpite da pesanti
chiusure di impianti e da una tendenziale deindustrializzazione.
Altrove, l'urbanizzazione è stata separata più radicalmente
dall'industrializzazione, perfino dallo sviluppo in sé e, nell'Africa
sub-sahariana, da quel presunto
sine qua non
dell'urbanizzazione che è l'aumento della produttività agricola. La dimensione
dell'economia di una città, come risultato, spesso mostra scarsissima relazione
con l'entità della sua popolazione, e viceversa. La figura 5 illustra questa
disparità tra livelli di popolazione e Pil per le maggiori aree metropolitane.
------------------------------------------------------------------- Fig. 5 Popolazione e Pil: le dieci città maggiori (1) per popolazione 2000 (2) per Pil 1996 (posizione pop. 2000) 1 Tokyo Tokyo (1) 2 Città del Messico New York (3) 3 New York Los Angeles (8) 4 Seoul Osaka (9) 5 San Paolo Parigi (25) 6 Bombay Londra (19) 7 Delhi Chicago (26) 8 Los Angeles San Francisco (35) 9 Osaka Düsseldorf (46) 10 Giacarta Boston (48) ------------------------------------------------------------------- Qualcuno potrebbe sostenere che l'urbanizzazione senza industrializzazione è l'espressione di una tendenza inesorabile: la tendenza, insita nel capitalismo del silicio, a sganciare la crescita della produzione da quella dell'occupazione. Ma in Africa, in America Latina, in Medio Oriente e in gran parte dell'Asia meridionale, l'urbanizzazione senza crescita, come vedremo più avanti, rappresenta più palesemente l'eredità di una congiuntura politica globale - la crisi debitoria mondiale dei tardi anni settanta e la conseguente ristrutturazione, guidata dal Fmi, delle economie del Terzo mondo negli anni ottanta - che non il risultato di una qualche ipotetica ferrea legge del progresso tecnologico. | << | < | > | >> |Pagina 51Se il capitalismo incontrollato ha una faccia complessivamente inaccettabile, ancora peggio è uno stato corrotto che opera a favore dei ricchi. In tali circostanze, c'è poco da guadagnare cercando anche solo di migliorare il sistema. Alan Gilbert e Peter Ward "Stupisce," consideravano recentemente due geografi, "che in tutto il periodo postbellico nessun autore abbia mai pensato a ricostruire la mutevole geografia dell'insediamento a basso reddito in alcuna città del Terzo mondo." Né, come è noto, qualcuno ha finora tentato una rassegna storica per quanto riguarda il modello globale moderno dell'insediamento informale. La varietà delle storie nazionali e le specificità urbane rendono una sintesi del genere un compito scoraggiante. È però ugualmente possibile azzardare una periodizzazione approssimativa che metta in evidenza le principali linee di tendenza e di frattura presenti nell'urbanizzazione della povertà globale.
Ma prima di considerare quali sono i motivi per cui nella
seconda metà del Ventesimo secolo le città del Terzo mondo e
i loro slum abbiano subito una crescita così rapida, sarà indispensabile
comprendere perché tali città e tali slum siano cresciuti tanto
lentamente
nella prima metà. Se è vero che esistono molte eccezioni, la maggior parte delle
odierne megalopoli del Sud mostrano una tendenza comune: un regime di crescita
relativamente lento, quando non addirittura ritardato, quindi un'improvvisa
accelerazione fino al rapido sviluppo negli anni cinquanta e sessanta, in cui
gli immigrati rurali trovavano rifugio sempre più frequentemente negli slum
periferici. In precedenza, nel corso del Ventesimo secolo, il massiccio
trasferimento della povertà rurale nelle città veniva ostacolato da equivalenti
economici e politici delle mura cittadine — l'accesso al centro urbano e, ancora
più importante, il diritto di cittadinanza urbana, venivano sistematicamente
negati a vasti settori della popolazione agricola.
