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| << | < | > | >> |Pagina 9"Quanto tempo hanno impiegato a morire?" L'uomo cui era stata posta la domanda sembrò non averla sentita. Guardò di nuovo nello specchietto retrovisore e si concentrò sulla guida. Era appena passata mezzanotte e le strade di Lower Manhattan erano ghiacciate. Un fronte di aria fredda aveva spazzato il cielo e trasformato la neve che lo aveva preceduto in una patina scivolosa sull'asfalto. I due uomini erano a bordo della Band-Aid-Mobile, come Vincent lo Sveglio aveva battezzato la SUV scura. Il veicolo aveva qualche anno e necessitava tanto di una revisione ai freni quanto di un cambio di pneumatici. Ma portare una macchina rubata in officina non sarebbe stata un'idea saggia, specie considerando che due dei suoi ultimi passeggeri erano ora vittime di un omicidio. L'uomo al volante, un cinquantenne alto, dai capelli neri ben pettinati, svoltò cautamente in una strada secondaria e proseguì il suo viaggio senza accelerare, senza mai sbandare in curva. Avrebbe guidato allo stesso modo con o senza strade sdrucciolevoli, con o senza un delitto sulla coscienza. Attento, meticoloso. Quanto ci è voluto? Vincent il Grosso, Vincent con quei lunghi salsicciotti sempre umidi al posto delle dita, con la cintura marrone stretta al primo buco, rabbrividì. Era rimasto ad aspettare all'angolo dopo il suo turno di lavoro come dattilografo temporaneo. Faceva un freddo terribile, ma a Vincent non piaceva l'atrio dell'edificio. La luce era verdastra e le pareti erano piene di specchi in cui poteva vedere il suo corpo ovoidale da ogni angolazione. Perciò era uscito nell'aria dicembrina, limpida e gelida, e si era messo a passeggiare avanti e indietro, mangiando una merendina. Okay, due merendine. Mentre Vincent alzava lo sguardo alla luna piena, un disco spaventosamente bianco apparso per un istante nel canyon di edifici, l'Orologiaio rifletté ad alta voce. "Quanto hanno impiegato a morire? Interessante." Era da poco che Vincent conosceva l'Orologiaio, il cui vero nome era Gerald Duncan, ma aveva imparato che fargli domande era rischioso. Anche un semplice dubbio dava la stura a un monologo. Accidenti, se parlava. E le sue risposte erano sempre molto complesse, come quelle di un professore universitario. Vincent sapeva che, se Duncan era rimasto in silenzio negli ultimi minuti era solo perché stava ponderando la risposta. Vincent aprì una lattina di Pepsi. Aveva freddo, ma sentiva il bisogno di qualcosa di dolce. La svuotò in poche sorsate e si mise in tasca la lattina vuota. Poi mangiò un pacchetto di cracker al burro di noccioline. Duncan si voltò per sincerarsi che Vincent indossasse i guanti. Li mettevano sempre, sulla Band-Aid-Mobile. Meticoloso... "Direi che le risposte sono tante..." cominciò Duncan, con la sua voce calma e distaccata. "Per esempio, il primo che ho ucciso aveva ventiquattro anni, quindi si potrebbe dire che gli ci sono voluti ventiquattro anni per morire." Sì, certo... pensò Vincent lo Sveglio con un sarcasmo da teenager, anche se doveva ammettere che quella risposta, per quanto ovvia, non gli era venuta in mente. "L'altro ne aveva trentadue, credo." Incrociarono un'auto della polizia. Il sangue nelle tempie di Vincent cominciò a pulsare, ma Duncan non batté ciglio. I poliziotti non fecero caso all'Explorer rubato. "Un'altra possibile risposta", disse Duncan, "è il tempo trascorso tra quando ho cominciato e quando ho sentito i loro cuori smettere di battere. Forse era questo che intendevi. Vedi, la gente cerca di incasellare il tempo in schemi facilmente comprensibili. Scelta valida, finché risulta utile. È utile sapere che le contrazioni ricorrono una volta ogni venti secondi. O che l'atleta percorre un miglio in tre minuti e cinquantotto secondi e dunque vince la corsa. Ma nello specifico, quanto hanno impiegato a morire stanotte... be', non è importante. Basti dire che non è stato rapido." Un'occhiata a Vincent. "Non che voglia criticare la tua domanda." "No", disse Vincent. Non gli importava, se voleva criticarlo. Vincent Reynolds non aveva molti amici ed era molto tollerante con Gerald Duncan. "Ero solo curioso." "Mi rendo conto. Solo che non ci ho prestato attenzione. Ne terrò conto per la prossima." "La ragazza? Domani?" Il cuore di Vincent accelerò. L'altro assentì. "Più tardi quest'oggi, vorrai dire." Con Gerald Duncan si doveva essere