Copertina
Autore Vanna De Angelis
Titolo Il bambino con la fionda
EdizionePiemme, Milano, 2013, Voci , pag. 446, cop.ril.sov., dim. 13,5x21,8x3,8 cm , Isbn 978-88-566-2776-3
LettoreCristina Lupo, 2013
Classe narrativa italiana , storia criminale , shoah
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Pagina 7

Capitolo 1



Quello che mi è rimasto sullo stomaco, tra le tante cose, è quando hanno detto in giro che Marek ha ammaestrato un topo. Uno di quei topolini bianchi con il naso rosa. Hanno detto che si mette ritto sulle zampe di dietro appena lui schiocca le dita. Hanno detto che si butta pancia all'aria per avere del pane. Poi Marek impicca il topolino bianco e ne ammaestra un altro al volo, così tutto ricomincia.

Hanno detto questo.

Frottole. So quello che Marek fa e quello che Marek non fa.

Lo so perché Marek sono io.

Sarei incapace di fare una cosa simile. È stato Stephan a mettere in giro la voce. La storia del topolino ammaestrato l'ha presa da un racconto. Il racconto l'avevo letto anch'io e so che alla fine l'ammaestratore non impicca il topolino. Lo lascia libero. Questa dell'impiccare l'ha inventata lui, Stephan. Stephan ha una faccia da pupazzo. Al posto degli occhi ha due bottoni di vetro. Suo padre è un chirurgo famoso e farebbe bene a cambiarglieli quegli occhi. Però se lo facesse non si capirebbe più che Stephan è una carogna. Così se incontrerò ancora occhi come i suoi, capirò subito con chi ho a che fare. Occhi come bottoni di vetro? Ecco una carogna. Ne avrei incontrati di occhi da carogna.

Mi sembra ancora di vedere Stephan dalla finestra della mia stanza mentre faccio gli esercizi di violino. È lì che parla con il suo gruppetto di seguaci e indica la mia finestra, poi tutti insieme mi salutano e corrono intorno e si buttano nella neve pancia all'aria. Fanno i topi ammaestrati insomma. Poi fanno finta di impiccarsi con le cinture. Da dietro le tende li vedo ridere e correre via perché la mamma ha mandato il giardiniere all'ingresso. Ha in mano il rastrello e lo agita in aria come una spada, una spada che sprigiona scintille, è la spada dell'angelo vendicatore puntata contro Stephan e gli altri. Se la battono. L'angelo guarda su verso la mia finestra e mi dice che ritorneranno, non è che lo dica proprio ad alta voce, non muove quasi le labbra, ma io lo capisco. È una faccenda fantastica questa dell'angelo vendicatore che mi parla senza parlare. Però il padre di Stephan è venuto a dire alla mamma qualcosa come "guai a voi se minacciate ancora mio figlio con un rastrello". Non ha capito che non era un rastrello ma la fiamma con cui l'angelo vendicatore, travestito da giardiniere, ti riduce il muso in cenere. Al padre di Stephan, comunque, la mamma ha chiuso la porta in faccia. E lui gliel'ha fatta poi pagare. Eccome se gliel'ha fatta pagare!

Non so perché, di tutto quello che mi è successo, racconto per prima cosa la faccenda del topolino. Non è che sia iniziato tutto da lì, naturalmente. Ma in un certo senso sì. E che quando in giro dicono di te una cosa, anche se è falsa, poi sembra vera e tutti ci credono. Quindi voglio mettere subito in chiaro che io con i topolini bianchi non c'entro per niente. Con l'ufficiale delle SS sì, con quello eccome. Ma questa dell'ufficiale è venuta dopo, quando avevo già imparato un sacco di cose, e non solo a tirare con la fionda che mi aveva fatto la mamma.

Ma per tornare alla storia dei topolini bianchi, la faccenda stava ormai circolando. Per esempio era arrivata anche alle pelose orecchie del mio maestro di violino.

«Ci vuole tanta di quella pazienza per ammaestrare un topo...» questo era appunto il mio maestro di violino «... tu non hai pazienza, Marek, e per avere già nove anni manchi talmente di tenacia... se no con quel violino saresti a far concerti in giro per l'Europa, come Mozart, e non qui sotto l'ala nera del nazismo» però ala nera lo disse sottovoce, molto sottovoce. «Tra l'altro per impiccare un topo ci vuole fegato, tu invece hai proprio una faccia da bosnek» che nel suo dialetto vuol dire qualcosa come vigliacco. Si era asciugato la saliva, è uno che sbava quando si agita. Puntò l'archetto sullo spartito: «Riprenderai da qui». Di nuovo mi aveva osservato da sopra gli occhialini: «Non ti fa schifo impiccare un topo? A me verrebbe da vomitare». Aveva preso a grattarsi la schiena infilandosi l'archetto nel colletto della camicia, poi: «Però non sono d'accordo con quelli che dicono che voi siete capaci di tutto».

Gli ho chiesto voi chi, ma lui ha fatto una smorfia come a dire lascia perdere e ha fatto una faccia triste. Ma ha scostato la sedia neanche avessi il tifo. Ce l'avevano in tanti, il tifo, qui a Varsavia. Non io, per fortuna. Dicevano che il tifo è colpa degli ebrei del ghetto. L'ho sentita in libreria, e quando ho chiesto alla mamma se era vero si è così arrabbiata che ho giurato a me stesso di tenere il becco chiuso sulle scemenze che sento in giro.

Comunque, per tornare al maestro di violino e alla sua faccia triste, a un certo punto aveva scostato la sedia come se potessi infettarlo. Ecco che cosa mi ha combinato Stephan con quelle sue panzane sui topolini bianchi.

In fondo, a Stephan e a suo padre dovrei pensare in modo diverso per via di quello che gli è successo. E di cose gliene sono successe a quei due dopo il giorno in cui il padre di Stephan si infilò nel portone di via Laszno, dove la gente entrava a far denunce alla Gestapo. Ci entrò anche lui, bello deciso, e denunciò la mamma. Mio padre certo non poteva denunciarlo. Avesse potuto avrebbe denunciato anche lui. Si odiavano. Avevo sentito mio padre dire alla mamma qualcosa come «quello lì è uno che disprezza tutti». Il fatto di disprezzare gli altri mandava in bestia mio padre, come accadde con il dottor Schlieme. Ma questa non la posso raccontare adesso. Forse non la posso raccontare per niente.

Comunque, dopo le chiacchiere di Stephan, anche il libraio all'angolo della strada che porta alla piazza che adesso si chiama piazza Hitler, è diventato strano. Non potevo sapere che era stata sua moglie a dirgli di buttarmi fuori dal negozio e che lui ce la stesse mettendo tutta per ubbidirle. Eppure gli ero simpatico... ma, come diceva mio padre, l'animo umano è fragile. Anche il libraio evidentemente aveva un animo umano. Mio padre mi fece scrivere dieci volte queste parole sul mio diario: l'animo umano è fragile. Quando gli mostrai la pagina con le dieci scritte mi disse che l'animo umano ce l'ho anch'io e che quindi era mio dovere sorvegliare la mia fragilità. Cioè di non fare come il libraio che, per ubbidire agli altri, andava contro la propria volontà.