Tenere fuori i contadini Una delle barriere principali, chiaramente, è stato il colonialismo europeo, che nella sua forma più estrema - quella delle città coloniali britanniche dell'Africa orientale e meridionale - negava alle popolazioni il diritto di proprietà di terreno urbano e di residenza permanente. I britannici, da sempre sostenitori dell'ideologia del divide et impera, temevano che la vita di città avrebbe "detribalizzato" gli africani alimentando solidarietà anticoloniali. La migrazione urbana era controllata tramite le pass laws, leggi che regolavano gli spostamenti dei locali, mentre le ordinanze sul vagabondaggio penalizzavano la manodopera informale. Fino al 1954, per esempio, gli africani erano considerati solo residenti temporanei in Nairobi, città suddivisa razzialmente in zone, e non erano autorizzati a detenere beni immobili in locazione. In modo analogo a Dar-es-Salaam, secondo la ricercatrice Karin Nuru, gli africani "erano solo tollerati come manodopera temporanea, e una volta finito il lavoro erano tenuti a tornare nelle campagne". In Rhodesia (Zimbabwe) gli africani hanno dovuto attendere fino alla vigilia dell'indipendenza per potere acquisire il diritto di possedere un'abitazione urbana, mentre a Lusaka - definita "una città perfettamente ordinata, segmentata per razza, classe e genere" - i residenti africani erano considerati "cittadini più o meno temporanei, la cui unica funzione in città era quella di servire il personale dell'amministrazione". L'apartheid, ovviamente, portò questo sistema al suo livello estremo di utopia negativa. Poggiando sulle fondamenta del razzismo coloniale, la legislazione postbellica del Sudafrica non solo ha criminalizzato la migrazione urbana, ma ha anche provveduto allo sradicamento, con il massimo della brutalità, delle comunità di colore storiche dei centri cittadini. Quasi un milione di persone sono state espulse da aree presunte "bianche", e come risultato il livello netto di urbanizzazione è rimasto quasi stabile tra il 1950 (quarantatré percento) e il 1990 (quarantotto percento). Anzi, negli anni sessanta si è assistito a un nuovo deflusso di africani dalle aree urbane. Alla fine, però, questo ideale di "città bianche, campagne nere" si è trovato a scontrarsi con le esigenze del mercato del lavoro del grande capitale, oltre che con l'eroica resistenza delle sue vittime. Anche nel subcontinente indiano, i britannici ricorsero alla segregazione e al controllo di polizia sull'afflusso dalle campagne. Nel suo brillante studio sulle città dell'Uttar Pradesh durante gli anni tra le due guerre, Nandini Gooptu fa la cronaca degli incessanti sforzi delle autorità coloniali e delle nuove élite indigene affrancate di sospingere i poveri ai margini delle città e oltre. I rinnovati Town Improvement Trusts, in particolare, furono efficacissimi nello sgombrare gli slum e rimuovere i cosiddetti "bubboni" dagli interstizi delle aree residenziali e commerciali più ambite e nel preservare una zonizzazione spaziale intorno ai quartieri dei ceti medi coloniali e indigeni. Contemporaneamente, "norme sugli sconfinamenti" imposte con rigore rendevano illegali sia le occupazioni abusive sia il commercio in strada. Al tempo stesso la crescita economica urbana che si era prodotta prima della guerra nel Raj assumeva nel migliore dei casi un carattere saltuario - perfino Bombay, con le sue celebri élite imprenditoriali e le sue fabbriche tessili, cresceva lentamente, non arrivando neppure a raddoppiare la popolazione nel mezzo secolo tra il 1891 e il 1941. Nonostante la loro avversione per i grandi insediamenti di indigeni nelle città, i britannici sono stati molto probabilmente i più grandi creatori di slum di tutti i tempi. Le loro politiche in Africa costringevano la forza lavoro locale a vivere in precarie baraccopoli ai margini delle città segregate e chiuse. In India, Birmania e Ceylon, il loro rifiuto di migliorare le condizioni igieniche o di dotare delle più rudimentali infrastrutture i quartieri indigeni provocò un numero enorme di morti in seguito alle epidemie dell'inizio del Ventesimo secolo (peste, colera, influenza) e creò immensi problemi di miseria urbana, che sarebbero stati ereditati dalle élite nazionali dopo l'indipendenza. Anche gli altri imperi hanno tentato, con maggiore o minore successo, di limitare e controllare la migrazione rurale. A parte qualche rara