Copertina
Autore Giancarlo De Carlo
CoautoreFranco Buncuga
Titolo Conversazioni con Giancarlo De Carlo
SottotitoloArchitettura e libertà
Edizioneeleuthera, Milano, 2001 [2000] , pag. 223, ill., cop.fle., dim. 125x190x13 mm , Isbn 978-88-85060-46-3
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe biografie , architettura , storia contemporanea d'Italia
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Indice

     Introduzione                                       7

     Biografia professionale                           19

  I. La corsa rapida tra l'infanzia e la Resistenza    23

 II. Dopo la guerra                                    59

III. Viaggio nella prima maturità degli anni Settanta 101

 IV. I grandi temi dell'architettura                  145

  V. L'impulso anarchico                              181



 

 

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Pagina 46

Perché c'eravate solo voi, gli unici veramente presenti sul territorio!

Nel frattempo si era formato il CNL, Comitato Nazionale di Liberazione, saldamente diretto dal comunista Luigi Longo. Ne faceva parte anche Sandro Pertini in rappresentanza dei socialisti. Il CNL ci aveva ordinato di prendere il comando dei SAP in Lombardia: Pagano comandante e io vice-comandante, con una responsabilità spropositata e con i tedeschi ormai dappertutto. Ma questo era avvenuto dopo. Prima c'era stato lo scioglimento del nostro gruppo – quello che aveva girato in bicicletta, diciamo – con l'intesa che ognuno andasse per i fatti suoi. Qualcuno era tornato in città e io ero rimasto con un nucleo di partigiani sulle montagne del lago di Como. Il CNL ogni tanto mi mandava su qualcuno e il nucleo era diventato numeroso. Con me c'era Delfino Insolera. Insieme giravamo per i vari gruppi che erano nella zona. Le riunioni, di solito serali, avvenivano nelle cascine abbandonate, dove i gruppi si erano accampati. Cominciavamo con l'analizzare la situazione, ma poi facevamo vere e proprie lezioni. Io spiegavo ai partigiani chi era Le Corbusier e cos'era l'architettura moderna e perché l'architettura accademica e pompieristica del fascismo era strumento di oppressione. Delfino Insolera parlava di Pablo Picasso, di Igor Stravinskij, di Klee e di canti sardi; oppure parlava di scienza: della relatività e della teoria dei quanti.

Quando il CNL ha saputo che andavamo in giro a fare queste conversazioni, ci ha mandato a dire che eravamo fuori dal seminato e dovevamo smettere subito. Abbiamo risposto che fuori dal seminato non eravamo e che si trattava di rinnovare il mondo. I rinnovatori – cioè i partigiani – dovevano conoscere tutto lo spettro della libertà. Ma il CNL, e i comunisti in prima linea, erano rigorosissimi su questo punto: i partigiani dovevano solo sapere che bisognava combattere i tedeschi e aiutare i sovietici a vincere la guerra. Questa era la loro unica motivazione; dopotutto erano degli specializzati.


Come eravate distribuiti sul territorio? Tu sei stato prima in montagna e poi a Milano: c'era un motivo? Eravate in molti? La popolazione vi appoggiava?

Eravamo distribuiti sul territorio secondo le possibilità e le necessità, ma tutto era un po' confuso perché scarsi erano i nostri strumenti di comunicazione. Dopo un periodo passato sulle montagne dietro Como, il CNL mi ha chiamato a Milano per organizzare un settore del movimento; e allora è cominciato il periodo difficile e anche il più pericoloso.

Posso dirti che alla Resistenza partecipava una piccola minoranza. Poi, alla fine, sono diventati tutti resistenti, quando i tedeschi se ne sono andati. Un'altra favola è che tutto il popolo fosse con noi. Non è vero. Le difficoltà di trovare consenso e appoggio erano gravi, perché molti avevano paura dei nazisti e anche dei fascisti inferociti. Io stesso ho avuto difficoltà, sia in montagna che in città. Molta gente non vedeva l'ora che noi ce ne andassimo perché attiravamo i tedeschi e i fascisti, perciò eravamo pericolosi. Se chiedevamo aiuto o viveri non ce li davano perché temevano le rappresaglie e perciò gli stavamo antipatici. Alcuni gruppi partigiani per sostenersi espropriavano o rapinavano; ma noi volevamo stabilire un contatto umano, perciò cercavamo di essere onesti e gentili, quindi avevamo grossi problemi.