Quando è successo tutto il gran disastro, il diario l'ho nascosto sotto le mattonelle nella cucina della casa dei Baumgartner. Loro, i Baumgartner, li avevano già portati via. Avevo nascosto lì il diario e anche l'album con le storie che mi raccontava la mamma e che illustravamo insieme. I disegni di mia mamma erano molto più belli dei miei, perché lei è una pittrice.

Era una pittrice.

In fondo devo proprio al padre di Stephan se le cose sono andate in modo da farmi finire in quella casa cadente e bruciacchiata del ghetto, popolata di fantasmi. E io lì tutto solo a tirar fuori dal nascondiglio il diario e l'album da disegno. Spiegherò dopo perché è stato così importante nasconderli.

Comunque, al tempo della faccenda dei topolini, tutto sommato ero ancora bello tranquillo nella nostra casa, una casa che con il ghetto non c'entrava un bel niente. Ogni lunedì pomeriggio andavo in libreria perché la mamma sapeva che ormai ero capace di scegliermi i libri da solo. Fatto sta che anche quel giorno scelsi un libro, ma: «Non credo che tu riesca a leggere per intero questo libro» mi disse il libraio. Il libro era L'isola del tesoro. «È troppo difficile per te.»

«Gli altri di Stevenson non erano troppo difficili.»

«Cioè?»

«Non ricorda che li ho comperati tutti da lei?»

«Non ricordo un accidenti di te.»

«Ho letto The Silverado Squatters» e questo lo dissi in inglese visto che lo avevo letto in inglese «poi Il trafugatore di salme e La Freccia nera e Il dottor Jekyll e... quell'altro di cui non ricordo il nome...»

«Mister Hyde?» il libraio fece un risolino come se trovasse comico che io non mi ricordassi proprio il nome di quello cattivo. In effetti me lo dimentico sempre quel nome. La verità è che non voglio ricordarlo. È Mister Hyde il Male? O è l'altro il Male? Li confondo.

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Pagina 22

La mamma scosse le spalle e non volle rispondermi. Spesso i grandi non erano facili da capire, per niente facili. Adesso capisco tutto.

Allora invece ero un bambino. In carne e ossa.

Sai quante volte me lo sono guardato il disegno del robusto senso morale, quando correvo a rifugiarmi nella catapecchia dei Baumgartner? Gli facevo un sacco di domande, ma chi mi dava le risposte? Non lui. Forse parlava a voce troppo bassa. Tutti sussurravano ormai invece di parlare, quindi anche il frassino poteva aver paura di essere sentito e pum-pum-pum, fucilato. Morto anche lui con il senso morale e tutte le sue foglioline, giù per terra come tanti altri. Comunque io non sentivo le sue risposte. O, come spesso diceva la mamma, se non sentivo le risposte era perché la mia anima non aveva le orecchie? Impossibile. Era la paura a non farmi capire più niente. Aprivo l'album sul pavimento dei Baumgartner, anche di notte. Avevo scovato una candela e stavo lì a guardare, restavo avvinghiato al frassino, parlavo con la mamma e non importava se lei non c'era. Parlavo anche con l'angelo vendicatore, l'avevo incontrato qualche giorno prima travestito da operaio della fabbrica di spazzole.

Ma tutto questo lo racconto dopo.

Così quando la mamma mi scoprì perché rizzavo le orecchie dietro la porta della sala mentre lei aveva finito di mettere i cartoni alle finestre insieme a Lilly, mi ripeté la faccenda del robusto senso morale e intanto mi prese per mano e insieme andammo in cucina. Si mangiava lì invece che in sala, in cucina faceva calduccio, in sala no, soprattutto adesso che di nuovo erano saltati i vetri per le esplosioni.

«Non si spia. Se vuoi sapere qualcosa lo puoi chiedere. È brutto fare gli spioni.»

«Ma voi non mi raccontate mai niente.»

«Niente giustificazioni quando ci si comporta male.»

«Però preferirei sapere tutte le cose che succedono.»

«Le puoi vedere da te le cose che succedono» ed era un tono, il suo, che non ammetteva altri ma e altri però. «Le puoi davvero vedere da te» i suoi occhi mandavano scintille incandescenti «sei abbastanza grande per accorgerti da solo di un sacco di cose che succedono qui.»

«Non lo pensi davvero» osavo sfidarla «quando andiamo per strada mi metti la mano davanti agli occhi. Lo fai spesso quando succede qualcosa di brutto.»

«Vuoi dire che non lo farò più» sbottò la mamma, si stava arrabbiando «vuol dire che ti lascerò vomitare in un angolo per quello che vedrai per strada.»

«Tu guardi sempre eppure non vomiti. Ma io sono coraggioso come te» però mi tornò in mente la signora Rutscka e la paura che mi aveva messo la sua faccia da spettro e quella mano sulla guancia.

«Ma sì, certo che sei coraggioso, come no» ora era davvero fuori dai gangheri. Urlava. Ma aveva una voce bellissima così quando urlava in effetti sembrava che cantasse. Era la Regina della Notte, uguale precisa. Allora i suoi strilli erano miele per le mie orecchie. Io adoravo la Regina della Notte quando cantava quel pezzo, anche se in effetti avevo una paura terribile di lei. Non della Regina della Notte, ma della mamma che continuava a urlare. «E allora guarda tutto e diventa finalmente grande, hai ragione tu, perché devi startene in un paradiso artificiale mentre Varsavia sprofonda nella tragedia? Perché? In fondo non hai nessun diritto di vivere placido e beato.»

«Guarda che è solo un bambino» Lilly cercava di difendermi, come al solito. E la mamma come al solito non le dava retta. Continuava a urlare e a dirmi cattiverie, terribilmente minacciosa, cantava urlando e si chinò un po' verso di me, ma poiché non mi aveva mai picchiato non potevo avere paura di uno schiaffo. Avevo una paura diversa, come se non valessi più niente, come se fossi meno di una pulce. Era questo a farmi paura, il fatto di essere zero, meno di un topo, meno di una formica. Meno di un nazista.

«Ti dimostrerò,» non so proprio come osassi sfidarla fino a quel punto «ti dimostrerò che anche io ho coraggio da vendere. Non solo tu.»

«Ti voglio proprio vedere.»

«Provaci almeno» continuavo a tenerle testa «e non fare più come quella volta quando la Baumgartner è venuta a raccontarci di quei suoi amici che sono stati portati via e del loro bambino...»