precisi, quando si parlava del tempo. "Giusto." Al pensiero di Joanne, la ragazza che sarebbe stata la prossima vittima, Vincent l'Affamato aveva preso il posto di Vincent lo Sveglio. Più tardi quest'oggi... L'assassino percorse un dedalo di strade per raggiungere il loro temporaneo domicilio vicino al fiume, a sud di Midtown. Non c'era nessuno in giro. La temperatura era sottozero e il vento soffiava costante per le strette vie del Distretto di Chelsea, a Manhattan. Duncan accostò a un marciapiede, spense il motore e tirò il freno a mano. Scesero dal fuoristrada e percorsero mezzo isolato nel vento gelido. Duncan guardò la propria ombra, proiettata dalla luna sull'asfalto. "Ho pensato a un'altra risposta. A proposito di quanto tempo hanno impiegato a morire." Vincent rabbrividì di nuovo, anche, ma non solo, per il freddo. "Dal loro punto di vista", disse l'assassino, "si può dire che sia stata un'eternità." | << | < | > | >> |Pagina 70La prossima volta copriti. Dove avevi la testa?Sul sedile posteriore di un taxi ghiacciato, Kathryn Dance, trent'anni e qualcosa, tese le mani verso la bocchetta da cui usciva aria non calda, non tiepida, ma almeno non fredda. Strofinò le dita dalle unghie rosso scuro, quindi orientò verso il flusso d'aria le gambe fasciate dalle calze nere. Kathryn veniva da un posto in cui tutto l'anno la temperatura era più o meno sui venticinque gradi e bisognava fare parecchia strada lungo la Carmel Valley Road per trovare abbastanza neve per far divertire il figlio e la figlia. Nel fare le valigie all'ultimo minuto per venire al seminario a New York, si era dimenticata che nord-est più dicembre è uguale a Himalaya. Stava riflettendo: Non ho ancora perso i nove chili che ho messo su il mese scorso in Messico (dove non aveva fatto altro che stare seduta in una stanza fumosa a interrogare un sospetto di rapimento). Se non altro il grasso extra dovrebbe fare da isolante. Non è giusto... Si strinse ancora di più nel soprabito troppo leggero. Kathryn Dance era un'agente speciale del California Bureau of Investigation, con sede a Monterey, ed era una delle maggiori esperte del Paese in fatto di interrogatori e di cinesica, la scienza che osserva e analizza il linguaggio del corpo e il comportamento verbale di testimoni e sospetti. Era a New York da tre giorni, per presentare il suo seminario di cinesica alle forze dell'ordine locali. La cinesica era una specialità poco diffusa, ma per Kathryn Dance era una scelta spontanea: non poteva fare a meno della gente. Le persone l'affascinavano, la elettrizzavano. A volte la confondevano e la sfidavano. Questi miliardi di creature bizzarre che si muovevano per il mondo, dicendo le cose più strane, più meravigliose e più terribili... Lei sentiva ciò che loro sentivano, aveva paura di ciò che le spaventava, gioiva di ciò che le rallegrava. Dopo il college aveva fatto la reporter. Il giornalismo era una professione su misura per chi aveva un'insaziabile curiosità ma non sapeva dove andare a parare. Era finita a occuparsi di cronaca nera, passando ore nei tribunali a osservare avvocati, sospetti e giurati. E qui aveva scoperto qualcosa di se stessa. Poteva guardare un testimone, ascoltare le sue parole e intuire all'istante se stesse dicendo la verità oppure no. Se osservava i giurati, capiva quando erano annoiati, o sperduti, o turbati, quando credevano a un sospetto e quando no. Sapeva distinguere gli avvocati che avrebbero fatto strada e quelli che sarebbero rimasti al palo. Ed era in grado di riconoscere i poliziotti che mettevano l'anima nel loro lavoro e quelli che tiravano a campare. Aveva notato in particolare un esponente della prima categoria, un agente dell'ufficio di San José dell'FBI: un uomo dai capelli precocemente argentati che testimoniava con humour e noncuranza a un processo per associazione a delinquere che Kathryn stava seguendo. Lei gli aveva estorto un'intervista e lui le aveva estorto un appuntamento. Otto mesi dopo Kathryn e William Swenson erano moglie e marito. Stancatasi a lungo andare della vita da reporter, Kathryn Dance aveva deciso di lanciarsi in una nuova carriera. Per un po' la sua vita di madre di due figli, moglie e studentessa era stata decisamente convulsa, ma alla fine era riuscita a laurearsi alla UC-Santa Cruz con un master in psicologia e comunicazione. Aveva avviato un'attività di consulente, suggerendo agli avvocati chi