|
|
| << | < | > | >> |IndicePresentazione 9 PRIMO TEMPO. 1982-1993 Un manoscritto tra i materassi 13 1. Beethoven in piazza Politeama 18 2. Il campo di battaglia 30 5. Coriolano della Floresta 53 4. La pena di morte 61 5. La mafia nel cervello 83 6. Il «denaro sporco» 98 7. Nel paese del Gattopardo 119 8. Il tesoro della Sicilia 133 9. Il ballerino, il corto e la maestra 144 10. Il raccolto rosso 154 11. Una tazza di latte caldo 176 SECONDO TEMPO. 1994-2010 Dove eravamo rimasti 187 12. Torino, i grandi preparativi per il centocinquantesimo 190 13. Il lungo inganno 199 14. Cosa Nostra ai tempi della tv 212 15. La storia non siamo noi 227 16. Mauro Rostagno 251 17. Ritorno sui luoghi dei delitti 264 TITOLI DI CODA. PROTAGONISTI, MUSICHE, EFFETTI SPECIALI di Andrea Gentile Annali della guerra nel Sud 293 Lo stato delle cose materiali nel 2010 297 Come se ne sono andati 299 Caramelle non ne voglio più, le rose e i violini questa sera raccontali a un'altra 306 Usi a obbedir tacendo 313 Storie di alcuni politici e dei loro guai 321 La parola è Cosa Nostra 337 Io la mafia l'ho vista solo al cinema 347 Colonna sonora 357 La mafia ai tempi di Facebook 360 Ringraziamenti 363 Indice dei nomi 365 |
| << | < | > | >> |Pagina 9PresentazioneQuesto è un libro di mafia, di terra, di Sicilia, di falci e trattori che raccolgono frutti vermigli insieme a molto sangue. Fabrizio Confalonieri ne ha fatto la sintesi in copertina: un melograno aperto, nel momento della sua maturazione e decomposizione; ma anche il frutto dell'Ade, di cui Persefone, sulle rive del lago Pergusa, in provincia di Enna, mangiò secondo il mito i sette chicchi fatali. Il «primo tempo» di questo libro racconta di persone dimenticate o sconosciute che si combatterono in Sicilia, e poi in Calabria e in Campania, nell'ultimo ventennio del Novecento, con una ferocia inaudita, in mezzo all'indifferenza e alla distrazione italiana. Fu un campo di battaglia con diecimila morti, le dimensioni di una guerra civile. Imparammo a conoscere le bombe, l'acido solforico per sciogliere i cadaveri, i sottili fili di nylon per strangolare le persone, la disperazione di chi gridava ma non veniva ascoltato. (Era un mondo sconosciuto quando la prima parte di questo libro uscì da Feltrinelli nel lontano 1993. La ripropongo tale e quale, anche se oggi sembra una specie di preistoria, in cui fece scandalo l'uccisione di Salvo Lima, il vicerè di Giulio Andreotti, e tutta l'Italia si commosse per il martirio di Falcone e Borsellino; un mondo in cui non erano immaginabili l'industriale brianzolo presidente del Consiglio, il suo taciturno fattore palermitano trapiantato ad Arcore, e il suo «consigliori», che abbiamo imparato ad apprezzare come raffinato politico e bibliofilo.) Alla fine del «primo tempo» il lettore sarà indotto a pensare a un buon finale della guerra, con l'esercito mafioso sconfitto, decimato dalle sconfitte militari e roso al suo interno dal rimorso e dalla disperazione, pronto ad arrendersi a un coro popolare che irrompeva sulla scena denunciando, rischiando di persona. Ma non andò così. Il «secondo tempo» racconta delle tristissime e inaspettate conseguenze di quella guerra. Inganni spudorati, grossi patrimoni economici da mettere al riparo, patti segreti tra i vertici degli eserciti solo apparentemente nemici, un tormento televisivo continuo - una specie di interminabile pranzo di gala, servito in mezzo ai resti delle vittime - hanno plasmato l'Italia di oggi, in cui le mafie sono ufficialmente entrate a far parte del nostro establishment. Alla vigilia delle celebrazioni del nostro Stato (siamo una mazione giovane, appena centocinquant'anni), ecco un risultato che nessuno dei nostri Padri fondatori aveva previsto. I «titoli di coda» di Andrea Gentile parlano della fine terrena dei protagonisti mafiosi, di storie di donne di mafia, dei guai di alcuni uomini politici, della paradossale similitudine tra la famosa «omertà» e