Giuliana e io, nel periodo in cui lavoravamo in città, abbiamo cambiato otto volte casa perché gli abitanti degli edifici dove eravamo, quando sentivano odore di movimenti strani, gente che andava e veniva, ci imponevano di andarcene, altrimenti ci avrebbero denunciati alla polizia. Non c'era dunque quella meravigliosa solidarietà generalizzata che spesso è stata descritta. Qualche giorno prima che finisse la guerra e arrivassero gli americani, Mussolini aveva fatto un discorso a Milano e la folla era straripante. Qualche giorno dopo, la folla era di nuovo straripante in piazzale Loreto, dove Mussolini era stato appeso con la testa in giù a un distributore di benzina. I due episodi erano stati egualmente disgustosi. Anche quello di piazzale Loreto – certo – era stato disgustoso.

C'era anche Vittorini quel giorno a piazzale Loreto ed era disperato come noi. Faceva disperare vedere moltitudini che erano state fasciste fino al giorno prima sputare addosso ai corpi appesi, senza dignità. Li avevano onorati fino a poche ore prima, erano stati i loro idoli.

Si può dire che così è la vita, che la vita delle società è volubile. Solo le élite si ribellano e fanno le rivoluzioni. Ci sono classi sociali, gruppi sociali che si uniscono per rivoltarsi, ma la spinta il più delle volte viene dalle élite. Si può anche dire che non c'è niente da fare, che il potere ha un effetto devastante sulla gente, che la gente adora il potere perché ha paura. Ma, non mi piace dirlo e del resto io continuo a credere che non sia stato sempre così. Ci sono stati eventi rivoluzionari che sono partiti dalla base. In Russia, per esempio, c'è stato il movimento machnovista e la ribellione di Kronstadt: quella dei marinai. So bene che il popolo può anche andare dietro ai demagoghi. So bene che il popolo può aderire anche a mostruosi inganni...


... a qualsiasi cosa porti l'ordine e la pagnotta.

È vero, però non è stato sempre così. Ci sono state tante gloriose eccezioni.

Ma tornando al mio racconto dopo lo scioghmento del gruppo dei «ciclisti», Pagano era tornato a Carrara e lì aveva cominciato a lavorare con gli antifascisti. Ma era un temerario e difatti era stato presto arrestato e chiuso nel carcere del castello di Brescia. Durante la prigionia si era fatto crescere i capelli molto lunghi, tanto da sembrare un imponente pope slavo: grande, con i capelli lunghi, gridava senza sosta e terrorizzava i secondini minacciandoli di fargliela pagare se non lo avessero liberato. I secondini erano diventati rispettosi nei suoi confronti e lasciavano che organizzasse i carcerati, che erano in parte politici ma soprattutto comuni.

Una notte c'era stato un massiccio bombardamento aereo degli alleati sulla città. Anche il castello era stato colpito e i secondini se l'erano svignata. Allora Pagano aveva aperto le porte del carcere e aveva fatto uscire tutti. Il giorno dopo era a Milano, dove l'ho incontrato nello studio di Franco Albini: aveva capelli lunghi e portava una maglietta a righe. Mi ha detto: «Agli ordini, sono arrivato, ho sgombrato tutto il carcere di Brescia». Ci siamo abbracciati e da quel momento abbiamo ricominciato a lavorare insieme. Il nostro lavoro era di organizzare e addestrare i gruppi di resistenza urbana che si stavano formando a Milano e nelle province lombarde.

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Pagina 91

A «Casabella» con Ernesto N. Rogers



Tu hai sempre avuto un piede nell'università, da outsider, come dici, e senza mai accettare il mondo accademico. Inoltre hai attivato negli anni Cinquanta una sorta di antenna che ancora utilizzi nel tuo lavoro: quella delle riviste di architettura che hai frequentato, sino a «Spazio e Società» di cui sei tuttora direttore. Un'attività iniziata nel 1954 quando collaboravi con Rogers per «Casabella». Collaborazione che presto finì per incompatibilità con le idee del direttore.

