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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione La fine dei «tempi facili» VII 1. Le «magnifiche sorti»: la globalizzazione lunga e la borghesia classica (1840-1914) 3 1. Il primo progetto di un mercato globale: radici culturali e intreccio storico-politico, p. 3 2. Le esperienze concrete di integrazione economica, p. 15 3. Potrebbe ripetersi? La possibilità teorica di una reversibilità della globalizzazione, p. 25 Appendice. Sviluppi tecnologici differenziati e reversibilità dell'integrazione commerciale: un esempio e una formalizzazione «leggera» 2. La globalizzazione breve e la nuova borghesia (1985-2000) 37 1. «Global» e «postglobal», una battaglia di idee, p. 37 2. Ascesa e declino della globalizzazione di mercato, p. 52 3. Che cosa resta della globalizzazione di mercato, p. 61 3. I problemi del «postglobal» 69 1. Una premessa: la scarsa bontà degli strumenti di misura economica, p. 69 2. Povertà come «non libertà», p. 72 3. La povertà estrema e i suoi rimedi, p. 78 4. La condizione dei paesi emergenti: invecchiamento, indebitamento, inquinamento, p. 86 5. Le nuove frontiere dell'individuo e del mercato, p. 94 4. Gli esiti possibili 103 1. L'economia di mercato alla prova dell'incertezza, p. 103 2. La «pax americana», p. 107 3. La globalizzazione-arcipelago, p. 117 4. Lo «scontro di civiltà», p. 126 Conclusioni L'inizio dei tempi difficili? 131 Note 139 Indice analitico 149 |
| << | < | > | >> |Pagina VIILa globalizzazione di mercato è parsa ad alcuni sorridente e rassicurante, ad altri minacciosa e pericolosa. La tesi di questo libro è che, in ogni caso, i suoi giorni sono ormai tramontati. Questo progetto di economia mondiale integrata, regolata pressoché esclusivamente dai meccanismi dello scambio, all'insegna del mutuo vantaggio di ogni singolo partecipante ma con ricadute positive per tutta la società, appare oggi come un sogno infranto: la crescita potrà riprendere, le illusioni che solo o prevalentemente con la crescita si possano, in un clima di mercato, risolvere le contraddizioni delle società umane sono del tutto svanite. È facile, oggi, dipingere a tinte fosche la globalizzazione di mercato (dove la specificazione «di mercato» serve a distinguerla da altre, in parte analoghe, del passato) e indicarla come causa di divari, ingiustizie, violenze. Il progetto, di fatto avviato negli anni Ottanta, era in realtà basato su premesse ben diverse: la generale libertà di decisione e di iniziativa, la riduzione delle interferenze dei pubblici poteri nell'attività economica e l'assenza di un preciso predominio politico a livello internazionale. E aveva suscitato entusiasmi sinceri: era cresciuto nella convinzione che si potesse migliorare la situazione personale tanto del contadino asiatico quanto del laureato americano, in un grande gioco a somma positiva. Suoi cardini furono le liberalizzazioni, iniziate negli Stati Uniti, e le privatizzazioni, sviluppatesi soprattutto in Europa; ricevette uno slancio speciale dalla caduta dell'Unione Sovietica e del socialismo reale e in pochi anni diede origine a un sistema economico di portata planetaria, fortemente interdipendente, caratterizzato da un grande mercato finanziario globale, da una crescita uniforme, priva di particolari tensioni inflazionistiche, da un incremento elevato e continuo degli scambi internazionali di beni e servizi. Il diffondersi delle nuove tecnologie elettroniche faceva intanto sorgere la speranza, poi rivelatasi almeno parzialmente infondata, di uno stabile innalzamento della velocità di crescita della produttività del lavoro, premessa per uno sviluppo senza scosse e senza fine. Ebbene, tutto ciò si può considerare un'esperienza conclusa. La globalizzazione di mercato aveva subìto la sua prima, grave incrinatura con le tre crisi — asiatica, russa, brasiliana — del 1997-98. Ne hanno sancito la fine diversi fattori: l'esaurirsi del grande boom delle Borse