l'«usi a obbedir tacendo» dell'Arma, delle parole, dei film, della musica e dell'evoluzione della mafia fino a Facebook. Dicono i saggi: è opportuno occuparsi di mafia, prima che lei si occupi di te. Ma quasi mai questo consiglio viene ascoltato. Alcuni se ne accorgono quando aprono il bagagliaio dell'automobile e vi scoprono un cadavere, ma a quel punto è troppo tardi. Altri pensano che si può convivere, ma quelli prima si prendono una stanza, poi le chiavi di casa, poi ti spostano i mobili e qualche volta ti lasciano una testa di capretto nel frigo. Sono invadenti, ma poi cercano un accordo. Passano a raccogliere, e se sono buoni ti lasciano anche una parte del raccolto. La lettura però te la lasciano tutta. E la lettura è sempre una grande consoloazione. E.D., aprile 2010 | << | < | > | >> |Pagina 21214. Cosa Nostra ai tempi della tvOggi che c'abbiamo fatto il callo; che siamo mitridatizzati; che abbiamo imparato a convivere... Oggi non ci ricordiamo più, ma ci fu anche un tempo in cui il tema della lotta alla mafia fu al centro delle elezioni politiche. Non in un paese del Sud America, ma proprio qui da noi. Con il sorprendente risultato che l'uomo politico e il suo partito politico, accusati di essere legati alla mafia, non ne furono affatto penalizzati.
Anzi, vinsero proprio sull'onda di quell'accusa e diedero vita in Italia a
quella che viene comunemente chiamata la Seconda repubblica, che nel 2010
tuttora dura.
La storia è abbastanza nota perché necessiti raccontarla ancora. Ma forse, per rendersi conto dell'enorme abbaglio che colpì milioni di persone, vale la pena ricordare alcuni dati del contesto. Tangentopoli che aveva azzerato i partiti, Cosa Nostra che aveva dichiarato la guerra facendo saltare in aria Falcone e Borsellino, e poi risalendo l'Italia con bombe a Roma, Firenze, Milano. Il vecchio mondo era rappresentato da Giulio Andreotti, l'uomo politico più popolare tra gli italiani (non solo lo votavano, ma ridevano delle sue battute di spirito e compravano i suoi libri) che era stato portato alla sbarra dalla Procura di Palermo, accusato non solo di aver tenuto bordone a Cosa Nostra, ma di averne incontrato personalmente i capi. Stefano Bontate prima, Salvatore Riina poi. Quest'ultimo, secondo un testimone oculare aveva baciato, alla siciliana, il presidente del Consiglio, proprio per dimostrare il suo potere. E non bastava. La città di Palermo aveva reagito al tallone della mafia, manifestando come mai era successo prima. Il sindaco antimafia Leoluca Orlando era stato eletto con un plebiscito. Il Parlamento nazionale aveva approvato, praticamente all'unanimità, la relazione della Commissione antimafia, presieduta da Luciano Violante, in cui si indicava la Democrazia cristiana, e in particolare la corrente di Andeotti, come la storica manutengola della criminalità siciliana. Le elezioni politiche erano stato fissate per il 27 e 28 marzo del 1994 e la grande novità era la discesa in campo dell'industriale milanese Silvio Berlusconi con il partito Forza Italia, organizzato in pochi mesi dall'allora semisconosciuto Marcello Dell'Utri. Strenua opposizione al comunismo, ventata di novità, carica antipartito, promessa di un nuovo miracolo italiano, erano gli ingredienti di un successo che ogni giorno i sondaggi registravano. Dall'altra parte, i Progressisti, cartello elettorale guidato da Achille Occhetto, l'ex segretario del Pci che aveva cambiato in Pds il nome del partito. L'ultimo mese di campagna era stato rovente, ravvivato anche da un intervento estremamente esplicito del superboss della 'ndrangheta calabrese Giuseppe Piromalli, detenuto a Palmi. Dalla gabbia aveva gridato: «Voteremo Berlusconi!». Era il 24 febbraio.
Il 19 marzo Berlusconi e Occhetto si incontrarono alla radio (a distanza, il
primo da Arcore il secondo da Botteghe Oscure) in un dibattito andato in onda il
giorno dopo su RadioUno Rai, condotto da Demetrio Volcic, direttore del Tg1.