Quando ero redattore di «Casabella» avevo occasioni continue di discutere con Rogers. E stato sempre un piacere, anche se spesso mi sono trovato in dissenso con le sue idee, e lui con le mie. Rogers era una persona di qualità e di umanità squisita. Era gentile, disinteressato e molto generoso. Aveva curiosità per le cose del mondo e io lo ammiravo per la trepidazione che lo prendeva quando le avvicinava. Ma sull'architettura non avevamo le stesse idee.


Mi ricordo il vostro memorabile dialogo dell'orchidea e del pane più volte citato quando si parla del vostro rapporto

Vuoi che te lo ripeta? Passeggiavamo in via Manzoni e all'improvviso mi aveva chiesto se mi piaceva di più il pane o le orchidee. Mi aveva irritato e perciò gli avevo risposto bruscamente che preferivo il pane. Però – gli avevo detto – la sua domanda era sleale perché mi piacciono anche le orchidee: pensando alla situazione del mondo, preferisco il pane.

Non mi era piaciuto di essere stato chiamato in modo perentorio a risolvere una contraddizione che di fatto non esiste perché il valore del pane e delle orchidee cambia secondo i contesti di idee e fatti, le situazioni economiche e sociali, le circostanze culturali in cui si giudica. Ci può essere un tempo in cui si è per le orchidee e un tempo, come il nostro, in cui si è portati a preferire il pane.

La discussione era stata molto significativa perché aveva segnato lo sviluppo dei nostri rapporti successivi; che sono stati affettuosi, di grande stima e curiosità intellettuale reciproca. Ma per lui l'architettura era progettazione di oggetti utili e belli, per me era progettazione di eventi spaziali significativi (densi di significato) che esprimano il tempo in cui viviamo e lo stimolino a essere migliore. E la bellezza? La bellezza è lo scopo, ma quello che conta è il processo che la produce.

Questo dissenso ha continuato ad affiorare fin dai primi numeri di «Casabella» (che Ernesto dirigeva, ma lasciandomi piena libertà di dire la mia opinione) e alla fine ci ha portato alla rottura; che è stata leale, senza rancori, in amicizia. Credo che la rottura abbia avuto qualche conseguenza sull'architettura italiana. Dopo la mia uscita, «Casabella» ha preso un'altra linea: prima è passata attraverso il neo-liberty aprendo la stagione dei revivalismi, poi è approdata ai tristi lidi dell'autonomia o, in altre parole, all'accademismo, che Ernesto, appassionato allievo di Le Corbusier, aveva detestato.


E verso Le Corbusier avevate un atteggiamento comune?

Ti racconterò di un altro colloquio che avevo avuto con Rogers proprio in principio, quando avevamo cominciato a lavorare insieme.

Anche quella volta passeggiavamo – si passeggiava molto allora a Milano - discutendo del futuro dell'architettura e di quello che un architetto, che come me stava cominciando, avrebbe potuto fare. A un certo punto se ne è venuto fuori a dire che mi dovevo rassegnare all'idea che il resto della mia vita sarebbe stato dedicato a mettere a punto gli insegnamenti di Le Corbusier: questo – diceva – sarebbe stato il mio destino e, del resto, era anche il suo. Le Corbusier ormai c'era stato, aveva cambiato da cima a fondo l'architettura, e a noi non restava altro che capire i suoi principi e imparare l'uso del suo linguaggio, per applicarli nel modo migliore possibile.

Gli avevo detto che mi stava proponendo un destino di schiavo e che avrei rinunciato a fare l'architetto se avessi dovuto portare il timbro del sacerdote corbusieriano. L'architettura era grande, il Movimento moderno aveva aperto una pluralità di prospettive, e altre se ne potevano ancora aprire.

A ripensarci ora credo che Ernesto quel giorno fosse stato preso da una crisi del suo fideismo, e quindi da disperazione. Qualche anno dopo, nel 1956, avrebbe costruito la Torre Velasca, che di Le Corbusier aveva piuttosto poco.