eccezione era scarsissimo il valore aggiunto, derivante dalle attività manifatturiere o dalla lavorazione delle materie prime, che veniva lasciato nei porti coloniali o negli snodi dei trasporti perché generasse occupazione ufficiale e crescita urbana. Dappertutto la manodopera indigena veniva chiusa in slum e baraccamenti. Nelle città congolesi, secondo un recente testo di storia, lo stato coloniale "mantenne un controllo relativamente efficace sugli afflussi, e una tentacolare rete normativa intorno alle città, soffocando sia il piccolo commercio al di fuori dei canali prescritti sia l'edilizia abitativa 'anarchica'". Lo storico Jean Suret-Canale, intanto, ci ricorda che nell'Africa tropicale i francesi regolamentavano rigidamente i movimenti della manodopera rurale e contemporaneamente relegavano gli abitanti cittadini africani nello squallore delle periferie. In slum coloniali come Medina (Dakar), Treichville (Ahidjian) e Poto-poto (Brazzaville), le strade "non erano che piste di sabbia o fango... invece delle fognature c'era solo qualche cloaca, di solito a cielo aperto o coperta alla meglio con lastroni di selce; l'acqua scarseggiava o mancava del tutto, e davanti alle poche pompe pubbliche si formavano code in attesa fin dalle prime ore dell'alba. L'illuminazione pubblica era riservata esclusivamente ai quartieri degli europei. Il sovraffollamento creava fortissimi rischi per la salute". In realtà questo che fino agli anni cinquanta è stato un rifiuto pressoché universale di fornire un'infrastruttura sanitaria sia pur minima per i "quartieri indigeni" non era semplicemente frutto di spilorceria: simboleggiava con esattezza l'assenza di qualsiasi "diritto alla città" per i nativi. Ma il colonialismo europeo non era l'unico sistema internazionale di controllo della crescita urbana. Benché portato al potere da rivolte contadine, anche lo stalinismo asiatico cercò di tamponare l'afflusso dalle campagne. | << | < | > | >> |Pagina 93Rimuovere gli "ostacoli umani"La segregazione urbana non è uno status quo congelato quanto un'incessante guerra sociale in cui lo stato interviene regolarmente in nome del "progresso", dell'"abbellimento" e perfino della "giustizia sociale per i poveri" per ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, dell'élite dei proprietari di case e dei pendolari delle classi medie. Come nella Parigi degli anni sessanta dell'Ottocento, sotto la guida fanatica del barone Haussmann, la ristrutturazione urbana tende ancora a massimizzare simultaneamente il profitto privato e il controllo sociale. L'odierna scala di rimozione della popolazione è immensa: ogni anno centinaia di migliaia, a volte milioni, di poveri — tanto inquilini legittimi quanto occupanti abusivi — vengono espulsi con la forza dai quartieri del Terzo mondo. I poveri urbani, di conseguenza, sono nomadi, "transitanti in un perpetuo stato di ricollocazione" (nella formula usata dall'urbanista Tunde Agbola per definire la condizione di queste fasce di popolazione nella sua nativa Lagos). E come i sans culottes scacciati dai loro antichi quartiers da Haussmann — a cui Blanqui rivolse un famoso attacco — essi sono "stanchi di grandiosi atti omicidi... questo vasto spostamento di pietre attuato dal dispotismo". E non ne possono più anche del vetusto linguaggio della modernizzazione che li definisce "ostacoli umani" (per citare le autorità di Dakar che negli anni settanta hanno sloggiato novantamila residenti dalle bidonvilles centrali). I più intensi conflitti di classe per gli spazi urbani, ovviamente, hanno luogo nei centri cittadini e nei maggiori nodi urbani. In uno studio esemplare Erhard Berner presenta il caso di Manila, dove i valori della proprietà globalizzata collidono con il disperato bisogno dei poveri di trovarsi vicino alle centralizzate fonti di guadagno. Metro Manila è una delle aree più densamente popolate del mondo. Il prezzo di un metro quadrato in una zona che sia appena relativamente vicina ai centri commerciali supera di gran lunga il reddito annuo di un conducente di mototaxi o di una guardia di sicurezza. Eppure, la natura stessa delle possibili fonti di guadagno impone di stare vicini a dove c'è il movimento, perché la distanza dal luogo di lavoro comporta costi proibitivi in termini di tempo e denaro... Il risultato logico è l'ampia diffusione dello squatting. Praticamente ogni buco lasciato aperto dallo sviluppo