Che pose la domanda diretta: «Ma allora a chi vanno i voti della mafia?».
OCCHETTO: «Quando Piromalli ha gridato "voteremo Berlusconi", avreste dovuto prendere una posizione precisa, dicendo che quei voti non li si voleva». BERLUSCONI: «Nessuno può sapere per chi vota la mafia. Non avevo notato quell'"uscita". Confesso di non conoscere in modo approfondito quel fenomeno». OCCHETTO: «Allora, se vuole fare il presidente del Consiglio le serve un bell'aggiornamento». BERLUSCONI: «Io vengo da trent'anni di lavoro, ho risolto migliaia di problemi. Credo di essere il più allenato a inventare soluzioni e metterle in pratica».
OCCHETTO:
«Può dire di essere allenato, non il più allenato».
E così via per parecchi minuti di trasmissione. La stessa sera Berlusconi tenne la sua convention a Palermo, nel salone dei ricevimenti del Grand Hotel Villa Igiea che – nessuno lo sapeva, ma tutti lo sapevano – era sotto il controllo di Cosa Nostra. Dalla cronaca di Augusto Minzolini per la Stampa, pubblicata il 21 marzo: Tra i mobili stile liberty davanti a un nugolo di cronisti e di telecamere per un'intervista a reti unificate, Silvio Berlusconi sceglie proprio il giorno del suo sbarco in Sicilia per lanciare l'ultimo allarme: «Dopo quello che mi è successo in queste settimane sto cominciando a fare uno più uno più uno, a riflettere. Sono però assalito da un atroce dubbio. Quello che si vogliano creare condizioni diverse da quelle democratiche, che alla fine di tutte queste manovre il paese corra un rischio enorme: la perdita della libertà». Il dado è Tratto. Con questa dichiarazione il leader di Forza Italia, attaccato prima dai giudici milanesi e ora da quelli siciliani, alza i toni dello scontro di quest'ultima settimana di campagna elettorale. La faccia tirata, l'espressione probabilmente studiata come lo sono anche le parole. E come i giudici hanno tirato fuori un «teorema accusatorio» (sono parole di Berlusconi) contro di lui, Il Cavaliere affida ai «media», in quel salone di altri tempi, una tesi d'accusa contro di loro, formulandola in un lungo soliloquio. La sua è una cronistoria di queste ultime settimane: «Prima i giudici milanesi» dice «volevano arrestare un mio collaboratore prendendo una cantonata. Poi c'è stato un boss della 'ndrangheta, Piromalli, che ha gridato alto e forte che lui e quelli come lui voteranno Forza Italia. È una cosa che noi respingiamo, ma visto che la mafia non dice mai quello che fa se non c'è motivo, viene da chiedersi perché lo ha tatto. Poi si sono aggiunte le voci di Orlando, di Mancino, di Occhetto. Infine ieri è venuta alla ribalta una notizia che pare sia stata data da un alto magistrato al direttore di un importante organo d'informazione in una cena [...]. Quello che preme dire a me è che poi dei magistrati hanno smentito quelle storie, dando in realtà, come sempre avviene in questi casi, la conferma di quelle voci. Risultato: oggi la tv di stato ha mandato in onda un servizio vergognoso che conteneva la notizia che la Fininvest avrebbe pagato centinaia di milioni alla mafia per entrare nel mercato pubblicitario siciliano. Io comincio a chiedermi a chi giova tutto questo nel momento in cui è in gioco il potere in questo Paese [...]». A tavola, al ristorante di Villa Igiea, Berlusconi si lascia andare con i suoi collaboratori a un'espressione che in questi giorni ripete con sempre maggior convinzione: «Stiamo assistendo» dice lasciando a bocca aperta tutti i presenti «a qualcosa che potrebbe essere paragonato davvero a un golpe bianco». E già, questo è uno scontro che non permette mezzi toni, è un duello all'ultimo sangue e prima di perire Berlusconi è pronto ad usare tutti gli argomenti che ha a disposizione. Così se i suoi avversari sono pronti a chiamarlo «mafioso» lui è pronto a definirli «golpisti». Certo lui non ha fatto granché per evitare che gli arrivassero addosso queste «voci». È stato incauto. Chi non ricorda le trattative che proprio Marcello Dell Utri ha condotto appena qualche settimana fa con Mario D'Acquisto, l'ex braccio destro di Salvo Lima, all'hotel Majestic di Roma per l'inserimento degli ex dc siciliani nelle liste dl Forza Italia? Ieri D'Acquisto al convegno del movimento a Palermo non si è fatto vedere e il portavoce di Berlusconi, Tajani, è arrivato a dire che «Dell Utri non fa parte di Forza Italia, non ha neanche la tessera», ma sono tutte precauzioni un po' tardive se si tiene conto che questa è una campagna elettorale dove sono permessi anche i colpi più proibiti. Adesso conta poco piangere sul latte versato. Per difendersi bisogna fare la voce grossa, mettere paura all'avversario. E di questo ormai sono convinti tutti dentro Forza Italia [...]. Il giorno dopo la Stampa ottiene un vero scoop. Sempre Augusto Minzolini incontra Luciano Violante nel Transatlantico di Montecitorio. Il presidente della commissione antimafia è accerchiato da giornalisti e li intrattiene sul «golpe bianco» che secondo Berlusconi può essere preparato da magistrati vicini al Pds su ispirazione dello stesso Violante. «È una storia» dice Violante «che fa ridere». E aggiunge subito un'ironia seguita subito da una risata. «Magari avessimo la forza, lo faremmo. Ma questo non lo scriva». Ma Minzolini ha in serbo una notizia riservata e in esclusiva. [...] L'argomento rimane sospeso nell'aria il tempo necessario al presidente della Commissione antimafia per allontanarsi dal capannello, sottobraccio al cronista, e andare verso uno dei tanti corridoi dei passi perduti che costeggiano il Transatlantico di Montecitorio. Qui le parole da serie diventano serissime e il tono diventa «riservato». «Secondo me» dice «quelle cose che sono uscite sui giornali su Dell'Utri le hanno fatte uscire Berlusconi e gli uomini di Forza Italia» avverte l'esponente pidiessino. Visto che l'argomento è delicato ci vuole un attimo di silenzio per creare l'atmosfera giusta. Poi il presidente dell'antimafia prosegue il discorso: «La verità è che le cose uscite sui giornali sono delle stupidaggini. C'è stato un giornalismo cialtrone. Quando si trattano cose del genere bisogna andare con i piedi di piombo per non mandare tutto a monte. Anche Caselli è incavolato nero. La verità è che Dell'Utri è iscritto sul registro degli indagati della procura di Catania non di quella di Caltanissetta. E non si tratta di pentiti questa volta. C'è un pm di lì, si chiama Marino, che sta conducendo un'indagine di mafia su un traffico di armi e di stupefacenti. E l'inchiesta non si basa su dichiarazioni di pentiti, ma, a quanto pare, su intercettazioni ambientali. La cosa poteva venir fuori già in queste settimane, ma il capo della Procura ha preferito che tutto fosse rinviato a dopo le elezioni...». Ma perché gli uomini di Berlusconi avrebbero fatto uscire queste cose? «Be'» raconta «è un modo per inficiare il tutto, per difendersi. Adesso per fare uscire le rose vere ci vorranno altri venti giorni. La loro è stata una scelta precisa: hanno fatto uscire notizie poco chiare, su stupidaggini e poi hanno alzato il tiro, lanciando questo grido di allarme sui rischi che corre la libertà di questo paese, sul colpo di Stato. Loro hanno anticipato gli avversari. Hanno messo in atto una tattica bellica. Gli serviva per mettere in difficoltà le inchieste serie e, in questa campagna elettorale, per tenere insieme la loro base, per compattarla di fronte a queste notizie. Poi, per il futuro, sperano che il voto gli vada bene.» Qui il discorso si sposta sulle previsioni degli ultimi giorni che precedono il voto. «A proposito» conclude Violante «il nostro ultimo sondaggio dà i progressisti vincenti nei seggi uninominali e la destra nelle percentuali proporzionali. Sempre da questa ricerca risulta che almeno una cinquantina di seggi sono ancora