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| << | < | > | >> |Pagina 7"Tempo fa mi hanno raccontato un aneddoto su di te", disse Marty, "e non sapevo se crederci."Pellam non lo guardò neppure. Stava tornando in città al volante del Winnebago Chieftain 43. Avevano appena scovato una vecchia casa colonica a un chilometro e mezzo di distanza e offerto al proprietario esterrefatto milletrecento dollari per girare due scene nella sua veranda, a patto di poter sostituire per un paio di giorni, nel vialetto d'ingresso, la sua Nissan arancio arrugginita con una mietitrebbiatrice. Per tutti quei soldi il contadino si era anche detto disposto a mangiarsela la macchina, se solo fosse stato quello che loro volevano. Pellam gli aveva risposto che non ce n'era bisogno. "Facevi lo stuntman?" domandò Marty. Parlava a voce alta, con l'accento del Midwest. "Qualche volta. Per un anno o giù di lì." "E il film che hai fatto?" "Uh." Pellam si tolse gli occhiali dalla montatura nera anni Cinquanta stile Hugh Hefner. Quella giornata d'autunno era iniziata con un cielo blu luminoso e glaciale. Circa mezz'ora prima si era fatto buio e ora il primo pomeriggio sembrava un tramonto d'inverno. "Era un film di Spielberg", disse Marty. "Non ho mai lavorato per Spielberg." Marty rifletté. "No? Be', ho sentito dire che era un suo film. Comunque, c'era una scena in cui un tipo, sai, la star, doveva attraversare in moto un ponte mentre delle bombe o qualcosa del genere gli scoppiavano alle spalle, e lui correva come un figlio di puttana fregandosene delle esplosioni. Poi una bomba gli esplode proprio sotto i piedi e lui vola in aria mentre il ponte crolla, okay? Loro pensavano di utilizzare un manichino perché lo stunt supervisor non voleva che nessuno dei suoi ragazzi si mettesse in pericolo, ma tu sei saltato sulla moto, gli hai detto di cominciare a girare e l'hai fatto." "Ah-ah." Marty fissò Pellam, in attesa. Poi rise. "Che cosa vuoi dire ah-ah? Che l'hai fatto davvero?" "Sì, me lo ricordo." Marty guardò fuori dal finestrino, gli occhi puntati sul cielo. Vide uno stormo di uccelli, macchioline in lontananza. "Se lo ricorda." Si voltò nuovamente verso Pellam. "Avevo anche sentito che mentre il ponte crollava non è che saltavi e basta, dovevi pure restare appeso a un cavo." "Ah-ah." Marty attese di nuovo. Non era divertente raccontare storie di guerra a qualcuno che avrebbe dovuto raccontarle a te. "Be'?" "È andata più o meno così." "Non avevi paura?" "Sì." "Perché l'hai fatto?" Pellam abbassò la mano e afferrò una bottiglia di Molson incastrata tra i vecchi guanti da baseball marroni. Lanciò uno sguardo alla campagna circostante densa di nubi giallo rosse, alla ricerca di eventuali poliziotti dello Stato di New York, poi vuotò la bottiglia in pochi sorsi. "Non lo so. A quei tempi facevo cose pazze. Da imbecille. Il regista della seconda unità mi ha cacciato via." "Hanno tenuto il girato?" "Per forza. Avevano finito i ponti." | << | < | > | >> |Pagina 70Alan Lefkowitz sedeva nel suo ufficio spazioso e pulitissimo, dondolandosi sulla poltrona in pelle e guardando fuori da una finestra altrettanto spaziosa e pulitissima. Sotto di lui, oltre Century City, si dipanava il Santa Monica Boulevard. I suoi occhi erano puntati sull'ampia strada affollata dal traffico serale, ma i pensieri andavano tutti alla zona nord dello Stato di New York.Lefkowitz, cinquantadue anni, presidente e principale azionista dei Big Mountain Studios, dedicava dieci sudate ore ogni giorno ai film che aveva in progetto. Dottore in legge senza aver mai praticato e con un passato di agente, aveva ripreso gli studi frequentando l'UCLA e l'USC, indirizzo finanza e contabilità, a un'età in cui molti dei suoi amici (come li avrebbero chiamati a Hollywood: in realtà erano solo colleghi) produttori come lui delegavano il lavoro sporco ai sottoposti e passavano il tempo impegnati in Attività di Sviluppo. Ovvero, rinfrescarsi le idee a Palm Springs e bere cocktail al Beverly Hills Hotel. Anche nella gestione del budget, Lefkowitz si comportava con rettitudine. Era riuscito a resistere alla