edilizio della città viene immediatamente riempito da insediamenti improvvisati che battono ogni record di densità di popolazione. Venditori ambulanti e imprenditori informali affollano anch'essi le piazze di Manila, gli angoli delle sue strade e i parchi. Berner descrive l'incapacità dei meccanismi di mercato o anche della sicurezza privata di arginare questa invasione di poveri che, dopo tutto, non fanno altro che agire da attori economici razionali - alla fine, i proprietari delle case dipendono dalla repressione dello stato per tenere a bada gli squatter e gli ambulanti, oltre che per sloggiare popolazioni residue del proletariato degli affittuari e degli abitanti dei caseggiati popolari. Indipendentemente dalle loro ideologie politiche e dai diversi livelli di tolleranza nei confronti degli squatter e degli insediamenti informali nelle loro periferie, moltissime amministrazioni cittadine del Terzo mondo sono impegnate in un conflitto permanente con i poveri nelle aree centrali. In alcune città - Rio è un caso famoso - lo sgombero degli slum è in corso da generazioni, ma ha guadagnato un impulso irresistibile negli anni settanta, con il boom dei valori dei terreni. Alcuni governi metropolitani - il Cairo, Bombay, Delhi e città del Messico, per citarne qualcuno - hanno costruito città satellite per indurre i residenti poveri a trasferirsi in periferia, ma in molti casi le nuove città hanno semplicemente assorbito altra popolazione dalle campagne adiacenti (o, come nel caso di Navi Mumbai, pendolari di ceto medio) mentre i poveri urbani tradizionali si sono aggrappati disperatamente a quartieri più vicini ai lavori e ai servizi situati in centro. Il risultato è stato che abusivi e affittuari, e talvolta perfino i piccoli proprietari, vengono abitualmente sloggiati senza troppe cerimonie, senza indennizzi né diritto di appello. Nelle grandi città del Terzo mondo, il ruolo coercitivo da Panopticon di "Haussmann" viene svolto da agenzie di sviluppo destinate specificamente a questo; finanziate da prestatori esteri come la Banca mondiale e immuni dai veti locali, il loro mandato consiste nello sgomberare, costruire e difendere isole di cybermodernità in mezzo a necessità urbane insoddisfatte e al generale sottosviluppo. L'urbanista Solomon Benjamin ha studiato l'esempio di Bangalore, dove l'Agenda Task Force, l'organismo che dirige la formulazione generale delle decisioni strategiche, è solidamente nelle mani del primo ministro e degli interessi delle maggiori corporation, con un livello insignificante di responsabilità nei confronti dei rappresentanti eletti. "Lo zelo con cui l'élite politica ha cercato di trasformare Bangalore in un'altra Singapore si è tradotto in una vasta attività di espulsioni e demolizioni di insediamenti, soprattutto piccoli nuclei di attività commerciali in zone urbane produttive. I terreni sgomberati vengono riassegnati con il piano regolatore a gruppi di interesse di reddito superiore, incluse le corporation." Similmente a Delhi - dove Banashree Chatterjimitra rileva che il governo ha totalmente "sovvertito l'obiettivo di procurare terreni per l'edilizia a basso reddito" permettendo che ad appropriarsene indebitamente fossero i ceti medi - l'autorità preposta allo sviluppo urbano ha individuato quasi mezzo milione di abusivi da sfrattare o da sottoporre a "ricollocazione volontaria". La capitale indiana offre una brutale conferma all'affermazione di Jeremy Seabrook secondo la quale " 'infrastruttura' è la nuova parola in codice per lo sgombero senza cerimonia dei fragili ripari dei poveri". Sorta caoticamente sulle rive dello Yamuna, il fiume di Delhi, Yamuna Pushta è una grande e poverissima jhuggi (città di irregolari) di centocinquantamila abitanti, soprattutto musulmani, profughi del Bengala. Nonostante le proteste e le sommosse, nel 2004 è iniziato lo sgombero per far posto a una passeggiata lungo il fiume e a strutture per turisti. Mentre il governo incassa gli elogi internazionali per il suo nuovo "piano verde", i residenti vengono deportati con i camion verso un nuovo slum periferico distante una ventina di chilometri, anche se i dati ufficiali, secondo l'"Industan Times", "rivelavano che lo spostamento degli abitanti della jhuggi della capitale aveva ridotto il reddito medio delle famiglie trasferite del cinquanta percento circa". "Ci tocca spendere almeno la metà di quello che