«Vuoi saperla la verità di quel loro bambino allora?» urlò la mamma, al culmine della rabbia. «Quel bambino era biondo con gli occhi azzurri, proprio come te, maledizione, avrei dovuto farti con i capelli e gli occhi scuri. Biondo e con gli occhi azzurri, così i tedeschi lo hanno preso. Stanno prendendo quelli biondi con gli occhi chiari. Li portano via perché hanno una faccia da tedesco, una faccia da razza eletta...»

«Non gridare così,» Lilly era sempre più agitata «ti sentiranno tutti.»

«... non ha importanza se quel bambino biondo è polacco fino all'ultima goccia di sangue» la mamma non dava tregua «l'hanno portato in Germania, come fanno con tanti altri, li affidano a famiglie tedesche che li germanizzino e guai se quei bambini non dimenticano subito la lingua polacca e i genitori, guai se non accettano di cambiarsi il nome in Hans o Franz, guai se non fanno heil Hitler e...» La mamma si lasciò cadere su una sedia, era senza respiro, io le stavo di fronte impalato, quello che mi aveva raccontato mi era entrato nella testa come se mi avesse sparato dentro un chiodo. E se mi avessero rapito mentre andavo per strada?

«Tu non sai come li tratteranno le famiglie tedesche. Vuoi proprio saperlo che cosa succede a quei bambini?» La mamma aveva smesso di urlare. Poi: «Stai zitto e non dire niente per favore» sospirò. Quando sospirava così, sospirava tutto quello che ci stava intorno. Sospiravano con lei i mobili di legno che avevamo portato qui dalla campagna, sospirava il fuoco che borbottava sotto la pentola, le posate sul tavolo, Lílly stessa e sospirava il gatto, sospirava Nina nel sonno e la sua bambola di pezza, e le tende a fiori della finestra. Sospirava la neve che si stava facendo più fitta e tutto mi sembrò terribilmente triste e sospirante.

«Sì, Marek, per il momento non diciamoci più niente» disse ancora la mamma.

Così sono rimasto zitto come voleva lei, anche perché Lilly mi aveva messo davanti il piatto. Mangiavamo di nuovo patate. Patate e lardo. La mamma per la faccenda del lardo diceva che noi non siamo ortodossi, mio padre invece diceva che bisogna nutrirsi con quello che si trova. Così quando la signora Baumgartner era venuta una volta per chiedere a mio padre una medicina e aveva visto il lardo sulla tavola vicino a tutte quelle patate e aveva chiesto «è di oca o di maiale?» mio padre le aveva risposto solo di sedersi e mangiare con noi e lei si era seduta e non aveva fatto altre domande.

Erano troppo squisite le patate con quella poltiglia di lardo spalmata sopra. Erano montagne sotto la neve. Con la punta del coltello tracciavo dei sentierini nella neve, poi scendevo con gli sci come quando andavamo sui Tatra e mi fermavo al bordo del precipizio. Scavavo la montagna e ne mangiavo un pezzettino. Poi tornavo in cima e di nuovo scendevo con gli sci lungo la pista, c'era anche l'aria fredda a friggermi la faccia. Mi lacrimavano gli occhi per la corsa, il rumore degli sci sulla neve mi piaceva tantissimo e quando arrivavo di nuovo sul bordo del precipizio mi fermavo e mangiavo un altro pezzettino di montagna ricoperta di neve.

«Non si gioca con il cibo.» Questa era Lilly.

«Sono in montagna. Mangio la montagna.»

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Capitolo 4



«Dove sei? Dove sei, Marek? Dov'è il mio tesoruccio? Dov'è il mio fringuellino?»

Questa era la nonna. Appena entrava in casa nostra mi chiamava, e io correvo a nascondermi appena sentivo la sua voce gracchiante — ma un gracchiare di cornacchia allegra, di ottimo umore, come se vivessimo tutti nel paradiso delle cornacchie.

«Dov'è il mio passerotto?»

E io mi infilavo in qualche nascondiglio. Era un gioco tra noi due. Il gioco dell' arriva il lupo. La nonna doveva cercarmi in tutta la casa e io nascosto da qualche parte la sentivo avvicinarsi, anche perché mentre mi nascondevo lasciavo dietro di me delle tracce come il mio fischietto, o una ciabatta, o il mio amato berretto a scacchi. Lei diceva che quando ci si nasconde si lasciano tracce per chi ci vuole bene e si impara a non lasciarle per chi ci odia. Me ne sarei ricordato poi, nel ghetto, ma al momento il gioco dell' arriva il lupo era un'altra cosa.

«Eccoti!» mi aveva scovato e mi abbracciava, non era grande e grossa ma aveva una forza pazzesca. Solo ora capisco che la sua non era forza fisica ma dell'anima. Ci sono anime fortissime. La sua lo era, non per niente faceva parte di una specie di associazione segreta di sabotatori. Lei era una che colpiva e tagliava subito la corda, colpiva e spariva. Le SS non riuscirono a prenderla per un bel pezzo, anche perché si aspettavano di dover mettere le mani su un uomo e non su una specie di vecchietta.

«Fammi quella che le SS non prenderanno mai» le dicevo e lei tirava fuori dal berretto di lana un po' di capelli bianchicci, faceva una faccia come se avesse cento anni, diventava gobba, trascinava una gamba, sembrava che stesse per stramazzare da un momento all'altro. Mi torcevo dalle risa.

«Adesso fai la nonna dell' arriva il lupo» le dicevo e lei diventava alta due metri e con una faccia che sembrava Robin Hood del mio libro di Ivanhoe, quel libro che a parte il personaggio di Robin Hood ho sempre trovato noiosissimo, tanto per dire.

«Eccola la tua nonna-lupo» si tirava il berretto di lana fin sugli occhi e la sciarpa sotto il naso e mi ammiccava per farmi capire che in tasca aveva un attrezzo con cui tagliava le gomme delle auto dei tedeschi, mai capito come facesse data la sorveglianza, e con cui faceva altre cose che si era rifiutata di raccontarmi. Ora però so di cosa si tratta e devo dire che non l'avrei mai creduta capace di tanto.

«Le SS e quelli della Gestapo non sono qualcuno» mi aveva detto una volta che eravamo andati a buttarci sotto i castagni del parco, d'estate. Faceva un caldo terribile, lei aveva tirato fuori quella frase così, all'improvviso, era qualcosa che aveva a che fare con i suoi pensieri, poi aveva pronunciato quelle parole ad alta voce come se parlasse da sola. Lì per lì non potevo capire di che cosa stesse parlando. Solo ora so quello che aveva fatto il giorno prima. Incredibile che non l'avessero colta in castagna. Anzi. I tedeschi avevano creduto a un incidente, invece c'era stato un guasto nell'auto di un ufficiale e l'auto era finita dritta dritta contro il muro. Anche l'ufficiale era finito dritto contro il muro. Come aveva fatto, lei, a mettere le mani in quel motore, è un altro mistero. Forse aveva corrotto il meccanico. Ma i meccanici dei nazisti non erano facili da corrompere. La nonna diceva che tutti i polacchi dovrebbero essere dei sabotatori e per questo era anche tra quelli che vanno in giro a attaccare manifesti contro i nazisti. Se ti beccano ti fucilano all'istante, questo me lo aveva raccontato la nonna, di nascosto dalla mamma, naturalmente. Secondo la mamma io non avrei dovuto sapere niente. Mai niente. Come se vivessi su un altro pianeta. Anzi, in paradiso.