scegliere e chi rifiutare al momento della selezione dei giurati. Aveva talento ed era riuscita a mettere da parte un po' di soldi. Poi però aveva deciso di cambiare nuovamente rotta. Sei anni prima, con l'aiuto dei genitori, che vivevano a Carmel, e di un marito instancabile e sempre pronto a spalleggiarla, era tornata a scuola: l'accademia del California Bureau of Investigation a Sacramento. Kathryn Dance era diventata una poliziotta. Il CBI non aveva una sezione di cinesica, sicché le era toccato il normale lavoro investigativo: omicidi, rapimenti, droga, terrorismo e così via. Tuttavia in certe organizzazioni il talento viene riconosciuto in fretta e le sue capacità erano state messe a frutto. In breve tempo Kathryn era diventata l'esperta locale di interrogatori, il che per lei andava benissimo, poiché le permetteva di evitare gli incarichi di infiltrazione e i lavori di indagine scientifica, per cui aveva scarso interesse. Guardò l'orologio, chiedendosi quanto tempo le avrebbe sottratto quella missione di volontariato. Il suo volo era nel pomeriggio, ma ci voleva un bel po' per arrivare al JFK: il traffico in città era spaventoso, peggio che sulla 101 Freeway intorno a San José. Si augurava di non perdere l'aereo. Non vedeva l'ora di tornare dai ragazzi. Senza contare che, in sua assenza, i dossier sulla scrivania anziché sparire si moltiplicavano. Il taxi si fermò con uno stridore di pneumatici. Kathryn guardò fuori dal finestrino. "È l'indirizzo giusto?" "È quello che mi ha dato lei." "Non sembra una stazione di polizia." Il tassista guardò fuori a sua volta. "Infatti. Fanno sei dollari e settantacinque." Sì e no, pensò Kathryn Dance. Era una stazione di polizia e non lo era. Lon Sellitto l'accolse sulla porta. Il detective, che aveva seguito il suo corso di cinesica all'One Police Plaza il giorno precedente, le aveva chiesto telefonicamente se poteva dargli una mano in un caso di duplice omicidio. Lei aveva dato per scontato che l'indirizzo fosse quello di un distretto di polizia. Di fatto in quella stanza c'erano attrezzature scientifiche quasi paragonabili a quelle del quartier generale del CBI a Monterey. Ciononostante, si trattava di una casa privata. E di proprietà di Lincoln Rhyme, nientemeno. Un altro fatto che Sellitto aveva omesso di menzionare. Naturalmente Kathryn aveva sentito parlare di Rhyme. Erano molti a conoscere di fama il brillante detective tetraplegico, ma lei non era al corrente dei dettagli della sua vita, né del suo attuale ruolo presso l'NYPD. Il fatto che fosse disabile, dopo un po', passava inosservato. A meno che non studiasse intenzionalmente il linguaggio del corpo di una persona, Kathryn tendeva a osservarne solo gli occhi. Inoltre uno dei suoi colleghi al CBI era paraplegico e non le era insolito avere a che fare con qualcuno su una sedia a rotelle. Sellitto la presentò a Rhyme e a una detective alta e imponente di nome Amelia Sachs. Kathryn riconobbe immediatamente che tra i due c'era un rapporto che andava oltre la collaborazione professionale. Non che occorresse la cinesica: quando era entrata aveva visto la donna con le dita intrecciate in quelle del criminalista, intenta a sussurrargli qualcosa all'orecchio e a sorridergli. La Sachs la salutò calorosamente, poi Sellitto presentò Kathryn alle altre persone presenti. Un lieve suono metallico le riecheggiava da dietro la spalla. Erano gli auricolari dell'iPod, che Kathryn portava sempre con sé come se ne andasse della sua stessa vita. Lei rise e lo spense. Dopo di che Sellitto e la Sachs la informarono del caso per cui occorreva loro il suo aiuto. Un caso di cui sembrava essere incaricato Rhyme, malgrado fosse un civile. Il criminalista non prese parte alla discussione, se non marginalmente. Continuavano a sbirciare un tabellone su cui erano annotati gli indizi. Mentre gli altri poliziotti le davano informazioni sul caso, Kathryn non riusciva a smettere di osservare Rhyme, che occhieggiava il tabellone, mormorava tra sé e scuoteva la testa, come se volesse autopunirsi per essersi lasciato sfuggire qualcosa. Di tanto in tanto socchiudeva gli occhi. Fece un paio di commenti sulla situazione ma per il resto si comportò come se lei non ci fosse. Kathryn era divertita. Era abituata allo scetticismo. Nella maggior parte dei casi, dipendeva dal fatto che non aveva l'aspetto tipico di una poliziotta: era una donna di un metro e sessanta, con