Dunque non è stato abbastanza corbusieriano neppure lui. Anche Le Corbusier però ha progettato nel 1950 la cappella di Notre Dame du Haut a Ronchamp, in qualche modo contraddicendosi.

Ma Ronchamp è tutta un'altra cosa. Non è né revivalista, né pittoresca, né vernacola, né indulge alla speculazione edilizia, né è indifferente al contesto che la accoglie: è semplicemente un fatto nuovo, mai visto prima nell'architettura. E difatti ci aveva presi tutti di sorpresa.

Sappiamo bene che dal 1930 al 1940 Le Corbusier aveva manifestato ambigue simpatie per i sistemi politici autoritari: aveva pensato che Stalin, Mussolini e Pétain avrebbero potuto realizzare le sue opere; ed era questo che in fondo gli importava. Ma credo che la guerra, e soprattutto le vaghe accuse di collaborazionismo che gli erano state rivolte, lo avessero profondamente scosso. Dopotutto si era accorto che i fini non giustificano i mezzi e i mezzi riprovevoli finiscono col frantumare le coerenze interne dell'idea architettonica. Così è uscito dalla guerra cambiato. A chi ha studiato il Piano di Saint Dié non può essere sfuggito che molte sue incertezze precedenti erano cadute e che era ormai molto lontano dal settarismo del Plan Voisin.

Ha costruito alcuni edifici che aveva progettato o pensato prima della guerra perché finalmente gliene era stata data l'occasione – tra questi 1'Unité di Marsiglia, per fortuna – ma in alcuni lavori – per esempio il Carpenter Center di Cambridge, USA – si sente che stava seguendo una ricerca del tutto nuova, che poi si è rivelata con tutta la sua carica di poesia nella chiesa di Ronchamp. Da quel punto cambia il suo atteggiamento, che diventa meno autoritario, più tenero, più gentile, più attento alla cultura altrui.


Anche alla cultura locale e in qualche modo vernacola. Ho visto in Algeria la famosa Ronchamp del deserto, la moschea alla quale si dice si sia ispirato nell'uso della luce, nelle aperture, nei volumi.

I suoi allievi non hanno capito Ronchamp. Sono stati tutti contro, si sono sentiti traditi. Come treni postali arrancavano sulla linea ferrata che Le Corbusier aveva tracciato e improvvisamente hanno avuto paura di deragliare.

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Pagina 145

IV
I GRANDI TEMI DELL' ARCHITETTURA



La città a bassa entropia


Per tutta la metà del secolo XIX fino alla metà del secolo XX l'abitazione è stato il grande tema dell'architettura; poi il grande tema è stato quello dell'università. Oggi grandi temi non ce ne sono. È vero che dagli anni Ottanta in poi l'ambizione di ogni architetto è stata quella di fare un museo, ma — e questo è piuttosto interessante — non si tratta più di un grande tema, di quelli che coinvolgono la società e cambiano il suo destino: si tratta di costruire preziosi contenitori per conservare preziose opere d'arte e stabilizzare il loro mercato.

Il ruolo che tu hai dato all'università nello sviluppo urbano per un lunghissimo periodo è stato fondamentale. Hai cominciato a riflettere su questo tema sin dagli anni Cinquanta. Il progetto per l'Università di Dublino, l'Università di Urbino, altre università a cui hai lavorato, di cui hai fatto il progetto, ti sono servite a concepire l'università come qualcosa che si distribuisce nel territorio e ne aiuta in qualche modo lo sviluppo, la crescita. Come sei arrivato a questa riflessione?

L'architettura moderna, soprattutto quella razionalista degli anni Trenta-Quaranta, era concentrata sulla questione dell'abitazione. L'abitazione era la componente primaria e fondativa delle città, pensavano gli architetti razionalisti di valore che se ne sono occupati osservandola da tutti i punti di vista, in tutti gli aspetti anche più minuti. Il loro interesse era largamente condiviso dall'opinione pubblica e le loro proposte erano seguite con attenzione perché le città crescevano rapidamente e molto alta era la domanda di alloggi, soprattutto da parte delle classi sociali più povere.