Comunque.

Comunque la nonna: «Sui manifesti scriviamo quello che sta accadendo, caso mai noi polacchi non ce ne fossimo accorti» mi disse quando eravamo lì sotto i castagni «sembra che la gente si dimentichi che i nazisti hanno deciso che non più di mezzo milione di polacchi ha diritto a sopravvivere. Non uno di più. Tutti gli altri morti. Invadiamo lo spazio vitale della grande Germania. Praticamente ci ammazzano tutti, capisci? Per far posto alle famiglie tedesche» strappò un ciuffo d'erba come se stesse strappando la testa a una SS. «Alle loro famiglie. Sai che cosa dicono di noi polacchi? A parte che secondo loro siamo una specie sottoumana, dicono che non sappiamo fare un ragionamento, che siamo sporchi, dicono che siamo così poco intelligenti da essere adatti solo a fare dei lavori pesanti, che siamo bastardissimí perché apparteniamo a una razza schifosamente mista, la razza inferiore slava e una fetta di razza ariana degenerata... questo dicono di noi i nazisti, Hitler in testa... con quello che ci fanno, non dovremmo essere tutti sabotatori?» Gettò per aria la manciata d'erba che aveva strappato e guardammo íl vento che se la portava via.

Poi la nonna si mise a suonare. Non aveva bisogno di uno strumento. Le bastava una foglia di edera. Lo faceva spesso. Non so come facesse ma prendeva una foglia di edera, la rigirava tra le dita in un certo modo e poi ci soffiava dentro. La foglia si metteva a suonare come se fosse un violino. La nonna suonava ed era una cosa fantastica stare ad ascoltarla, mi buttavo nell'erba e stavo lì a guardare per aria con quella musica di violino che usciva dalla foglia di edera e mi volava intorno. Alla fine, quando la nonna smetteva di suonare, la foglia era ridotta a uno straccetto, come se la musica le avesse succhiato via tutto, anche la clorofilla.

«È che la musica è dappertutto» diceva e prendeva un'altra foglia e poco per volta tutte le foglie di edera suonavano e la nonna andava da una foglia all'altra, la vedevo a occhi chiusi, era una specie di ape con il berretto di lana in testa. Andava da una foglia all'altra, stringeva la foglia tra le dita senza romperla e ogni foglia suonava Chopin.

La nonna adorava Chopin, naturalmente. Mi raccontava che quando i tedeschi avevano invaso la Polonia, la radio trasmetteva Chopin in continuazione e hanno smesso di trasmetterlo solo quando si è capito che Varsavia aveva perso. I tedeschi l'avevano conquistata. Varsavia e la Polonia non erano più libere. Questo diceva la nonna.

Tra l'altro la nonna era una di quelli che avevano diffuso per le strade della città dei notturni di Chopin. Fortissimo. I nazisti c'erano già da un pezzo. Avevano già occupato la città. I nazisti avevano vietato Chopin e distrutto le sue statue. Era vietatissimo suonarlo, ascoltarlo, mettere la sua musica sul grammofono. Però un giorno si sentì la musica di Chopin che galoppava nell'aria da una strada all'altra. Le SS giravano per le vie con le camionette, circondate dalla musica, e si infilavano dappertutto per capire da dove diavolo arrivasse Chopin. In mano avevano le pistole, le mitragliette e l'espressione di quelli che non vedono l'ora di sparare. Invece non beccarono nessuno. Scoprirono un grammofono in una catapecchia diroccata, una di quelle case che avevano distrutto loro quando avevano conquistato la nostra città. Lo scoprirono lì dentro, il grammofono, ma c'erano un sacco di fili collegati agli altoparlanti, ecco perché Chopin si sentiva dappertutto. Però avrebbe dovuto esserci anche quello che continuava a mettere su i dischi. Ma non lo trovarono.

La nonna quella volta non la beccarono.

«Quella è stata un'idea formidabile» diceva la nonna ogni volta che mi raccontava tutta la faccenda. Le chiedevo spesso di raccontarmela. Mi piaceva la storia di Chopin che faceva inferocire i nazisti.

«Sai perché li fa inferocire?» diceva la nonna. «Perché è la prova che noi polacchi esistiamo, che continuiamo a esistere, che lottiamo per la libertà, che riusciremo a essere di nuovo liberi.»

Però era anche il tempo delle retate, cioè arrivavano le SS così di colpo, come nella biblioteca di Lisa, tiravano su un po' di gente e la fucilavano per strada. Poi mettevano un cartello con su i nomi di quelli che avevano ucciso. Alla fine non misero neanche più il cartello. Comunque la nonna mi raccontò che nel ghetto facevano ben di peggio.

Comunque.

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Pagina 150

«Mamma» la interruppi nonostante stesse parlando con la superiora, le scossi la mano, forte «mamma, con la mia fionda libero mio padre dai nazisti... lo libero io, mi ascolti?»

«Zitto, Marek, zitto» la mamma mi guardò severa «non si fa così, lasciami parlare, non si interrompono i grandi mentre parlano» e subito voltò di nuovo la testa verso la superiora: «Se mi dici di portare Marek lo porto. Ma quando liberano Grzegorz?».

«Mick e Janek sanno il fatto loro»

Era come se io non ci fossi.

«Come possono tirarlo fuori? Assaltano la prigione? E se tutti muoiono?» la mamma continuava a lacrimare.

«Come fanno? L'ho chiesto ma non me lo dicono.»

«Corruzione.»

«Corruzione? Per corrompere ci vogliono tanti soldi...» la mamma gemeva. Non avrei potuto chiederle che cos'è la corruzione perché guai a interrompere quando parlano i grandi. Ma si trattava di mio padre.

«Che cos'è la corruzione?» mi sporsi verso la superiora. «Scusi se lo chiedo.»

«Quando uno che non dovrebbe fare una cosa la fa perché in cambio riceve soldi o oggetti di valore» anche lei si sporse verso di me «un ufficiale della Gestapo non deve liberare i prigionieri ma lo fa se riceve qualcosa che lo arricchisce» poi guardò di nuovo mia madre e con un fazzoletto le asciugò le lacrime, come fosse lei la mamma della mamma, ecco.

«SS e Gestapo arraffano qualsiasi cosa» diceva intanto. «Basta che sia di valore. Pensa che in cambio di un tappeto persiano siamo riusciti a liberare Waclaw.»