i capelli biondo scuro raccolti in una treccia, il rossetto viola chiaro, gli auricolari dell'iPod, i gioielli d'oro e madreperla fabbricati da sua madre, per non parlare della sua passione per le scarpe stravaganti (inseguire i sospetti non rientrava nei suoi compiti abituali). Ma, a parte questo, comprendeva la mancanza di interesse da parte di Rhyme. Come tutti gli esperti della Scientifica, di sicuro non riponeva molta fiducia nella cinesica e negli interrogatori. Molto probabilmente non era neppure d'accordo sul fatto che fosse stata convocata. Kathryn, dal canto suo, riconosceva il valore delle prove, però l'argomento non la interessava minimamente. Ad avvincerla era l'aspetto umano del crimine e della sua soluzione. Cinesica contro Scientifica. Scontro alla pari, detective Rhyme. Mentre il criminalista, un bell'uomo dall'atteggiamento sardonico e dal fare impaziente, continuava a guardare il suo tabellone, Kathryn cominciò a farsi un'idea del caso, che si presentava piuttosto singolare. I delitti dell'individuo che si era autonominato "Orologiaio" erano orribili, questo sì, ma lei aveva lavorato su casi non meno atroci. E, dopotutto, veniva dalla California, dove Charles Manson aveva fissato gli standard della malvagità. Un altro detective dell'NYPD, Dennis Baker, le espose nel dettaglio ciò che volevano da lei. Avevano trovato un testimone, forse in grado di fornire informazioni utili che tuttavia non voleva condividere con loro. "Dice di non aver visto niente", aggiunse la Sachs, "eppure io ho la sensazione che non sia vero." Kathryn era delusa che non l'avessero chiamata a parlare con un sospetto ma con un testimone. Trovava più stimolante la sfida con i criminali, e più questi cercavano di ingannarla più si divertiva. Nondimeno, interrogare i testimoni portava via meno tempo che indurre a confessare un colpevole. Così non avrebbe rischiato di perdere l'aereo. "Vedo quello che posso fare", promise. Tuffò una mano nella borsetta e recuperò un paio di occhiali dalle lenti rotonde con la montatura rosa. La Sachs le parlò di Ari Cobb, il testimone riluttante, e le illustrò tanto la cronologia della serata dell'uomo quanto il suo comportamento sospetto di quella mattina. Kathryn ascoltò attentamente, mentre sorseggiava il caffè e mordicchiava uno dei biscotti che l'assistente di Rhyme le aveva portato. Una volta chiarito lo scenario, organizzò le idee e disse: "Okay, vi dirò che cosa ho in mente. Per prima cosa, due parole di spiegazione. Lon ha già sentito tutto ieri al seminario ma lo ripeterò a beneficio degli altri. Tradizionalmente, la cinesica consisteva nello studio del comportamento fisico, il linguaggio del corpo, per comprendere lo stato emotivo delle persone e stabilire se stessero mentendo oppure no. Oggi molti, me compresa, usano questo termine in relazione a tutte le forme di comunicazione. Non solo il linguaggio del corpo, ma anche ciò che viene detto o scritto. Per cominciare, stabilisco un profilo base del testimone. Vedo come reagisce a domande di cui conosciamo la risposta: nome, indirizzo, lavoro, cose del genere. Prendo nota dei suoi gesti, della sua postura, della scelta delle parole e del contenuto delle sue affermazioni. Fissata la base, continuo a fargli domande e verifico a quali comincia a dare segni di stress. Questo significa che sta mentendo, oppure che c'è qualcosa negli argomenti trattati che lo mette a disagio. Fino a quel momento non ho fatto altro che 'intervistarlo'. Quando sospetto che stia mentendo, la sessione si trasforma in un 'interrogatorio'. Comincio a pungolarlo, usando tecniche diverse, finché non si arriva alla verità." | << | < | > | >> |Pagina 208La loro nuova macchina era una Buick LeSabre. "Dove l'hai trovata?" chiese Vincent, occupando il sedile del passeggero. L'automobile era ferma con il motore acceso davanti alla chiesa. Duncan si voltò. "Nel Lower East Side." "Ti ha visto nessuno?" "Il proprietario. Ma non lo dirà ad anima viva." L'Orologiaio batté la mano sulla tasca in cui teneva la pistola, poi guardò verso l'angolo oltre il quale aveva ucciso lo studente il giorno prima. "Hai visto in giro la polizia?" "No. Nessuno." "Bene. Probabilmente hanno svuotato il cassonetto e il corpo adesso galleggia in mare." Ferire agli occhi... "Com'è andata al garage?" chiese Vincent. Duncan fece un'espressione contrariata. "Non sono riuscito ad avvicinarmi all'Explorer. Non