Era stato un momento di intenso coinvolgimento sociale dell'architettura, che aveva avuto risultati straordinari; ma aveva anche prodotto qualche annebbiamento, che poi ha contribuito a generare confusione sul modo di consistere nello spazio fisico degli esseri umani e, in particolare, sulle ragioni della città. L'annebbiamento veniva dal fatto che, concentrandosi in modo univoco sull'abitazione, si era perso il senso che l'abitare non avviene solo per via di edifici residenziali e la città non è fatta solo di addizioni di alloggi. La città è fatta anche di servizi, attrezzature, infrastrutture, spazi vuoti, spazi aperti, giardini, parchi, ecc., e l'abitare avviene nell'insieme di queste attività svariate, in modo tanto più armonico quanto più l'insieme dei loro rapporti sono equilibrati, significanti, stimolanti. Molti architetti razionalisti nei confronti dell'abitazione e della città hanno preso un atteggiamento esclusivo che è risultato disidratante. Solo alcuni (Berlage, Alvar Aalto, Dudok) tra i più intelligenti (forse anche perché hanno avuto più occasioni di sperimentare) sono stati inclusivi.


Forse bisogna storicizzare e dire che il problema delle abitazioni effettivamente era in quel momento il problema fondamentale. Concentrarsi su quel problema ha fatto perdere di vista però la complessità dell'organismo urbano. Si è troppo spesso dato per scontato che gli altri spazi esistono di per sé e in qualche modo si formano autonomamente o possono essere aggiunti in tempi successivi.

L'idea dell'edificio come contenitore, se non la parola stessa, è nata per degenerazione del proponimento – assai lodevole allora – di definire standard abitativi per l'edilizia di massa. Gli architetti che si occupavano della questione degli alloggi – quasi tutti in quel periodo – pensavano in termini di aggregazioni progressive: gli alloggi dentro contenitori, le città come aggregazioni di contenitori. Anche le ragioni dell'aggregare erano oneste e meditate perché si proponevano di assicurare le migliori condizioni di soleggiamento, luce e aria; di razionalizzare la viabilità; di tracciare strade e piazze il più possibile alberate per fare giocare i bambini.

Tutto bene, e in quella direzione lunghi passi avanti sono stati fatti; ma l'idea di città come organismo complesso è andata perduta e si è finito col pensare alla costruzione di alloggi e di città come già si pensava alla produzione industriale di merci. Difatti, appena gli studi sull'organizzazione degli alloggi hanno cominciato a diffondersi, si è anche cominciato a parlare di unificazione, normalizzazione e tipologia. La tipologia ha smesso di essere catalogazione analitica a posteriori ed è diventata rassicurante ideologia a priori.

L'intento originale era di produrre il maggior numero di case possibile, nel più breve tempo, al più basso costo; e poi distribuirle ordinatamente nel territorio per fare città senza conflitti. Anzi, per fare le vere città del presente, per «l'uomo nuovo». Si voleva mettere in atto un'alternativa totale alla città del passato – la città storica – considerata espressione dell'egoismo e della ristrettezza mentale delle antiche classi dominanti.

Tanti errori stavano appollaiati su questo assunto tortuoso e indigesto. In primo luogo, la città del passato era stata voluta dalle classi dominanti ma fatta dal lavoro e dalla fatica (e anche dalla creatività) delle classi subalterne; quindi il punto non era di abbandonarle ma di come appropriarsene. In secondo luogo, le città non sono fatte solo di residenza e spazi aperti e servizi funzionali tra le residenze, ma da un'infinità di eventi spaziali diversi, che la rendono confortevole, significante e memorabile. In terzo luogo, la residenza può contribuire a elevare la qualità della città se è lei stessa di qualità elevata e la sua qualità non può derivare solo dal fatto di essere a basso costo. Al contrario, il basso costo in genere abbassa la qualità, soprattutto se è più basso di quanto è ragionevole che sia. Se il basso costo viene ottenuto strizzando lo spazio fino ai limiti del «minimo esistenziale» e fino al punto in cui perde tutte le sue componenti evocative, la qualità si abbassa drammaticamente.