americane nell'estate del 2000, le macerie delle Torri Gemelle l'11 settembre del 2001, le cifre dei bilanci truccati di molte grandi società, i colpi della crisi argentina, i contraccolpi dell'avventura irachena. Il sistema economico mondiale è oggi più fragile e meno sorridente, meno globale (nel senso che verrà specificato nel cap. 2, par. 1 e illustrato nel cap. 4, par. 3), e soprattutto meno legato al mercato, più dipendente dai governi. Nonostante le devastazioni della guerra afgana e della guerra irachena, la globalizzazione di mercato non lascia un mondo in pezzi. Chi ne dà un giudizio negativo, di solito trascura i benefici che essa ha prodotto per le popolazioni della Cina, dell'India e dell'Asia sud-orientale, che complessivamente assommano a più della metà degli abitanti del pianeta, e anche di molti altri paesi in ogni parte del mondo: una vita più lunga, un maggior livello di istruzione, una più ampia disponibilità di beni materiali. La globalizzazione di mercato ha inoltre dato vita o diffuso tecnologie straordinarie, dalle potenzialità ancora poco esplorate, che lasciano intravedere ulteriori progressi futuri, anche se non necessariamente istantanei. Le sue potenzialità immediate si sono, però, se non del tutto esaurite, per lo meno fortemente indebolite; al suo interno i meccanismi di crescita risultano mutati e meno efficaci, al suo esterno si rafforzano difficoltà e opposizioni. Tra i motivi dell'indebolimento si possono annoverare l'emergere imprevisto di diseconomie esterne globali — dall'inquinamento alla diffusione di malattie — sorte a far da contrappunto ai benefici arrecati dall'integrazione economica; i risvolti economici, di breve e lungo periodo, di certi fenomeni sociali, come l'invecchiamento o l'aumento dei divari di reddito, che hanno trovato largamente impreparati società e governi; e, più in generale, la resistenza all'uniformazione, spesso richiesta dal mercato, di culture tra loro profondamente differenti. Non solo i mercati, quindi, ma anche numerosi problemi fino a non molto tempo fa di carattere nazionale o locale sono diventati globali. La natura di carestie, guerre, epidemie è cambiata sottilmente per il solo fatto che la notizia della loro esistenza si diffonde istantaneamente a livello mondiale. All'accelerazione della crescita e del progresso tecnico fanno da contrappunto le ripercussioni sempre più rapide di ogni avvenimento sulle aspettative individuali, le modificazioni dei rischi e l'aumento della difficoltà della loro valutazione, il sorgere di interrogativi morali, l'attenuarsi di aspettative e principi condivisi. Si sono così venute a creare condizioni di crescente instabilità che hanno reso più arduo il funzionamento dei meccanismi di mercato, e in particolare del mercato finanziario. Da gioco a somma positiva, la globalizzazione ha così mostrato, nei suoi ultimi anni, la tendenza a diventare un gioco a somma zero. Tutti questi aspetti della globalizzazione di mercato, largamente inattesi dai suoi sostenitori, ne hanno mutato la natura in modo fondamentale e hanno contribuito a determinare quanto meno una battuta d'arresto nel processo espansivo dell'economia del pianeta, con risvolti pesantemente negativi per una parte dei paesi più poveri. Ne è derivata un'epoca dura, spigolosa, all'insegna dell'incertezza, scevra di miracoli annunciati ma non priva di possibili sviluppi positivi. Quest'epoca viene qui definita postglobal, un termine – che sarà usato come sostantivo e come aggettivo – coniato sulla base del notissimo no global. No global ha spesso significato un rifiuto netto e generale, un giudizio negativo senza appello non di rado basato su presupposti morali. Postglobal non presuppone un giudizio di valore, ma indica un ventaglio di problemi e prospettive in cui la sola cosa relativamente certa è la fine, per molti, di tempi relativamente facili, mentre sono in atto processi di de-globalizzazione e appaiono molto reali i rischi di un