Waclaw? Stava forse parlando di Waclaw Sierpinski, l'amico di Fri? Fri diceva di lui che era un grandissimo matematico. Insegnava all'università clandestina da quando i nazisti avevano chiuso la nostra università polacca. Avevo anche assistito alle lezioni di questo Waclaw. Mi ci aveva portato Fri naturalmente, insieme agli altri, non avevo capito niente di niente solo che a un certo momento aveva smesso di scrivere numeri e segni incomprensibili alla lavagna e si era girato verso di noi dicendo che nelle scuole d'Europa non si sa insegnare bene se molti tra quelli che ne escono possono trasformarsi in assassini, cioè in gente come Hitler e la sua banda, e ha aggiunto: «Vuol dire che il sistema educativo è sbagliato». Ma la superiora mi ha spiegato che non si trattava di quel Waclaw lì, ma di un altro, uno che lottava contro i tedeschi. Anche Fri, però lottava contro i tedeschi.

Comunque se con un tappeto persiano avevano liberato lui, questo Waclaw che lottava contro i tedeschi, figurati se non potevano liberare mio padre e Fri con l'argenteria della mamma sepolta in giardino. Anche loro lottavano contro i tedeschi.

E infatti la mamma: «Ho l'argenteria dei miei» disse a voce bassissima, non la sentirono neanche i colombi sotto la grondaia del portico. Non so se fossero spie dei nazisti, forse no ma non si sa mai. «Si tratta di argenteria di grande valore. Cose antiche. Seppellita in fondo al giardino. Per ogni evenienza.»

«Dillo a Mick. Non a me.»

«Lo sa.»

«Allora penserà lui che cosa sia meglio. Libererà tuo marito e anche Fri, ovviamente. L'importante è individuare la persona giusta, ma Mick la sa lunga. Non per niente fa parte di un certo gruppo... Fri e gli altri sono straordinari.» Lo chiamava Fri anche lei. Io stavo lì aggrappato alla mamma e rizzavo le orecchie. Pensavo a mio padre e a Fri nella prigione dei nazisti. Pensavo che sarebbe stato Mick a tirarli fuori.

«Ti conviene prendere un risciò per muoverti nel ghetto. Devi farti portare in via Dzielna. In ogni caso chiunque nel ghetto sa dove si trovi il Serbia. Ma prendi un risciò, Fleur. Attraversare il ghetto non sarà uno spettacolo piacevole.»

«Per questo» disse la mamma «per questo non volevo portare Marek.»

«Invece devi portarlo» disse «perché anche lui dovrà far parte di coloro che hanno visto che cosa sta succedendo, e non solo a Varsavia ma anche là dentro. Sarà anche lui un testimone e lo potrà raccontare.»

«Continueranno a non crederci» disse la mamma. «Mi aveva raccontato Grzegorz...» che sarebbe poi mio padre «mi aveva raccontato che avevano fatto un microfilm di quello che succede nel ghetto e anche nei campi di concentramento, e che il microfilm era stato nascosto in un dente, sotto una capsula... un lavoro che aveva fatto un dentista amico di Grzegorz...» abbassò ancora di più la voce, la superiora si sporgeva verso di lei, la mamma le parlava quasi all'orecchio, ma io riuscivo a sentirla «in un dente di un tale, un corriere, ecco, uno che è riuscito a andarsene da qui, si è travestito da ufficiale nazista per passare le linee e poi... poi da Calais arrivare a Londra e da qui negli Stati Uniti... ma sa che cosa gli hanno detto, negli Stati Uniti, dopo che hanno visto quelle spaventose scene?»

«Hanno detto che è pura propaganda antinazista» disse la superiora.

«Come fa a saperlo?»

«È una risposta che hanno già dato ad altri. Ci mandano danaro, questo sì. Ci mandano un bel po' di soldi. Ma chiudono gli occhi di fronte all'orrore. Loro non li vedranno mai quelli che i nazisti ammassano nei vagoni per portarli a Treblinka, io invece li ho visti.»

La superiora si strinse alla mamma e la mamma si strinse a lei, come se quelle due avessero freddo.

«La verità è che c'è in ballo una tremenda guerra mondiale e loro, cioè quelli che dovrebbero aiutarci, hanno ben altro da pensare che ai polacchi di Varsavia o agli ebrei che i nazisti stanno sterminando.»

Io la mano della mamma non la mollavo anche se era appiccicaticcia.

«Quello che mi fa impazzire è quando hanno eretto quel muro intorno al ghetto» disse ancora la superiora «un muro che non ci vedi dentro...»

«Ho sentito cose tremende» bisbigliò la mamma.

«E io ho avuto questa spaventosa certezza... che già a Varsavia e in Polonia, da quando sono arrivati loro... da quando siamo diventati un governatorato del Reich... già qui noi polacchi non abbiamo diritto ad avere leggi che ci proteggano e loro, i tedeschi, non hanno il dovere di rispettarne alcuna. Già qui fra ariani, come dicono loro, siamo in balia della follia sadica e assassina di un qualsiasi SS, che resterebbe comunque impunito per quello che fa. E nel ghetto circondato dal muro? Loro possono ammazzare torturare stuprare bruciare affamare deportare, tanto non c'è niente che glielo vieta. Nessuno li vede. Quel muro è come se dicesse: il mio nome è impunità».

Il mio nome è impunità. Non me le sarei dimenticate queste parole.

«Lì dentro possono dar la stura a qualsiasi crudeltà.» La superiora aveva una faccia terribile. «Oltretutto loro, gli ebrei, mai che si ribellino, mai... si fanno ammazzare e questo mi esaspera» sembrava arrabbiata. E stringeva l'altra mano della mamma: «Questo mi angoscia terribilmente perché io non posso farci niente, e nessuno qui a Varsavia può farci niente... non possiamo aiutarli, non possiamo impedire il massacro, li sentiamo morire e non muoviamo un dito».

Silenzio. Io ero spaventato. Ma la mamma non badava a me. Lei e la superiora stavano spalla a spalla, come se io non ci fossi. E si stringevano la mano.

Nel silenzio si sentivano le tortore fare il loro buffo verso sotto le grondaie del cortile. Buffo verso... ma non mi veniva per niente da ridere. Avevo paura. Così volai sulla grondaia anch'io, mi feci un posticino tra le tortore che si gonfiavano per il freddo. Non erano spie dei nazisti, stavano dalla nostra parte, mi fecero posto e anch'io ero coperto di piume, tutte bianche e rosse le mie piume – pensavo a occhi chiusi – sì, tutte bianche e rosse, proprio come il vestito di Lavinia. Me ne stavo tra le altre tortore a fare glu glu e a riscaldarmi, a guardare il sole sotto i pini... poi però dovetti volare giù in fretta e tornare sulla panca vicino alla mamma e la superiora perché quelle due avevano ricominciato a parlare e volevo sentire quello che dicevano.

«Mamma.»

«Aspetta Marek, lasciami tranquilla.»

Le due, la mamma e la superiora, parlottavano così non riuscivo a sentire.