tentazione più forte di Hollywood, quella che generalmente spingeva i produttori verso commedie per teenager, buddy movies polizieschi e pellicole horror o di fantascienza dense di effetti speciali. I film intorno a cui orbitava non erano esattamente al livello di quelli dei suoi registi di culto, quali Bergman, Fassbinder, Kurosawa e Malle, ma si batteva per produrre pellicole di qualità. Con tutte le scuole che sputavano fuori studenti che avevano imparato a fare del cinema (e non semplici film), in America non mancavano gli indipendenti che producevano valide opere impegnate. Ma il talento di Lefkowitz consisteva nell'operare all'interno del sistema. I suoi film erano in gran parte finanziati e interamente distribuiti dalle major; con una di queste grandi compagnie aveva firmato un contratto per tre pellicole (che nell'attuale mondo del cinema era considerato un segno di grosso prestigio). Grazie al suo carattere e alla capacità di spararle grosse, oltre che all'abilità a convincere la gente del suo sesto senso (anzi, Sesto Senso), era riuscito a raccogliere l'ottanta per cento dei finanziamenti, con assoluta libertà di scelta per i tre film da produrre. Una buona forma muscolare, il permesso di parcheggiare la sua Mercedes sulla spiaggia e un contratto per tre pellicole di sua scelta... Nonostante questo, anziché trascorrere la pausa pranzo a riflettere sulla sua buona sorte, Alan Lefkowitz non faceva altro che pensare allo Stato di New York e a dondolare da un lato all'altro della sua poltrona in cuoio da tremila dollari, neanche Los Angeles fosse scossa da un nuovo terremoto. Il motivo di queste riflessioni si trovava di fronte a lui, sulla sua scrivania (spaziosa, ma non pulitissima): una sceneggiatura usurata, con la copertina rossa, piena di scarabocchi, numeri e annotazioni. Era il primo film dei tre in contratto. Un'opera lirica e oscura dal titolo Sotto terra. Una pellicola senza attori demenziali o famose attrici stagionate, né inseguimenti o idiozie adolescenziali né combattimenti di karate o magiche metamorfosi del protagonista in cane, neonato o persona dell'altro sesso. I diritti del copione avevano avuto una strana storia: lo script era passato da una mano all'altra. In principio, una compagnia lo aveva acquistato e aveva cominciato la produzione. Un mese dopo, però, il progetto era stato annullato. Lefkowitz, che voleva quel film da quando aveva letto un anno prima il libro da cui era tratto, si era subito impadronito dei diritti. Ma acquistare un film già in produzione voleva dire pagare un surplus: Lefkowitz non soltanto era stato costretto ad acquistare lo script, ma anche a rimborsare il produttore precedente delle spese già sostenute. Quindi quello che sarebbe dovuto essere un film artistico e poco dispendioso si era trasformato in un mostro dal budget enorme. Dopo di che si era dimostrata la veridicità di una nota regola hollywoodiana: se lo vuole qualcuno, poi lo vogliono tutti. La settimana prima, altri due studi avevano fatto offerte. A Hollywood la lealtà è un bersaglio mobile e la compagnia che finanziava Lefkowitz non avrebbe esitato a vendere quel progetto a qualcun altro, se lui da contratto non avesse avuto il diritto assoluto di farne un film. | << | < | > | >> |Pagina 138La macchina beige uscì dall'autostrada e accostò in un parcheggio asfaltato che si stava lentamente trasformando in una distesa di ghiaia nerastra.Sleepy Hollow Motor Lodge. "Ci siamo", disse Billy. I gemelli scesero dall'auto e Bobby spinse un grosso borsone dal sedile posteriore. "Sono Heineken", annunciò, orgoglioso di aver comprato della birra d'importazione nella patria della Gennie Ale. Respirarono a pieni polmoni e Bobby disse: "Adoro l'inverno". Billy guardò l'orologio. "È tardi." Bobby gli andò dietro e aprì la porta che dava su una brutta stanza quadrata, troppo calda e troppo illuminata. Billy lo seguì all'interno. "Qui cuociamo a puntino", brontolò respirando a malapena. Aprì una finestra. A nessuno dei due piaceva molto quell'albergo. Era economico, appiccicaticcio, di plastica pura. Ricordava Brooklyn, dov'erano