che ci fossero molti poliziotti, ma c'era un barbone che faceva troppo rumore. Poi ho sentito gridare ed è arrivata una squadra. Me ne sono dovuto andare." L'Orologiaio ripartì. Vincent non aveva idea di dove stessero andando. La Buick era vecchia e puzzava di fumo. Come battezzarla? Era blu scuro, ma Blue-mobile non gli sembrava divertente. Vincent lo Sveglio non si sentiva molto spiritoso in quel momento. Dopo qualche minuto di silenzio, domandò: "Qual è il tuo cibo preferito?" "Il mio...?" "Cibo. Che cosa ti piace mangiare?" Duncan socchiuse gli occhi. Lo faceva spesso. Rifletteva a lungo sulle domande e poi recitava le risposte che si era preparato. Ma questa lo aveva colto di sorpresa. Fece una risatina. "Sai, non è che io mangi molto." "Ci sarà un piatto che preferisci." "Non ci ho mai pensato. Perché me lo chiedi?" "Oh, pensavo solo che potrei cucinare, ogni tanto. So fare un mucchio di cose diverse. Ti piacciono gli spaghetti? Li faccio con le polpette. O con la panna. Li chiamano 'all'Alfredo'. O al pomodoro." "Be', al pomodoro, direi. È come li ordino al ristorante." "Ti farò gli spaghetti. Se mia sorella viene in città, potremmo fare una cena. Noi tre insieme." "Be'..." Duncan scosse la testa. Sembrava commosso. "Nessuno mi prepara una cena da... Da parecchio tempo." "Magari il mese prossimo." "Il mese prossimo va bene. Tornerò a New York e ceneremo insieme. Però non ti potrò aiutare. Non so cucinare." "Oh, cucino io. Mi piace. Guardo sempre Food Channel." "Posso portare un dessert. Uno già pronto. Lo so che ti piacciono i dolci." "Fantastico", disse Vincent, emozionato. Guardò fuori dal finestrino. La strada era buia. "Dove stiamo andando?" Duncan non rispose subito. Rallentò al semaforo, fermandosi esattamente in corrispondenza della striscia bianca di arresto sporca. "Voglio raccontarti una storia." Vincent si voltò verso l'amico. "Nel 1714 il parlamento inglese mise in palio ventimila sterline per chiunque fosse riuscito a inventare un orologio portatile sufficientemente preciso da essere usato in mare." "Erano un sacco di soldi, a quei tempi, vero?" "Moltissimi. Alla Marina inglese serviva un orologio, perché ogni anno migliaia di marinai morivano per errori di navigazione. Vedi, per tracciare una rotta occorrono latitudine e longitudine. La latitudine può essere stimata con le stelle. Ma per la longitudine ci vuole un orologio preciso. Un orologiaio di nome John Harrison decise di concorrere. Si mise al lavoro sul progetto nel 1735. Alla fine riuscì a fabbricare un piccolo orologio che poteva essere usato a bordo di una nave e che restava indietro solo di pochi secondi nel corso di un intero viaggio transatlantico. Sai quando finì? Nel 1761." "Ci ha messo così tanto?" "Doveva affrontare le difficoltà politiche, la concorrenza, la connivenza di affaristi e parlamentari e, naturalmente, i problemi meccanici, quasi insormontabili. Ma non si arrese mai. Ventisei anni." Il semaforo passò al verde e Duncan ripartì lentamente. "In risposta alla tua domanda, stiamo andando a trovare la prossima della lista. Abbiamo avuto solo un contrattempo, niente ci fermerà. Non è poi così importante..." "... nel grande schema delle cose."
Sul volto dell'assassino comparve un accenno di sorriso.
"Per cominciare, ci sono videocamere di sicurezza nel garage?" chiese Rhyme. La risata di Sellitto voleva dire: Figurati! Il detective, Pulaski e Baker erano tornati dal criminalista per esaminare i nuovi reperti. Il barbone che aveva aggredito la recluta era attualmente ricoverato al Bellevue, dove gli era stata diagnosticata una schizofrenia paranoide. Non aveva niente a che fare con gli omicidi. "Nel posto sbagliato al momento sbagliato", commentò Pulaski. "Tu o lui?" fece Rhyme. "Videocamere di sicurezza nel parcheggio in cui è stato rubato l'Explorer?" Un'altra risata. Rhyme sospirò. "Vediamo che cos'ha trovato Ron. Prima di tutto, i proiettili." Cooper gli mostrò la scatola e l'aprì. Il proiettile ACP calibro 32 per pistole semiautomatiche non è molto comune. Ha una portata maggiore rispetto al più piccolo calibro 22, ma potenza inferiore al calibro 38 o al 9 millimetri. Le pistole calibro 32 sono considerate tradizionalmente armi da signora, anche se hanno una certa diffusione. Una pistola di quel calibro in possesso di un sospetto sarebbe stata una valida prova indiziaria, ma Cooper non poteva telefonare a tutti i rivenditori