guadagniamo per raggiungere i nostri posti di lavoro in città," denunciavano gli sfollati all'inviato di un altro quotidiano. | << | < | > | >> |Pagina 137Dopo quella enigmatica risata, cambiarono subito argomento. Come se la cavavano, giù a casa, a sopravvivere al Pas? Fidelis Odun Balogun Gli slum, per quanto mortali e insicuri, hanno un brillante futuro. Ancora per qualche tempo la campagna continuerà a ospitare la maggioranza dei poveri del mondo, ma questo dubbio onore passerà agli slum urbani non più tardi del 2035. Almeno la metà della imminente esplosione della popolazione urbana del Terzo mondo andrà messa in conto alle comunità informali. Due miliardi di abitanti di slum entro il 2030 o il 2040 è una prospettiva mostruosa, quasi inimmaginabile, ma la povertà urbana scavalca e supera le popolazioni degli slum in sé. I ricercatori dell'UN-Urban Observatory Project ammoniscono che entro il 2020 "la povertà urbana nel mondo potrebbe toccare tra il quarantacinque e il cinquanta percento della popolazione totale che vive nelle città". L'evoluzione di questa nuova povertà urbana, come abbiamo visto, ha seguito un processo storico non lineare. Il lento incrostarsi delle baraccopoli sul guscio della città è stato punteggiato da tempeste di miseria e scoppi improvvisi di edificazioni di slum. In una raccolta di racconti intitolata Adjusted Lives, lo scrittore nigeriano Fidelis Balogun descrive l'avvento del programma di aggiustamento strutturale (Pas) imposto dal Fmi al suo paese nella metà degli anni ottanta come l'equivalente di una grande catastrofe naturale, una catastrofe che ha distrutto per sempre l'antica anima di Lagos, "rischiavizzando" i nigeriani della città. La logica perversa di questo programma economico sembrerebbe funzionare così: per ridare vita all'economia agonizzante, occorreva prima "pasizzare" la maggioranza non privilegiata dei cittadini — risucchiarne cioè tutta la linfa. I ceti medi sono scomparsi in brevissimo tempo e i cumuli di rifiuti dei pochi sempre più ricchi sono diventati la mensa della moltiplicata popolazione dei tragicamente poveri. Quello che era uno stillicidio di cervelli, verso i ricchi paesi arabi petroliferi e il mondo occidentale, sarebbe diventato un fiume in piena.
La lamentela di Balogun sul "privatizzare a tutto vapore e diventare ogni
giorno più affamati", e la sua enumerazione delle
conseguenze nefaste del Pas, appariranno istantaneamente familiari non solo a
coloro che sono sopravvissuti agli altri trenta
Pas africani, ma anche a centinaia di milioni di asiatici e latinoamericani. Gli
anni ottanta - quando il Fmi e la Banca mondiale hanno cominciato a usare la
leva del debito per ristrutturare le economie di gran parte del Terzo mondo -
sono stati gli anni in cui lo slum è diventato un'implacabile prospettiva futura
non soltanto per i migranti rurali poveri, ma anche per milioni di tradizionali
abitanti urbani sfollati o gettati in miseria dalla violenza
dell'"aggiustamento".
Il big bang della povertà urbana Nel 1974-75, il Fondo monetario internazionale, seguito dalla Banca mondiale, ha spostato l'attenzione dai paesi industriali sviluppati a un Terzo mondo che barcollava sotto l'impatto dei prezzi del petrolio saliti alle stelle. Aumentando via via i suoi prestiti, il Fmi ha ampliato la portata delle "condizioni" e degli "aggiustamenti strutturali" imposti coercitivamente sulle nazioni clienti. Come sottolinea l'economista Frances Stewart nel suo importante studio, gli "sviluppi esogeni che davvero necessitavano di aggiustamento - i maggiori dei quali erano il calo dei prezzi all'ingrosso e l'esorbitante servizio del prestito - non sono stati mai affrontati da queste istituzioni", mentre ogni aspetto della politica interna e ogni programma pubblico erano considerati terreno di caccia per i tagli di spesa. Nell'agosto del 1982, quando il Messico minacciava di interrompere i pagamenti per il rimborso del prestito, Fmi e Banca mondiale, in sincronia con le maggiori banche commerciali, erano ormai diventati espliciti strumenti della rivoluzione capitalistica internazionale promossa dai regimi di Reagan, Thatcher e Kohl. Il piano Baker del 1985 (che prendeva il nome dal segretario del Tesoro James Baker, ma in realtà redatto dal suo vicesegretario, Richard Darman) chiedeva apertamente ai quindici maggiori debitori del Terzo mondo di abbandonare le strategie statali di sviluppo