nati, e Yonkers, dove avevano vissuto fino al liceo, quando il padre era stato licenziato dalla pasticceria Stella d'Oro e si era trasferito a Dutchess County. Aveva rilevato quello che lui chiamava "un negozio di antiquariato" che però, per la gioia dei gemelli, si era rivelato un'attività di robivecchi. Si erano diplomati; Bobby per il rotto della cuffia, nonostante fosse il capitano della squadra di tiro al bersaglio dell'istituto, mentre Billy se l'era cavata con la sufficienza. Quando il padre era morto, i gemelli avevano ereditato la casa di famiglia e l'attività di robivecchi, che avevano ribattezzato a proprio nome. Si erano ripromessi di sposare soltanto altre due gemelle, anche se Dutchess County non offriva molto al riguardo. Così la loro vita sociale si riduceva a frequentare ragazze di campagna a cui non dispiacessero gemelli che odoravano di catrame e insistevano per uscire in quattro. I due avevano anche altri impegni di lavoro che li portavano a New York ogni quindici giorni; erano sempre contenti di andarsene da casa. Abitavano nel primo tratto di terreno su cui Wex Ambler aveva costruito a Cleary. Avevano una bella casa, grande e piena di oggetti a cui tenevano: dipinti a olio a tinte scure con nature morte di conigli o uccelli, stampe con pesci che saltavano fuori dall'acqua, statue in legno di orsi e cavalli, una raccolta di macchinine Franklin Mint, due identici sedili in pelle reclinabili inclinati in direzione del televisore stereofonico Toshiba da 31 pollici. Dalla sua parte, Billy aveva a portata di mano un forno a microonde, ottimo per riscaldare i nachos e il chili durante Jeopardy o The Tonight Show. Una casa ideale per due uomini che vivono da soli. Tutto l'opposto di quello squallido albergo. Cosa che dichiarò anche Billy, mentre era intento a inseguire una cimice nel bagno. Suo fratello alzò le spalle. "Non abbiamo molta scelta. Non possiamo farlo a casa." "Non significa che mi piaccia stare qui." Bobby annuì; si sedettero sul letto e stapparono due birre. Billy accese la tivù, lamentandosi che mancava il telecomando. Dopo cinque minuti bussarono alla porta. Billy andò ad aprire. Il ragazzo che aveva mangiato i pancakes a colazione era lì, con indosso un paio di jeans, una maglietta e un giubbotto da football. "Ned. Ehi, figliolo, che fai di bello? Entra." "Ehi, ragazzi, come butta?" "Ancora niente", rise Bobby, battendo Billy per un millisecondo. "Che caldo fa!" "Già, non male. Tempo burlone." "Gran bel posto qui. Uno schianto!" I gemelli si guardarono mentre Ned osservava il tappeto marrone e arancio, il divisorio di plastica e le stampe floreali appese alle pareti, neanche fosse la sala da ballo di un albergo sulla Fifth Avenue. Stapparono altre birre e si sintonizzarono su una replica del Bill Cosby Show. "Qui fa lo stupido. Fa solo il cretino con la telecamera e conta i soldi. Mi piaceva di più in Partita a due, quella serie in cui faceva l'agente segreto. Quello sì che era recitare." "Non l'ho mai vista", fece il ragazzo. "Lo davano prima che tu nascessi. C'erano quei due tipi della CIA. Il bianco era Robert Cummings..." "Robert Culp", lo corresse Billy. "Robert Culp e Bill Cosby. Ragazzi, era un gran bel telefilm. Facevano karate, con le palle." "Sì, ma in questa serie c'è anche Lisa Bonet", sottolineò Bobby. Billy fece: "Ehi, Ned, non ti verrebbe duro a baciare Lisa Bonet?" "Mi viene duro solo a guardarla." "Deve avere addosso il fuoco dell'inferno", disse Billy. Si tolse la camicia e la usò per asciugarsi il sudore dalla fronte. Sotto portava una maglietta senza maniche. "Ehi, Ned, tu che sei forte... prova a spegnere il riscaldamento." Il ragazzo si tolse il giubbotto bianco e rosso e lo posò sul letto. Lottò con la manopola del termosifone per cinque minuti buoni finché non divenne paonazzo per lo sforzo. "Cazzo, è bloccato." "Vabbe', lascia stare", disse Bobby. "Vorrà dire che suderemo." Si sbottonò la camicia all'altezza dell'ombelico e la agitò per rinfrescarsi. I gemelli portarono nella stanza due sedie. Ned fece per sedersi sul pavimento, ma Billy dichiarò: "No, a te il