di armi per farsi dare una lista degli acquirenti di proiettili 32. Dal momento che ne mancavano sette dalla scatola, Rhyme supponeva che la pistola fosse un'Autauga MkII, il cui caricatore tiene sette proiettili. Ma anche la Beretta Tomcat, la North American Guardian e la Lws-32 usano le stesse munizioni. L'assassino poteva servirsi di una di quelle pistole, posto che fosse effettivamente armato: come aveva sottolineato Rhyme, i proiettili suggeriscono ma non garantiscono che il sospetto abbia con sé o possieda una pistola. Il criminalista notò che il proiettile era da settantuno grani, abbastanza grosso da fare seri danni se sparato a distanza ravvicinata. "Alla lavagna, recluta", ordinò Rhyme. Pulaski scrisse ciò che il criminalista gli dettava. Il libro trovato a bordo dell'Explorer si intitolava Tecniche estreme di interrogatorio ed era pubblicato da un piccolo editore dello Utah. Carta e qualità della stampa, per non parlare dell'impaginazione, erano di infima categoria. Scritto da un autore anonimo che dichiarava di essere un soldato delle Special Forces, il volume descriveva l'uso di torture che potevano portare alla confessione o alla morte del soggetto: annegamento, strangolamento, soffocamento, congelamento in acqua fredda e altro. Una tecnica prevedeva l'uso di un carico sospeso sopra la gola della vittima. Un altro il lento dissanguamento mediante tagli ai polsi. "Cristo!" esclamò Dennis Baker, disgustato. "È da qui che prende le idee. Ha intenzione di uccidere dieci persone in questo modo? Quell'uomo è un pazzo." "Tracce?" chiese Rhyme, preoccupato più degli indizi presenti sul libro che del profilo psicologico di chi lo aveva acquistato. Cooper appoggiò il volume su un foglio di giornale pulito e lo sfogliò pagina per pagina, spazzolandolo delicatamente per rimuovere qualsiasi traccia presente. Non trovò nulla. Tantomeno impronte digitali. Il tecnico appurò che il volume non era in vendita nelle librerie o nei principali siti Internet. Tutti si rifiutavano di tenerlo. Ma era disponibile nelle aste online e presso un certo numero di organizzazioni di estrema destra e paramilitari, che mettevano a disposizione degli utenti tutto ciò che poteva servire a proteggersi dalle minoranze, dagli stranieri e dallo stesso governo degli Stati Uniti. (Negli ultimi anni Rhyme aveva condotto varie indagini antiterrorismo, alcune che riguardavano al-Qaeda e altri gruppi di fondamentalisti islamici, ma altrettante che implicavano organizzazioni americane, una minaccia che il criminalista giudicava ampiamente sottovalutata dalle autorità.) Una telefonata all'editore non portò alcun risultato, il che non fu una sorpresa per Rhyme. Gli venne risposto che non vendevano il libro direttamente ai lettori e che, se voleva sapere quali rivenditori ne avessero acquistato copie, doveva procurarsi un ordine del tribunale. Ci sarebbero volute settimane. "Si rende conto", intervenne Dennis Baker, "che qualcuno sta usando quel libro come manuale per torturare e uccidere la gente?" "Be', è a questo che serve, sa?" Il direttore della casa editrice riagganciò. | << | < | > | >> |Pagina 388In metropolitana, Charles Vespasian Hale, l'uomo che si era presentato come Gerald Duncan, guardò l'orologio da polso. Il suo Breguet da taschino, cui era molto affezionato, non si adattava al ruolo che stava per interpretare.Tutto seguiva la tabella di marcia prevista. Mentre si dirigeva a Brooklyn, dove si trovava la sua casa sicura primaria, si sentiva ansioso, quasi nervoso, ma al tempo stesso era in pace con se stesso come raramente gli era capitato nella vita. Naturalmente, ben poco di quanto aveva raccontato del suo passato a Vincent Reynolds corrispondeva a verità. Non sarebbe stato possibile. Hale sapeva fin dal principio che il grasso stupratore avrebbe spifferato tutto alla polizia, alla prima intimidazione. E la verità avrebbe posto fine a quella che lui sperava fosse una lunga carriera. Hale era nato a Chicago da un professore liceale di latino (da cui il suo secondo nome, in onore di un imperatore romano) e da una direttrice del reparto abbigliamento femminile di un grande magazzino Sears. I genitori parlavano poco tra loro e non condividevano nulla. Ogni sera, dopo una cena in silenzio, suo padre gravitava intorno ai libri e sua madre si piazzava alla macchina per cucire. Oppure si mettevano davanti al piccolo televisore, su due sedie