«Mamma.» Provavo un senso di angoscia, seduto nel portico con la mamma che quasi mi dava la schiena. Vedevo il nido di cicogne vuoto dall'altra parte del cortile, su in alto a lato della torretta. Le cicogne erano nei paesi del sud naturalmente. E se non fossero tornate mai più?

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Capitolo 11



Quando ci presero andò così.

Secondo me quella notte, la notte in cui Greta si fermò a dormire da noi, quella notte lì stavo facendo un incubo. I soliti draghi. O gli orchi. Uscivano dall'album dove lí aveva disegnati la mamma, forzavano la piastrella del nascondiglio e si mettevano a soffiare e a digrignare le zanne così forte da emettere un rumore simile a un rombo. Così mi svegliai.

Era tutto sudato sotto le coperte. Buio. Vedo due ombre alla finestra. La mamma e Greta. E sento quel rombo fatto dai draghi quando digrignano i denti. Però non stavo più sognando, ero sveglio. Allora mi accorsi che quel rumore non era i denti dei draghi, era un rombo di motori, lo avevo già sentito quando stavamo a casa, dall'altra parte. Saltai fuori dal letto. Erano infatti le camionette dei nazisti. Tutta una fila di camionette. Passava proprio sotto la nostra casa e i muri si scuotevano e i vetri tremavano e si sentiva quel rombo e le urla dei nazisti.

Non era proprio notte. Era l'alba.

L'alba del 18 gennaio.

Uno potrebbe dirmi com'è Marek che ti ricordi così bene che giorno era? Beh, ci sono date che non si dimenticano, tipo quella del tuo compleanno o del compleanno della mamma o di Zyg. Ma ci sono anche date che non c'entrano proprio per niente con i compleanni e non ti escono più dalla testa. Il 18 gennaio per esempio. Le altre le dirò in seguito.

«Fa freddo, Marek» disse la mamma e mi mise addosso il suo scialle quando si accorse che ero vicino a lei, alla finestra. Tutti e tre, lei e Greta e io, tremavamo e credo non solo per il freddo. Guardavamo giù la fila delle camionette tutte con i fari accesi nel buio e c'era anche la luce delle torce elettriche dei nazisti, i loro elmetti scintillavano. La fila delle camionette per fortuna non si fermò ma proseguì e non finiva mai.

«Fanno così» disse Greta e mi accorsi che le mancava il fiato. «Saltano giù dalle camionette, circondano il caseggiato, fanno uscire tutti, li mettono in fila e poi...»

«Ma, Greta! Non lo vedi?» la interruppe la mamma. «Non si stanno fermando qui» bisbigliava come se avesse paura che quei nazisti là fuori potessero sentirla. Figurati! Erano assordati dal fracasso dei loro motori e delle loro urla in tedesco. Avevo detto al maestro di violino che il tedesco è una lingua che mi fa accapponare la pelle e lui si era arrabbiato e aveva detto che erano i nazisti a far accapponare la pelle, di sicuro non la lingua tedesca che è bellissima, basta leggere Goethe e Schiller e gli altri straordinari poeti come Heine, che poi era ebreo. I nazisti hanno bruciato tutti i suoi libri di poesie e guai a leggerle, come del resto guai a suonare Mendelssohn perché anche lui era ebreo. Il maestro di violino diceva che sono i nazisti a deformare la lingua tedesca, non è la lingua tedesca a essere nazista.

Comunque a sentirlo urlare in quel modo il tedesco, mentre le camionette sfilavano qui sotto, mi veniva male.

«Non capisco,» voce tremante di Greta «avevano detto che non avrebbero portato via più nessuno. Che cosa vogliono? E poi dopo la retata in città... voglio dire dall'altra parte... che cosa vogliono?»

«Quello che non capisco,» la mamma continuava a bisbigliare ma adesso con furore, si era improvvisamente arrabbiata «quello che non capisco è che ne hanno portati via dal ghetto quasi quattrocentomila... ma ti pare che i tedeschi siano così tanti? Guardali lì, quanti saranno questi? Un centinaio non di più, forse cinquanta, anche se così armati sembrano un numero infinito... basta essere così in pochi per portare via centinaia di migliaia di ebrei?»

Greta rimase zitta.

Le camionette continuavano a sfilare. Le case tremavano. Terremoto. Penso che ora si apre il pavimento e sprofondiamo giù nella casa del maestro di violino. Anche lui – questo me l'ha raccontato dopo – anche lui era alla finestra, ma non a tremare come noi, lui in una mano teneva una delle sue bottiglie incendiarie fatte in casa e nell'altra una delle sue granate fatte in casa.

Non sprofondammo.

«Perché nessuno si è mai ribellato?» la mamma continuava a bisbigliare ma era fuori dai gangheri. «Perché nessuno si ribella? Ti sembra possibile che tutti si mettano in fila e si facciano portare al macello come pecore da un numero di nazisti infinitamente inferiore? Eh?»

Le camionette scompaiono dietro l'angolo. Il rombo si allontana. Buio. Le case smettono di tremare. Noi anche.

«Non torneranno,» disse Greta «una ricognizione e basta.»

La mamma andò da Nina. La tirò su dal lettone. La abbracciò stretta. Beata Nina, ecco.

«È finita» sospirò Greta e accese la stufa e mise a scaldare l'acqua per il tè, poi tirò fuori del pane avanzato di quello che aveva portato e anche un barattolo di marmellata della nonna. «È finita, per fortuna.»

«Però vorrei andarmi a nascondere da qualche parte» disse la mamma e tornò alla finestra con Nina in braccio. Guardò giù nel buio. «Vorrei andare via di qui e andarmi a nascondere.»

«Pensa solo che è finita, Fleur» disse Greta, e aveva la voce di chi non sa dove andarsi a nascondere, ecco com'era la sua voce. «Finita» ripeté.

Ma non era finita, invece. Proprio per niente. Intanto perché quella dei nazisti non fu affatto una ricognizione. Poi perché questa volta successe qualcosa di incredibile, qualcosa che nel ghetto non si era mai visto.

Andò così.

Successe tutto all'angolo tra via Zamenhof e via Niska e si vedeva dalla nostra finestra. Però prima che succedesse picchiarono alla porta.

«Sono io, Mordechai.»

«Chi?» Greta era come se avesse perso la testa, non si ricordava neanche che il maestro di violino si chiamava così. Allora andai io ad aprire. C'era un altro con lui. Lo conoscevo, era suo amico. Uno che faceva scarpe. Uno che diceva di essere stato il più bravo artigiano di Varsavia e che ora qui nel ghetto era diventato la fame in persona. Diceva proprio sono diventato la fame, non sono più io. Infatti sembrava un osso.

Dopo quei due entrò in casa anche la vicina con un fazzoletto sulla bocca, come se volesse urlare e cercasse di non farlo.

«Sono tornati» il maestro di violino si appoggiò al tavolo perché aveva fatto le scale in su di corsa e aveva un affanno terribile. Mi aveva detto che gli era venuto dopo che gli avevano sparato. «Sono tornati.»