grave deterioramento dei risultati raggiunti. In queste condizioni, è necessario cercare cause invece che colpe, capire prima di denunciare, curare anziché combattere. Questo saggio vuol essere un contributo alla ricerca di cause, alla comprensione, alla cura, un tentativo di perlustrazione della terra incognita che ci sta davanti. Cerca di interpretare l'esperienza della globalizzazione di mercato alla luce di precedenti processi di globalizzazione, in particolare quello della globalizzazione ottocentesca che con quello di fine Novecento presenta molti tratti in comune. Il collegamento tra le due globalizzazioni viene compiuto nei primi due capitoli, a struttura parallela: il primo è rivolto all'esame di quella che viene definita «globalizzazione lunga», opera della borghesia classica, che copre gran parte dell'Ottocento e si estende fino alla prima guerra mondiale; il secondo alla «globalizzazione breve», opera, ora terminata o snaturata, della nuova borghesia. negli ultimi due decenni del Novecento. In entrambi i capitoli si esaminano prima le elaborazioni intellettuali del mercato globale, poi l'evoluzione storica e infine alcuni problemi relativi ai caratteri, alla sostenibilità e alla reversibilità dei due esperimenti. Stabilite queste basi, il terzo capitolo passa a considerare i problemi del postglobal, distinguendo quelli di carattere umano, incentrati su divari e povertà, su evoluzione demografica, indebitamento, inquinamento, invecchiamento e sul problema dei diritti di proprietà, individuato come tipico di quest'epoca incerta. Il quarto capitolo discute infine brevemente alcuni esiti possibili, dal punto di vista geoeconomico, della difficile e tempestosa situazione attuale. Il presente lavoro utilizza, in larga prevalenza, strumenti dell'analisi economica, ma tiene conto del noto detto di Friedrich von Hayek, secondo cui «l'economista che si limita a far l'economista non solo rischia di diventare fastidioso ma può costituire un vero e proprio pericolo». Si muove perciò lungo il crinale che segna il confine tra l'economia, la storia economica e le altre scienze umane, in un più vasto orizzonte culturale, nella convinzione che solo attraverso strade di questo tipo, costruite con apporti di diverse discipline, forse leggermente avventurose, senza dubbio in salita, sia veramente possibile fare qualche progresso nella risposta a interrogativi di fondo come quelli oggi sempre più frequenti, generali e assillanti. | << | < | > | >> |Pagina 3La concezione liberale dell'integrazione economica L'idea di una società governata dai meccanismi dello scambio libero e volontario, di un'integrazione economica a livello planetario, che faccia aumentare senza conflitti il benessere dell'umanità, non è sorta con la nostra breve esperienza di globalizzazione, consumatasi in gran parte negli anni Novanta del XX secolo. Si tratta invece di un frutto non secondario del pensiero economico classico, così come l'integrazione economica effettiva, basata sul mercato, era già avanzatissima cent'anni fa e subì poi un vistoso regresso; altri episodi d'integrazione economica di grandi aree, costruiti su basi diverse, intervallati da fasi di de-globalizzazione, si sono del resto succeduti nella storia umana. E si può dimostrare teoricamente che quest'alternanza è possibile. Questa lunga argomentazione, che pervade tutto il presente capitolo, prende avvio da una data precisa: il 4 luglio 1776, il Congresso delle colonie americane ribelli, riunito a Filadelfia, dichiarò l'indipendenza degli Stati Uniti d'America; sancì così, fra l'altro, il tramonto del sistema economico coloniale che imponeva alle colonie di commerciare solo, o prevalentemente, con la madrepatria e che, come si vedrà in seguito, aveva costituito una precedente forma di organizzazione dello spazio economico globale. Nello stesso anno, fu pubblicata a Edimburgo La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, che del sistema coloniale