separate, a guardare sit-com mediocri e polizieschi prevedibili. Quei rari momenti di unità famigliare fornivano loro un singolare mezzo di comunicazione: commentando i programmi, potevano esprimersi reciprocamente i desideri e i risentimenti di cui non avevano il coraggio di parlare esplicitamente. Il silenzio... Il giovane Hale era stato un solitario per buona parte della vita. Era un ragazzo prodigio e i suoi apatici genitori lo trattavano in modo formale e con incertezza, come se fosse una specie di pianta che non sapevano ogni quanto andasse innaffiata e concimata. Noia e solitudine erano diventate un peso insostenibile e Charles aveva sentito il bisogno disperato di occupare il suo tempo, nel timore che l'atmosfera stagnante di casa lo soffocasse. Passava ore e ore all'aperto, camminando e arrampicandosi sugli alberi. Per qualche ragione, stare da solo fuori casa era molto meglio: c'era sempre qualcosa che lo distraeva, qualche nuova scoperta da fare sulla collina accanto, su un altro ramo dell'albero di acero. A scuola, alle lezioni di biologia in aula preferiva quelle in mezzo alla natura. In gita con gli scout era sempre il primo a passare sul ponte di corde, a tuffarsi dalle rocce e ad arrampicarsi sulle pareti delle montagne. E, quando era costretto a stare al chiuso, Charles aveva preso l'abitudine di passare il tempo a mettere in ordine le cose: trascorreva le ore più tristi a sistemare giocattoli, libri, penne e quaderni. Non si sentiva solo in quei momenti, non aveva paura del silenzio. Lo sapevi, Vincent, che la parola meticoloso deriva dal latino meticulosus, che significa "pauroso"? Quando le cose non erano perfettamente ordinate e allineate diventava isterico, anche se si trattava di una sciocchezza, come un binario storto del trenino o un raggio della bicicletta piegato. Per lui qualsiasi dettaglio fuori posto era fastidioso quanto per altri lo stridore di un gessetto sulla lavagna. Come il matrimonio dei suoi, per esempio. Dopo il divorzio, non aveva più rivolto la parola né all'uno né all'altra. La vita doveva essere perfetta e ordinata. Quando non lo era, pensava, si doveva essere liberi di eliminare coloro che ci davano fastidio. Charles non pregava: non c'era alcuna dimostrazione empirica che si potesse mettere in ordine la propria vita o raggiungere qualsiasi obiettivo tramite una comunicazione divina. Ma, se lo avesse fatto, avrebbe pregato per la loro morte. Hale aveva fatto due anni di servizio militare, di cui aveva apprezzato l'ordine e il rigore. Come allievo ufficiale, aveva attirato l'attenzione dei professori, tanto che in seguito gli era stato chiesto di insegnare storia militare e strategia, materie in cui eccelleva. Lasciato l'esercito, aveva trascorso un anno a viaggiare per l'Europa, scalando montagne. Poi era tornato in America e si era messo in affari, lavorando in una banca d'investimento e ottenendo prestiti per finanziare nuove attività. Di notte studiava legge. Per qualche tempo aveva fatto pratica come avvocato, scoprendo un particolare talento nello strutturare trattative di affari. Guadagnava bene, ma nella sua vita c'era una solitudine di fondo. Evitava le relazioni perché richiedevano improvvisazione ed erano basate su un comportamento illogico. Sempre di più la passione per l'ordine e la pianificazione aveva preso il posto di un'amante. E, come chiunque sostituisca un'ossessione a una vera relazione, Hale aveva bisogno di soddisfazioni sempre più intense. Sei anni prima aveva trovato la soluzione ideale. Aveva commesso il primo omicidio. Un suo socio in affari a San Diego era rimasto gravemente ferito in un incidente. Un ragazzo ubriaco al volante gli aveva speronato la macchina, fracassandogli il bacino e spezzandogli entrambe le gambe, una delle quali aveva dovuto essere amputata. Il giovane delinquente non solo non aveva espresso alcun rimorso per l'accaduto, ma aveva continuato a negare di aver fatto qualcosa di male, attribuendo ogni responsabilità alla vittima. Era stato arrestato, ma essendo al suo primo reato se l'era cavata, prevedibilmente, con una lieve condanna. Quindi aveva cominciato a perseguitare il socio di Hale chiedendogli denaro. Quando è troppo è troppo. Hale aveva elaborato un piano complesso per terrorizzare il giovane e convincerlo a smettere. Ma, riflettendo sulla sua strategia, si era reso conto che c'era qualcosa che lo infastidiva. Il piano