«Non è vero» disse la mamma, era seduta con Nina in braccio «è una ricognizione e basta.»

«Ricognizione?» Mordechai ansimava. «Ricognizione?» si girò verso l'amico. «Diglielo tu.»

«Sono venuto ad avvertirvi,» disse e mi accorsi che stavano affacciandosi alla porta anche gli altri che abitavano nella nostra casa e ne vedevo anche sulle scale, tutti lì a sentire, ammucchiati, nella poca luce, dalla faccia che avevano sembravano già fantasmi «sono venuto ad avvertire, perché hanno circondato gli stabili giù verso via Leszno.»

Ci fu un lungo, lunghissimo silenzio. Un silenzio che faceva male. Secondo me si sentiva però il mio cuore che sbatteva su e giù.

«Li hanno circondati e hanno fatto uscire tutti» disse infine il maestro di violino.

«Ne hanno anche uccisi un paio perché si erano ribellati» questo era il suo amico.

«Abbiamo saputo che li stanno mettendo in fila, li porteranno fino alla Umschlagplatz, proprio come prima.»

«Ma così... di sorpresa...» questa era Greta che si torceva le mani.

«Di sorpresa?»

«Ti aspettavi davvero che smettessero?»

Nessuno fiatava. Poi qualcuno disse e adesso?

Fu in quel momento che si sentì un rumore, come un rumore strano strascicato e poi le urla dei nazisti.

Allora corremmo alla finestra e gli altri che erano capitati in casa nostra ci si affollavano alle spalle e tiravano il collo per vedere, per capire. Quello che mi faceva paura era anche il modo in cui stavano zitti, anche i bambini, anche quelli piccoli, per non parlare di Nina che stava aggrappata al collo della mamma, al sicuro, e ciucciava una zampa del suo orsacchiotto.

«Eccoli» gemito di Greta.

In fondo, lungo la via Zamenhof, stava passando un sacco di gente, tutti in fila al centro della strada, quel rumore strascicato erano i loro piedi che avanzavano. Le SS ai lati. Con i fucili. Con le fruste. Le urla delle SS. Era una fila scura e spaventosa. Era come se la vedessi disegnata in un libro di quelle favole che ti terrorizzano. Dove succedono cose orrende. Dove la gente poi sparisce in un buco e non se ne sa più nulla. Faceva terrore vederli sfilare così.

Poi però successe quella cosa fantastica. Assolutamente fantastica.

Proprio all'incrocio con via Niska, come dicevo, vediamo qualcuno nella fila che tira su il braccio e sentiamo uno sparo perché quello lì ha in mano una pistola e ha sparato su un nazista e poi spara su un altro e poi si sentono altri spari e i nazisti si buttano qua e là e crollano per terra. Vanno giù di colpo nel loro sangue, sono i draghi che stavano per divorarci, ma stramazzano, ecco com'è andata. Stramazzano stecchiti.

«Ma allora anche loro... anche loro possono morire» dice qualcuno.

Noi guardiamo strabiliati dalla finestra ma la mamma mi tiene basso, ha paura che i proiettili ci raggiungano, ma quelli sparano sui nazisti, non su di noi. Sparano e sparano. E la fila va a farsi benedire perché tutti quelli che i nazisti avevano messo in fila, tutti quelli presi per essere spediti nei vagoni, tutti si sparpagliano e scappano via come il vento. I cadaveri per terra sono quelli delle SS. E quelli che hanno sparato continuano a sparare e quelli della fila continuano a scappare, li vediamo galoppare di qua e di là e dileguarsi chissà dove.

«No, non posso crederci, non posso crederci» e questo era il maestro di violino ma anche gli altri erano stupefatti. Si sentiva dire continuamente non posso crederci. E anche: quelli lì non ci vanno più all' Umschlagplatz.

«Sono stupefatti anche i tedeschi» disse qualcuno e poi qualcuno si mise a piangere perché è una cosa fantastica che finalmente ci siamo messi a sparare su quegli assassini, e altri dicevano avremmo dovuto farlo prima e altri ancora piangevano e dicevano adesso chissà in quanti ci uccidono per farci pagare quello che è successo.

«Non avrei mai creduto di vedere una cosa del genere» era la mamma, si era seduta, si dondolava avanti e indietro con Nina in braccio, aveva una faccia così piena di luce che sembrava che avessimo acceso le lampade a petrolio o che fosse arrivato il sole «è incredibile, è fantastico, vuol dire che abbiamo deciso di alzare la testa?»

«Juden haben Waffen» disse un ragazzo.

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Erano arrivati zitti come topi. Non li avevamo sentiti. Forse avevano paura che scappassimo per i tetti. A un certo punto ci siamo accorti che c'era qualcosa di strano intorno. Allora abbiamo guardato dalla finestra.

Eccoli lì sotto.

Di colpo si sono messi a urlare di uscire tutti. Li sentimmo venire su per le scale. Hanno sfondato la porta.

Poi tutto successe terribilmente in fretta. La mamma fece in tempo a vestire Nina e a mettermi in testa il berretto e a farmi infilare il cappotto. Greta e la mamma buttarono qualcosa in una borsa.

Eravamo tutti giù in strada davanti al portone con le mani alzate. Anche io tenevo le mani alzate. La mamma, con Nina in braccio, alzava solo una mano. Intorno c'erano i nazisti.

Dietro arrivavano gli altri e ci siamo messi tutti in fila. I nazisti urlavano come pazzi. Greta allora è andata dall'ufficiale e gli ha detto che... beh, non ha fatto in tempo a dirgli proprio niente perché quello le ha messo la pistola alla fronte e ha sparato.

La mamma mi ha preso la testa e mi ha spinto la faccia contro il suo vestito. Ma io avevo già visto tutto.

Non serve a niente, adesso, dire che ero terrorizzato. A cosa serve dirlo? Anche perché non era terrore. Era molto peggio. Era un urlo che hai dentro. Un urlo come un coltello nella pancia. Ti spacca il cuore e il cervello. Se non l'hai provato non puoi capire.

Ci siamo messi tutti in fila. In fila. Le SS in capo e in coda alla fila. Noi in mezzo. C'era un sacco di gente in fila. Un silenzio da morire nella fila. Le urla dei nazisti fuori dalla fila. La mamma mi teneva per mano, in fila con gli altri e stavamo camminando. Qualcuno dietro di me disse come pecore, lo disse piano ma io l'ho sentito.

Poi i nazisti ci hanno detto di fermarci e di aspettare e guai a chi si muove. Fermi immobili. Avevamo intorno le SS con le pistole e le mitragliette e i fucili. Si sentiva sparare da lontano. Qualcuno nella fila disse speriamo che arrivino anche qui. Lo disse pianissimo ma io l'ho sentito. Parlava di quelli della ZOB.

Ma qui non vennero.

Io vedevo Greta cascare per terra. Continuavo a vederla cascare per terra. Non riuscivo a smettere di vederla cascare per terra. Qualcosa come Lavinia. O forse mi ero sbagliato. Forse era Lavinia. Era Lavinia che cascava per terra. Non capivo più niente.