in bilico tra i due schieramenti. Comunque l'unica cosa certa che ho capito è che né i progressisti, né la destra riusciranno a ottenere la maggioranza assoluta.» Ma per cercare fino all'ultimo di vincere, gli ultimi giorni del duello elettorale saranno durissimi: mafia, giustizia e rivelazioni continueranno a tenere banco. Violante a questo punto, preoccupato, fa ancora una raccomandazione prima di salutare: «Per favore non scriva quella battuta scherzosa sul colpo di Stato che potremmo fare». Il giorno stesso della pubblicazione dell'articolo la Procura di Catania smentisce Violante: Dell'Utri non e iscritto nel registro degli indagati. Violante è travolto dalle accuse, si difende asserendo che le sue parole sono state travisate dal giornalista Minzolini, ma il giorno dopo è costretto a dimettersi. Il fatto, come ben si capisce, è clamoroso: di fronte a un partito nuovo che si presenta con un alone di mafiosità, il presidente della Commissione antimafia che, per la prima volta nella storia patria, ha contribuito a portare alla sbarra i vecchi referenti di Cosa Nostra, subisce lo smacco per una «fuga di notizie». Mancavano quattro giorni al voto, che avrebbe premiato Forza Italia in tutto il paese. E in Sicilia e in Calabria ancora di più. In Sicilia, dove Cosa Nostra aveva nei mesi precedenti vagheggiato l'ipotesi di un proprio partito che facesse da contraltare alla Lega di Bossi, tutti si riconvertirono velocemente. Circoli di Forza Italia sorsero dappertutto e il paesaggio siciliano venne letteralmente coperto dai grandi manifesti con la faccia sorridente del milanese Silvio Berlusconi. | << | < | > | >> |Pagina 216Un voto sconcertante, ma molto realisticoSì, ma poi però che cosa successe? Per riprendere la domanda del giornalista Demetrio Volcic, «a chi vanno i voti della mafia?», davanti alla quale Berlusconi si era candidamente dichiarato incompetente, la risposta è nei numeri. Certo non andarono ai Progressisti di Occhetto, di Leoluca Orlando e di Luciano Violante. Il fondatore del pool antimafia, Antonino Caponnetto, che come un vecchio padre aveva portato al cimitero i suoi due figli uccisi, perse clamorosamente nel collegio del centro di Palermo che solo due anni prima aveva coraggiosamente fatto pendere lenzuoli dai vecchi palazzi e dai nuovi condomini, i candidati della Rete persero di fronte a sconosciuti venditori di pubblicità televisiva. A Roma Berlusconi si insediò e per un mese cercò di imporre come ministro della Giustizia l'avvocato Cesare Previti, suo socio in affari. Bloccato dal presidente della Repubblica Scalfaro, che considerò questa proposta un abominio intollerabile. Previti venne collocato a capo del Ministero della Difesa, cioè con il controllo sui carabinieri e sui servizi segreti, e per la Grazia e Giustizia si ripiegò su un anziano e balzano avvocato liberale di Genova, Alfredo Biondi. Questi non mancò di far subito visita a Palermo. Schivò i magistrati, naturalmente, ma offrì il pranzo al famoso Charleston di Mondello ai principali avvocati della città, tutti quelli che in nome del garantismo difendevano il gotha mafioso dalle angherie della procura. Dal canto suo il premier si limitò a osservare che poche centinaia di criminali non potevano infangare il nome della Sicilia, che il danno fatto all'estero dalla serie televisiva La Piovra era stato enorme e, come tutti, a dichiarare che le potenzialità della Sicilia erano enormi, la Florida d'Europa, la California d'Europa, il turismo ricco, i vagheggiati casinò e naturalmente il Ponte.
Poi l'avvocato genovese Biondi, che aveva fama di essere un po' svagato, si
dimostrò invece un vero decisionista. E mentre l'Italia era immersa nei Mondiali
di calcio buttò fuori un decreto legge che praticamente cancellava la gran parte
dei procedimenti giudiziari in corso, quelli di Tangentopoli in primis, ma anche
quelli di mafia.