in cambio di nuovi prestiti e della possibilità di continuare ad avere un posto nell'economia mondiale. Il piano inoltre conferiva alla Banca mondiale il ruolo di gestore di lungo termine delle decine di programmi di aggiustamento strutturale che stavano modellando il nuovo mondo ai dettami del cosiddetto "Washington consensus". Questo, si sa, è un mondo in cui le rivendicazioni delle banche e dei creditori stranieri hanno sempre la precedenza sulle necessità di sopravvivenza dei poveri rurali e urbani; è un mondo in cui si considera "normale" che un paese povero come l'Uganda spenda pro capite ogni anno dodici volte di più per la restituzione del debito che per le cure sanitarie, nel bel mezzo della crisi dell'Aids. Come evidenzia The Challenge of Slums, i Pas erano "per natura deliberatamente antiurbani" e destinati a rovesciare le eventuali "preferenzialità urbane" presenti nelle precedenti politiche di welfare, nella struttura fiscale o nell'investimento pubblico. Dappertutto il Fmi e la Banca mondiale - agendo da ufficiali giudiziari delle grandi banche e sostenuti dalle amministrazioni di Reagan e di George H. Bush - hanno offerto ai paesi poveri lo stesso calice avvelenato della svalutazione, della privatizzazione, della rimozione dei controlli sulle importazioni e dei sussidi alimentari, del forzato recupero dei costi nella sanità e nell'istruzione, e del feroce ridimensionamento del settore pubblico. (Un ben noto telegramma del segretario del Tesoro George Schultz ai funzionari dell'Usaid all'estero ordinava: "Nella maggior parte dei casi le aziende pubbliche andranno privatizzate".) Al tempo stesso i Pas stavano mandando in rovina i piccoli proprietari rurali eliminando i sussidi e ponendoli davanti alla scelta del nuotare o affogare nei mercati globali delle merci, dominati dagli agribusiness pesantemente sovvenzionati del Primo mondo. Il debito - come ci ricorda William Tabb nella sua recente storia della gestione economica globale - ha rappresentato la serra in cui è stata forzato un trasferimento epocale di potere dalle nazioni del Terzo mondo alle istituzioni di Bretton Woods, controllate dagli Stati Uniti e dagli altri paesi che costituiscono il nucleo centrale del capitalismo. Secondo Tabb, lo staff professionale della Banca è l'equivalente postmoderno della burocrazia civile coloniale, e "come gli amministratori coloniali, sembra non se ne siano mai andati ma siano stati solo sostituiti da una nuova squadra di consiglieri dotata degli stessi punti di vista e degli stessi poteri sulle economie e le società locali". Nell'affermare che il loro interesse è tutto rivolto allo sviluppo economico, raramente i riscossori del debito permettono alle nazioni povere di giocare con le stesse regole che i paesi più ricchi avevano usato alla fine del Diciannovesimo secolo o all'inizio del Ventesimo per promuovere la crescita. Gli aggiustamenti strutturali, come rileva l'economista Ha-Joon Chan in un articolo di grande interesse, hanno ipocritamente "scalciato via la scala" protezionistica delle tariffe e dei sussidi su cui le nazioni dell'Ocse si erano storicamente arrampicate per salire da economie basate sull'agricoltura a quelle basate su beni e servizi urbani ad alto valore. Stefan Andreasson, studiando i drammatici risultati dei Pas in Zimbabwe e le politiche neoliberiste autoimposte in Sudafrica, si domanda se il Terzo mondo abbia la minima speranza di ottenere qualcosa di più di una "democrazia virtuale", finché le sue politiche macroeconomiche saranno dettate da Washington: "La democrazia virtuale esiste a spese della democrazia inclusiva, partecipativa, e della possibilità di estendere le misure di welfare pubblico che altrove erano insite nelle prospettive della socialdemocrazia".
The Challenge of Slums
ribadisce il punto quando afferma che "la maggiore singola causa di crescita
della povertà e della disuguaglianza negli anni ottanta e novanta è stato
l'arretramento dello stato". Oltre alle dirette riduzioni imposte dai
Pas nella spesa e nelle proprietà del settore pubblico, gli autori sottolineano
la più impalpabile diminuzione della capacità dello stato derivata dalla
"sussidiarietà": definita come la devoluzione del potere sovrano a strati
inferiori di governo e, soprattutto, alle Ong direttamente legate alle maggiori
agenzie internazionali di aiuto.
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