«Basta, Marek» la mamma si chinò verso di me «adesso stammi a sentire, fai esattamente tutto quello che ti dico, guai se non mi ubbidisci Marek.»

«Ma hai visto che Greta... o era Lavinia?»

Eravamo ancora tutti fermi.

La mamma mise giù Nina che le si aggrappò alla gamba. La mamma le disse stai qui stai ferma stai buona, tutti nella fila erano fermi e zitti e le SS andavano avanti e indietro lungo la nostra fila e si sentivano quegli spari, ma non vicini. La mamma prese in braccio me. Mi strinsi al suo collo. Lei mi parlò all'orecchio. Era tantissimo che non mi prendeva in braccio. Ora sì.

«Dimentica subito quello che hai visto, Marek» mi parlava all'orecchio «non è vero che è successo, non è successo niente a Greta... non pensarci più perché ora devi solo fare quello che ti dico. Ascoltami, è importantissimo che mi ascolti... perché quando la fila si muove e quando giriamo per una certa strada, prima di entrare nella Umschlagplatz, ti indicherò una finestra aperta, ci passeremo sotto, saremo vicinissimi e tu a quel punto farai un salto e ti infilerai in quella finestra, mi hai sentita, Marek? Mi hai capita? Qualcuno ti tirerà su e tu ci salterai dentro.»

«Anche tu, tu e Nina, vieni anche tu, vero?» soffiavo nel suo orecchio e non avevo più il fiato.

«No, Marek, non veniamo noi due, io vado a lavorare con gli altri della fila» lei nel mio orecchio «ma tu devi scappare, non voglio che vieni, tu devi rimanere qui nel ghetto.»

«Senza di te non vado.»

«Tu mi ubbidisci invece. Stai qui nel ghetto. Aspettami. Non farti prendere. Non ammalarti. Continua a disegnare nel tuo album. Mi hai sentita?»

«Non posso andare da solo.»

«Non piangere Marek, devi ubbidirmi, salti in quella finestra e rimani qui nel ghetto, e mi aspetti, perché io torno, io e Nina e anche tuo padre, torniamo, hai capito? Rimani qui nel ghetto e aspettaci.»

«Vengo con te.»

«Marek, ti prego, fai come dico» e lo disse con un bisbiglio ma un bisbiglio così violento che sembrava un tuono o una musica, era qualcosa di terribile quel bisbiglio. Non potevo più dirle di no, lo capii quando lei ripeté: «ti prego, skarbie, ubbidiscimi».

«Devo rimanere qui nel ghetto?»

«Qui posso ritrovarti, skarbie... rimani qui... aspettami ma adesso prometti che ti infili in quella finestra e rimani ad aspettarmi. Rimani nel ghetto perché io torno.»

Promisi.

«Tu promettimi che ritorni.»

Lei promise che sarebbe tornata.

Le SS urlarono di muoversi.

Non si sentivano più gli spari. La fila strascicava i piedi. Ero attaccato alla mamma. Ancora per quanto? Dov'era quella finestra? Mi teneva una mano sulla spalla. Nina in braccio. Ogni tanto si chinava e mi sussurrava hai promesso. E io le sussurravo anche tu.

Lei e io.

La fila girava di qua e di là e mi sembrava che la strada stesse diventando sempre più stretta. Continuiamo a camminare.

Guardavo le scarpe della mamma che avanzavano, un passo dopo l'altro, non le ho mai dimenticate quelle sue scarpe che avanzano, una scarpa, poi l'altra scarpa, ero aggrappato a quelle scarpe, non volevo lasciarle quelle scarpe.

Sento la mamma che si china e bisbiglia vai, lo bisbiglia ma è di nuovo come un tuono e la sua mano mi spinge, mi solleva, non so con che forza spaventosa. C'è la finestra, la mamma mi spinge e qualcuno mi tira su, io non capisco niente.

Tutto successe in un unico istante.

Un istante per ritrovarmi da solo.

Lei, con Nina, va via.

Io qui.

Cado sul pavimento, qualcuno mi fa rialzare subito, sono in uno stanzone, batto i denti così forte che persino i muri battono i denti, tutto il ghetto batte i denti, tutta Varsavia e tutto il mondo. Qualcuno mi dice: «C'è una scala là in fondo vai su e restaci, vai, corri». Corro verso la scala.

Mentre salgo la scala vedo una finestra. Non posso non guardare da quella finestra. Sotto di me c'è la piazza. I vagoni lì in fondo. La gente. La mamma che tiene Nina per mano. La vedo tra la folla.

Vorrei spalancare la finestra e chiamarla. Non riesco a muovermi. Non riesco a urlare. Non riesco a piangere. Penso che sto sognando e siccome adesso le cose si stanno mettendo malissimo, penso che mi devo svegliare.

Non so se mi spiego, quella lì è proprio la mamma nel suo cappotto azzurro e con Nina per mano, le stringe la manina, la porta con sé e con lei si dirige verso i vagoni, ci sono le SS ai vagoni e spingono su la gente, la mamma va con il suo cappotto azzurro addosso, la vedo di schiena e ha vicino quella piccola figura che è Nína, così piccola. Sono loro due, insieme. Io sono qui.

Lei e Nina si tengono per mano. Le vedo.

«Vai, corri, che cosa fai, non si può stare qui» mi soffia addosso qualcuno, mi strappa dalla finestra, mi obbliga a correre ancora su per la scala. In cima c'è una stanza e ci sono delle persone, sono tutti stesi per terra, le finestre sono chiuse, sbarrate, qualcuno mi spinge in un angolo, mi dice stai qui.

Mi accuccio per terra, mi rannicchio, chiudo gli occhi e vedo la mamma che tiene Nina per mano, la vedo di schiena. Vedo loro due che se ne vanno. E io qui.

Perché insieme a me non ha infilato in quella finestra anche Nina? Perché non è saltata dentro anche lei?

Lì per terra con le braccia intorno alla testa e gli occhi chiusi era come se li avessi aperti, gli occhi, perché continuo a vedere la mamma che si allontana e tiene Nina per mano. Nina con il suo orsacchiotto. Nina che segue la mamma buona buona. Nina è con la mamma. È ovvio che la segua buona buona, sono insieme o no?

Continuo a vederle, insomma.

Non riesco a ricordare quanto tempo sono rimasto così. Non ricordo che cosa accadde intorno a me mentre ero rannicchiato in quell'angolo. Non sentivo niente e non vedevo niente. Non riesco a ricordare come ho fatto a ritrovarmi in strada o quanto tempo fosse passato, o che giorno fosse. Ancora adesso c'è un buco nero in quello che sto raccontando, come quando strappi dei fogli dal tuo quaderno dei compiti, poi vedi che sono stati strappati ma non ricordi più che cosa ci avevi scritto.

Ecco, non ricordo.

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