La calda estate del decreto Biondi Me lo ricordo bene, quel giorno. Ero a Catania, 15 luglio 1994, e alle dieci di mattina era già una fornace. Nel pieno centro, via Garibaldi, erano state uccise due donne che uscivano da un negozio di alimentari. Ora erano sul selciato nero, la famosa pietra lavica. Liliana Caruso, ventotto anni, era sposata con Riccardo Messina, un pesce piccolo locale da dieci giorni «collaboratore di giustizia». Agonizzante, nel tentativo di salvarla, le hanno tolto la camicetta e ora viene fotografata con indosso solo un reggiseno nero. Un cadavere in bikini. L'altra donna si chiamava Agata Zucchetto e probabilmente non era prevista, ma aveva visto e gridato. E così i soliti due motociclisti avevano finito il lavoro. Aveva sessantun anni, moglie di un impiegato comunale, settore accalappiacani, suocera del collaborante Riccardo Messina. Giaceva a venti metri di distanza. Vado al Palazzo di Giustizia – è uguale a quello di Palermo, a quello di Milano, a tanti altri, è tutta quella monumentalità fascista di corridoi, colonne, archi, donne bendate, bilance perfettamente in asse – e i magistrati antimafia sono in agitazione per il duplice omicidio. Nel cortile sono pronte a partire le macchine delle scorte. Ma i magistrati, in maglietta, sono assillati da altri uomini accaldati, in maglietta anche loro, che chiedono, con una certa coscienza dei loro diritti, perché non hanno ancora firmato gli ordini di scarcerazione per i loro assistiti. La Gazzetta Ufficiale è in edicola con il testo del decreto Biondi. È la legge. Una buona giornata per gli avvocati. La sera stessa compaiono in televisione i sostituti procuratori di Milano, Di Pietro, Colombo, Davigo, gli «eroi di Tangentoopoli». Sono anche loro in camicia, con la barba lunga e la faccia tirata. Annunciano quasi le loro dimissioni, il decreto Biondi ha vanificato la loro attività. «Chiediamo di essere destinati ad altro incarico.» Il giorno dopo le redazioni dei giornali sono subissate di fax in sostegno ai giudici di Milano. Il giorno dopo ancora, il ministro degli Interni, Roberto Maroni, della Lega, dichiara di essere stato imbrogliato e di aver firmato un decreto senza guardarlo, impegnato com'era a seguire ai Mondiali di calcio la partita Italia-Bulgaria. Il 19 luglio il decreto venne ritirato, con Berlusconi furente per il colpo di stato dei giudici, e la loro insubordinazione mandata in onda dai telegiornali. Ci avevano provato. E per poco non gli era andata bene. Due cose non avevano funzionato: l'Italia aveva perso la finale dei Mondiali di calcio in America (a sbagliare i rigori furono Roberto Baggio della Juve e Baresi e Massaro del Milan). E la comparsa dei magistrati di Tangentopoli sugli schermi delle case degli italiani. Così convincenti.
La tv si confermava essere davvero il medium più importante.
L'«incidente» Violante alla vigilia delle elezioni del 1994 fu davvero un boomerang, e fu forse l'ultimo caso di un ruolo centrale giocato dalla stampa scritta sulle vicende siciliane. Era ormai la televisione il terreno su cui si conquistavano le menti e i cuori e Cosa Nostra partecipava al gioco. | << | < | > | >> |Pagina 218Il caso dei due giornalisti francesiIl primo caso avviene nel maggio del 1992, a Palermo. Arrivano in città due giornalisti francesi, Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo. Se il secondo, che svolge il ruolo di producer, è un po' straniero in città, Fabrizio Calvi invece la conosce e la frequenta da tanto tempo. Era arrivato giovanissimo in Italia nel 1969, inviato del quotidiano francese Libération dopo la strage di piazza Fontana, con il suo nome proprio, Jean Claude Zagdom, ma l'aveva presto cambiato con uno pseudonimo: Fabrizio in ricordo di Stendhal, e Calvi, perché l'avvocato Guido Calvi, difensore dell'anarchico Pietro Valpreda, fu una delle prime persone che gli spiegarono come andavano le cose qui da noi. Nel corso di venticinque anni Fabrizio Calvi era diventato uno dei giornalisti più acuti sulle vicende dei misteri italiani, autore di importanti volumi sulla mafia, sul terrorismo e l'eversione nera, con ottime fonti e curiosità inedite per noi colleghi italiani. Questa volta il progetto era una cosa grossa: la società televisiva Canal Plus gli aveva commissionato una serie televisiva dal titolo I padrini d'Europa, un viaggio alla ricerca dei personaggi impenetrabili, ma molto potenti che esercitano un grosso peso nel vecchio continente. Per l'Italia era stato scelto il magnate delle tv e proprietario del Milan Silvio Berlusconi. Acuto e intraprendente, Calvi era stato a filmare la villa di Arcore, aveva intervistato fattori e ufficiali di polizia e si era soffemato sulla figura dello stranissimo stalliere della villa, quel Vittorio Mangano, boss di Cosa Nostra, chiamato da Marcello Dell'Utri, il capo di Publitalia, a vigilale sulla sicurezza dell'industriale milanese. Raccolto il materiale milanese, i due erano poi scesi a Palermo per sentire l'altra faccia della medaglia. Paolo Borsellino era interessato e chiese