posto d'onore". Fece un cenno verso il letto e Ned si lasciò cadere sul materasso spugnoso. Bobby gli porse un'altra birra. Guardarono la tivù per mezz'ora. Bobby chiese: "Ehi, vuoi provare una cosa?" Ned rispose: "Forse. Non so". Bobby estrasse dalla tasca una busta di carta marrone. La fece crepitare. "Sorpresa." "Che roba è?" "Zuccherini." Aprì l'involto e mostrò il contenuto al ragazzo. | << | < | > | >> |Pagina 198"Cleary resta sempre un piccolo paese?" domandò Pellam sorridendo.Meg si incupì. "Non sparleranno se facciamo un giro qui in mezzo, vero?" chiese lui. Si aggiravano nella zona più esterna della sagra. "Sparleranno comunque", replicò lei. "Facciano pure. Puah." Sam correva intorno agli stand e quando passava lì accanto studiava Pellam con occhiate curiose e riverenti. Poi si allontanava nuovamente, per raggiungere i compagni di scuola, di volta in volta con fare circospetto, stupito o malizioso. Non stava fermo un istante. "Sono vivaci, eh?" Pellam lo vide partire di corsa, all'improvviso. Meg rispose: "Non c'è niente di così importante quanto il punto di vista dei bambini. Ti aiutano a capire te stesso. Qualcuno ha detto che i più onesti, i più falsi, i più crudeli e i più gentili di tutti sono i bambini". Rise. "Naturalmente quando parli dei tuoi figli, questa frase è vera solo per metà." "A pensarci bene, sono veramente pochi i buoni film sui bambini," osservò Pellam. "Spesso sono sentimentali. O revisionisti: i registi cercano di ricostruire la loro infanzia su pellicola. Film da due soldi, secondo me. Mi piacerebbe vederne uno che parli dei sentimenti ambivalenti che prova un bambino. Quello sì sarebbe un buon soggetto." "Perché non lo proponi al tuo studio?" Al mio ex studio, pensò lui, e non rispose. Meg rincorse il figlio, per evitare che si arrampicasse su una palizzata. Pellam si ritrovò davanti a una bancarella di tiro a segno: si potevano vincere tacchini-giocattolo, tacchini di cioccolato e anche un tacchino, vero e surgelato, da sei chili e mezzo. Bisognava sparare a delle papere di gomma dipinte per sembrare tacchini con un vecchio fucile Sears calibro 22. Chiamò Sam. "Che cosa preferisci, figliolo, uno di questi pupazzetti a forma di tacchino o uno di cioccolato?" Il ragazzino guardò timidamente la madre, che disse: "Di' al signor Pellam quale ti piace". Poi fece un sorriso buffo. "Questa non me la voglio perdere." "Credo quello di cioccolato...?" Sam scrutò Pellam. Meg intervenne: "Se lui lo vince, ti do il permesso di mangiarlo". "Magari non tutto in una volta", aggiunse Pellam. "Sembra piuttosto grosso." L'uomo della bancarella prese il dollaro di Pellam, che chiese: "Quanti ce ne vogliono per vincere uno di quei tacchini di cioccolato? Il più grande?" L'uomo caricò il fucile. "Sei colpi su dieci." "Okay." Pellam si protese in avanti, si appoggiò al bancone, che gli arrivava all'altezza del petto, e sparò quattro colpi. Nessuno raggiunse il bersaglio: si limitarono a sollevare polvere dai sacchetti di sabbia che attutivano l'impatto dei proiettili. Sam rise e anche Meg. Pellam si tirò su lentamente. "Credo di essere in vena." Accostò rapido il calcio del fucile alla guancia. Sparò sei colpi secchi, in un batter d'occhio, il più veloce possibile. Sei papere caddero giù dal ripiano. "Santa merda", sussurrò l'uomo della bancarella. Poi arrossì. "Oh, mi perdoni, signora Torrens." Pellam restituì il fucile e Sam prese il pupazzo di cioccolato, senza togliergli di dosso gli occhi, spalancati dalla sorpresa. "Che ne dici, Sam?" "Santa..." pronunciò adagio il ragazzino. Meg lo riprese. "Sam." "Grazie, signor Pellam. Davvero torte. Sul serio." "Sam..." lo redarguì la madre. Sam spiegò: "Mami dice che non parlo corretto". "Lo so che cosa vuol dire 'forte", rispose Pellam. Guardò il tacchino di cioccolato. "Spero che lo sia anche questo."
Sam tolse la stagnola e morse la testa dell'uccello. "Wow!" esclamò con la
bocca piena di cioccolato, e corse via, voltandosi indietro ogni quattro o
cinque passi. Un altro aneddoto stava per passare di bocca in bocca.
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