rappresenta una delle critiche più vibranti. Coincidenze così strette sono di certo casuali. Rivisitato alla luce della globalizzazione, però, il pensiero economico liberale, che per tradizione si fa iniziare da Smith, appare intimamente collegato a sviluppi economico-politici internazionali di tipo globalizzante; e non va dimenticato che Smith scriveva poco prima di un lungo conflitto, di portata planetaria, tra Francia e Inghilterra, la cui posta comprendeva il controllo delle grandi rotte commerciali mondiali. Durante questo conflitto, il sistema coloniale – e più in generale il sistema mondiale dei commerci – andò in frantumi. Non solo, infatti, l'indipendenza degli Stati Uniti, ma anche quella delle colonie spagnole nell'America Latina, a partire dal 1810, sancì la riduzione dei legami commerciali e più in generale dell'influenza europea, basata sul dominio politico diretto. Il blocco continentale, attuato dagli inglesi contro Napoleone tra il 1806 e il 1814, determinò un'interruzione anche fisica dei commerci mondiali. In questo senso, la concezione smithiana di un commercio basato sul mutuo vantaggio, anziché sul predominio e sullo sfruttamento, derivante da scambi liberi che generino complementarità tra le economie, si pone di pieno diritto all'inizio del lungo percorso dei moderni progetti di globalizzazione e deve essere considerata con attenzione per la sua indubbia rilevanza attuale. L'affermazione secondo cui l'aumento di ricchezza di un paese vicino rappresenta un beneficio, e non già un danno dal punto di vista commerciale (libro IV, capitolo III, parte II), potrà sembrare ovvia all'inizio del XXI secolo – in realtà non è sempre così, se si guarda alle numerose controversie commerciali in corso –, ma suonava fortemente innovativa, se non addirittura sovvertitrice dell'ordine costituito, nell'ultimo quarto del XVIII secolo; così come a qualcuno deve essere sembrato un atto di alto tradimento l'invito a liberi commerci con i rivali francesi anziché a commerci protetti con i «sudditi» americani. | << | < | > | >> |Pagina 21Un tramonto rapido e traumatico La «nostra» globalizzazione ha superato solo alla fine degli anni Settanta i livelli di integrazione commerciale e finanziaria mondiale degli anni immediatamente precedenti il 1914. Un simile richiamo serve non soltanto a sottolineare l'errore diffuso circa l'unicità dell'esperienza di questi anni, un errore che si può variamente attribuire a ingenuità, arroganza culturale e scarsa conoscenza della storia, ma, cosa ben più importante, serve a metterne in luce il rapido e traumatico tramonto con l'inizio della prima guerra mondiale.La causa apparente del conflitto fu, com'è noto, un atto di terrorismo quale l'uccisione, in un attentato, dell'erede al trono d'Austria, l'arciduca Francesco Ferdinando, íl 28 giugno 1914. Allora come oggi, il terrorismo non rappresentava certo un fenomeno isolato: in pochi anni i terroristi avevano ucciso, tra gli altri, un'imperatrice d'Austria (Elisabetta, 1898), un re d'Italia (Umberto I, 1900), un presidente degli Stati Uniti (William McKinley, 1901), un primo ministro russo (Pëtr Stolypin, 1911). La novità è piuttosto dovuta al fatto che un singolo evento possa aver indotto modificazioni così rapide e radicali sul piano politico ed economico. Il parallelo con le conseguenze dell'attentato alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001, con i deterioramenti del clima internazionale, l'incepparsi di meccanismi economici, il conflitto afgano e quello iracheno va naturalmente proposto con estrema cautela; ma non può essere semplicemente liquidato con un'alzata di spalle. | << | < | > | >> |Pagina 37Il concetto di globalizzazione dal «global village» al «Washington consensus» Chi cerca di ricostruire la nascita di un concetto o di una teoria socio-economica raramente si trova di fronte a un processo unitario, bensì, piuttosto, a stimoli disparati in filoni di ricerca diversi, a risposte date