del tempo per raccogliere un po' di materiale per rispondere con precisione alle domande. Poi diede loro appuntamento per filmare l'intervista a casa sua il 21 maggio. Erano giorni convulsi perché si stavano svolgendo le elezioni per il presidente della Repubblica, e i prismi scrutini erano andati a vuoto tra candidati di bandiera e candidati di «sondaggio». Tra questi erano comparsi anche 47 voti per Paolo Borsellino, convogliati dal Msi come segnale di lotta alla mafia. Con Giovanni Falcone ormai a Roma da tempo, il procuratore aggiunto Borsellino era infatti il simbolo della lotta antimafia palermitana. L'intervista fu lunga, colloquiale, per nulla formale — Borsellino vi appare in maglietta — con un Fabrizio Calvi molto competente e un Borsellino molto collaborativo. Si parla di Vittorio Mangano, del traffico di droga a Milano, del ruolo dei fratelli gemelli Marcello e Alberto Dell'Utri, del finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda, di inchieste in corso. Uno stralcio dell'intervista: CALVI: A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia. [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7.] BORSELLINO: Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente. CALVI: Si è detto che Mangano ha lavorato per Rerlusconi. BORSELLINO: Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla. CALVI: Ma c'è un'inchiesta ancora aperta? BORSELLINO: So che c'è un'inchiesta ancora aperta. CALVI: Su Mangano e Berlusconi? A Palermo? BORSELL1NO: Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia concernenti anche Mangano, CALVI: Concernenti cosa? BORSELLINO: Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento. CALVI: Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è? BORSELLINO: A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso. CALVI: Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi? BORSELLINO: Normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessita per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si e trovata in contatto con questi ambienti industriali. CALVI: E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi? BORSELLINO: Ma, guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. È chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti. CALVI: Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche in sequestri di persona... BORSELLINO: Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni – siamo probabilmente alla fine degli anni sessanta e agli inizi degli anni ottanta – appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona. [A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti dodici fogli, le carte che ha consultato durante l'intervista.] BORSELLINO: Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, alcuni non lo so... [Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti dalla memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell'intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda, Berlusconi, Alamia.] CALVI: E questa inchiesta quando finirà? BORSELLINO: «Entro ottobre di quest'anno...». CALVI: Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici? BORSELLINO: Certamente... CALVI: Perché ci servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria... «Passerà del tempo prima che...» sono le ultime parole di Paolo Borsellino. I giornalisti francesi ripartirono da Palermo. Quarantotto ore dopo Giovanni Falcone saltava in aria a Capaci. Sessanta giorni dopo Paolo Borsellino saltava in aria insieme alla sua scorta mentre premeva il citofono della casa della madre in via D'Amelio. I giornalisti francesi, depositari di uno scoop di tale portata, non ne fecero alcun uso. Non dopo la morte di Falcone. Non dopo la morte di Borsellino. Canal Plus non si dimostrò più interessata alla storia, anche perché mancava la versione della controparte, cioè di Berlusconi e Dell'Utri. L'intervista a Borsellino venne inviarti privatamente da Fabrizio Calvi alla famiglia Borsellino in una sorta di premontaggio, per amicizia e per ricordo e ricomparve sul settimanale L'Espresso l'8 aprile del 1994, dieci giorni dopo che Berlusconi aveva vinto le elezioni. Fabrizio Calvi pubblicò il suo libro L'Europa dei padrini da Mondadori all'inizio del 1994, in cui non compare niente sul proprietario della Mondadori Silvio Berlusconi. Nel libro si parla di traffico d'armi, di investimenti immobiliari in Spagna e in Francia, di banche svizzere, di polizie segrete; Borsellino è citato qua e là per alcune frasi generiche e in particolare per quanto sia importante che «ora cominciano a parlare anche le donne». E basta.
Da allora Fabrizio Calvi non si occupa più delle vicende italiane.
Questa è la succinta storia del potere della televisione, soprattutto di quella che non va in onda. È molto probabile che le ultime parole di Paolo Borsellino, se fossero state trasmesse quando Berlusconi annunciò la sua discesa in campo per salvare l'Italia dai comunisti, avrebbero stroncato la nascente carriera politica del candidato homo novus.
Ma, come avete capito, non andarono in onda.
|