non era perfetto quanto lui avrebbe voluto. E alla fine aveva capito qual era il difetto di base: la sua strategia era tesa unicamente a spaventare la vittima, non a eliminarla. Se il giovane fosse morto, tutto si sarebbe risolto e nessuno avrebbe potuto risalire a Hale o al suo socio. Come poteva lui uccidere un altro essere umano? L'idea gli sembrava un'esagerazione. Sì o no? In una piovosa sera di ottobre, aveva preso la sua decisione. Era stato un delitto perfetto e la polizia non aveva mai sospettato che la vittima non avesse semplicemente preso una scossa. Un banale incidente domestico. Hale si era preparato a provare rimorso. Invece non era stato così. Al contrario, aveva scoperto l'estasi. Il suo piano era stato eseguito in modo tanto brillante che il fatto di avere ucciso qualcuno diventava trascurabile. Da quel momento, il drogato voleva dosi sempre più forti. Poco tempo dopo, Hale aveva partecipato a un progetto immobiliare per lo sviluppo di haciendas a città del Messico. Ma un politico corrotto aveva messo i bastoni fra le ruote, tanto da minacciare il fallimento dell'operazione. La contro-parte messicana di Hale aveva detto che non era la prima volta. "È un peccato che non si possa togliere di mezzo", aveva commentato Hale, in tono casuale. "Oh, è impossibile", aveva detto il messicano. "È praticamente invulnerabile." La frase aveva destato la curiosità di Hale. "Perché?" Il messicano gli aveva spiegato che il politicante del Distrito Federal era ossessionato dalla sicurezza. Guidava un grosso fuoristrada Cadillac blindato, fabbricato appositamente per lui, ed era sempre sotto scorta armata. Seguiva ogni volta percorsi diversi per andare a casa, in ufficio o alle riunioni. Spostava la sua famiglia da una residenza all'altra, senza uno schema preciso, e a volte non stava nemmeno in casa propria, ma in quelle di amici o in affitto. Viaggiava spesso con suo figlio e si diceva che lo usasse come scudo. Inoltre godeva della protezione di un veterano della politica, ex ministro degli Interni. "Si può dire che è invulnerabile", aveva ribadito il messicano, riempiendo due bicchieri di costosa tequila Patrón. "Invulnerabile", aveva ripetuto Hale, sottovoce, facendo un cenno di assenso. Poco tempo dopo quell'incontro, nell'edizione del ventitré ottobre di El Heraldo de Mexico erano apparsi cinque articoli relativi a fatti apparentemente scollegati tra loro: – un incendio negli uffici della Mexicana Seguridad Privada, una compagnia di servizi di sicurezza, che aveva comportato l'evacuazione di tutti i dipendenti, qualche danno ma nessun ferito; – l'intrusione di un hacker nel computer di una compagnia telefonica, che aveva provocato l'isolamento dei cellulari in una porzione di città del Messico e alcuni sobborghi per circa due ore; – un camion che aveva preso fuoco in mezzo all'Autopista 160, a sud di città del Messico, vicino a Calco, bloccando completamente il traffico in direzione nord; – la morte di Henri Porfirio, capo della commissione per le licenze immobiliari del Distrito Federal, a seguito del crollo di un ponte: il suo fuoristrada era precipitato dall'altezza di sei metri, cadendo su un camion di propano che era esploso all'impatto. L'incidente si era verificato mentre il traffico veniva deviato su una strada laterale per evitare un ingorgo. Altri veicoli erano passati sullo stesso ponte senza difficoltà, ma il fuoristrada blindato era risultato troppo pesante per la vecchia struttura, malgrado non superasse il limite indicato dal cartello all'imbocco del ponte. Il capo della sicurezza di Porfirio, al corrente dell'ingorgo, aveva cercato di contattare l'uomo politico per consigliargli un percorso più sicuro, purtroppo il cellulare di questi non funzionava. Il veicolo di Porfirio era l'unico coinvolto nell'incidente. Il figlio del politico, contrariamente al solito, non era a bordo: era rimasto a casa con la madre perché vittima, il giorno prima, di una lieve intossicazione da cibo. - Erasmo Saleno, veterano della politica del Distrito Federal, era stato arrestato nella sua residenza fuori città in seguito a una telefonata anonima alla polizia. Nella casa era stato scoperto un deposito di armi e di cocaina. Curiosamente, anche i giornalisti erano stati messi sull'avviso, compreso un fotografo che lavorava per il Los Angeles Times.
Tutto in un giorno solo.
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