a problemi e priorità del momento, a elementi descrittivi di una realtà in movimento. Solo da un certo punto in poi questi stimoli, queste risposte e queste descrizioni si saldano in una visione coerente, che spesso assume caratteri normativi, nella quale vengono ricompresi interrogativi, istanze e soluzioni emersi in precedenza in maniera separata. La globalizzazione di mercato non fa eccezione. Uno sguardo retrospettivo mostra che il primo, importante contributo – sotto forma di intuizioni profonde di una realtà ancora largamente a venire – si deve a Marshall McLuhan, un pensatore canadese, che, proprio per aver largamente precorso i tempi, è difficile da collocare nel tradizionale panorama, ideologico e tematico, della cultura occidentale della seconda metà del XX secolo. Studioso di letteratura inglese, divenuto esperto di sociologia delle comunicazioni, e direttore del Centro di Cultura e Tecnologia dell'Università di Toronto, McLuhan fu probabilmente il primo a usare il termine «globale» in senso moderno. | << | < | > | >> |Pagina 65Tendenze de-globalizzanti ed eredità positive della globalizzazione di mercato Per tutti questi motivi, l'attuale situazione non può più essere definita «di mercato»; può ancora essere considerata come una globalizzazione, ossia un'integrazione di sistemi economici a livello planetario? Oppure sono prevalenti i processi di dis-integrazione?Ci sono elementi per optare cautamente in favore di questa seconda ipotesi, a causa, in primo luogo, delle dinamiche demografiche. Si rileva qui una netta differenza rispetto alla globalizzazione lunga: allora i paesi globalizzatori, ossia quelli europei, erano in fase demografica espansiva e dall'Europa partivano flussi di popolazione che si stanziavano in altre parti del pianeta. L'integrazione aveva così forti elementi umani, che permettevano di replicare in territori semivuoti, come le pianure americane o l'Australia, situazioni e istituzioni della madrepatria. Ora invece la demografia dei paesi dai quali partono le tendenze globalizzanti è in fase di contrazione più o meno marcata. Generalizzando ancora, tutte le ondate di globalizzazione precedenti erano caratterizzate da un flusso di fattori produttivi dal centro alla periferia: nel Cinquecento e nel Seicento, e successivamente nell'Ottocento e nel primo Novecento, tecnologie, capitali e uomini partirono, prevalentemente da Spagna, Francia, Olanda e Inghilterra, per raggiungere spazi relativamente liberi o comunque suscettibili di una diversa e più produttiva organizzazione economica. Al contrario, la globalizzazione di mercato ha risucchiato verso il centro, ossia verso gli Stati Uniti, ingenti masse di uomini e di capitali, come testimoniano il bilancio demografico e il deficit estero di quel paese: tra il 1985 e il 2001, 30 milioni di esseri umani e svariate migliaia di miliardi di dollari sono andati a collocarsi negli Stati Uniti,al netto delle uscite. È per lo meno dubbio che questa tendenza possa continuare; è altrettanto aperto a una franca discussione se possa interrompersi o invertirsi, senza per questo causare un'inversione del processo di globalizzazione.
Va inoltre rilevato che, mentre il libero spostamento dei
capitali è stato largamente incoraggiato, il libero spostamento del fattore
lavoro è stato fortemente osteggiato, a differenza di quanto accadde nella
globalizzazione lunga. Esso è
quindi avvenuto in buona misura nell'ambito di scambi totalmente o parzialmente
illegali: l'incapacità di estendere al
lavoro il meccanismo del mercato (un'eventualità esplicitamente negata, per
esempio, dagli accordi NAFTA, che legano tra loro Stati Uniti, Messico e Canada)
ha ridotto quel «cemento umano» che, nella globalizzazione precedente, faceva
esplicitamente parte del programma di crescita di un paese
come gli Stati Uniti (come dimostra la celebre iscrizione collocata alla base
della Statua della Libertà).
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