E del resto prima di accettare che le case a basso costo costino poco, non bisognerebbe discutere come nel mondo vengono distribuite le risorse? Non bisognerebbe forse contestare gli enormi sprechi che vengono compiuti per iniziative inutili, per imprese senza senso, per aumentare la ricchezza di chi è già ricco, prima di stabilire che gli alloggi per le classi meno abbienti debbono essere a basso costo?

È stato così, sulla scia di una giustizia che nel fondo era profondamente ingiusta, che gli errori compiuti dalla politica dei quartieri e degli alloggi hanno suscitato una potente reazione di rigetto. Cosicché ora il sogno delle classi meno abbienti è il suburbio fatto di case unifamiliari circondate da giardinetti anche miserrimi. Chi vuole più abitare nelle case a schiera e nei condomini, che sono stati denominati casermoni di cemento?

Mi potrai dire che è facile accusare i predecessori dei loro errori, ma io voglio insistere che si trattava di errori generosi compiuti seriamente, con la persuasione di fare il meglio. Però debbo aggiungere che quegli errori li ho denunciati sempre. Ho sempre detto che i mezzi sono importanti quanto i fini e che quei mezzi – usati con la persuasione che avrebbero consentito di raggiungere nobili fini – hanno prodotto disastri. Le case economiche degli anni Venti sono la matrice delle case di speculazione degli anni Cinquanta-Settanta, che hanno dequalificato in modo irreparabile le città, il territorio, i paesaggi e perfino la campagna.

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Pagina 154

Nel Sessantotto hai anche prodotto una riflessione sullo stato dell'università che è diventato un testo fondamentale per la rivolta studentesca: La piramide rovesciata. A me era piaciuta moltissimo una metafora contenuta nel libro. Sostenevi che è inutile pensare alla struttura universitaria come a una piramide dove ci sono gli studenti, i bidelli, gli insegnanti e al vertice il rettore. In cima alla piramide la punta arriva nella nuvola e lì non c'è qualcuno che viene dal basso, ma qualcuno che è della stessa razza del politico, del magistrato, del prete ecc. Noi pensiamo che ci sia una punta della piramide, espressione della struttura gerarchica universitaria, e invece non c'è una punta: c'è una nebulosa che si espande, che diventa un qualcosa che dialoga con gli altri livelli del potere. Quindi non può esserci ricambio e dialogo con la base. Com'è nata l'idea di questo libro?

La piramide rovesciata per la prima parte è una conversazione che avevo tenuto a Torino agli studenti in rivolta nell'autunno del 1968. I lunedì letterari del Piccolo Teatro di Milano mi avevano chiesto di riprendere quella conversazione a Milano, Roma, Bari e Firenze. Lo avevo fatto, registrando reazioni profondamente diverse. A Roma mi avevano quasi insultato perché difendevo quelle che loro consideravano le insopportabili intemperanze degli studenti maleducati. A Milano alcuni abbonati a I lunedì letterari alla fine della mia conversazione avevano strappato la tessera. A Bari avevo cambiato argomento perché mi era stato subito chiaro che quello che dicevo avrebbe lasciato gli ascoltatori del tutto indifferenti.

Poco più tardi l'editore De Donato mi aveva chiesto di pubblicare quella conversazione aggiungendo alcune riflessioni sulla rivolta degli studenti. Avevo aggiunto un capitolo su quanto stava accadendo nella Scuola di architettura in particolare, dove si era già aperta la fase burocratica: quella degli interminabili discorsi senza capo né coda degli studenti, degli ammiccamenti dei giovani professori che volevano prendere lo spunto da quella confusione per fare rapida carriera.


Le tue riflessioni sull'università non erano solo teoriche: nel 1964 avevi già elaborato il progetto per l'Università di Dublino e dal 1962 al 1966 avevi progettato il Collegio del Colle a Urbino.

Raramente le mie riflessioni sono state teoriche. Semmai ho cercato di estrarre frammenti di teoria – o di modelli, piuttosto – dalla sperimentazione che conducevo progettando.

È vero, quando partecipavo al concorso per l'Università di Dublino avevo già cominciato a progettare il Collegio del Colle a Urbino. Era inevitabile che tra le due ricerche, che erano quasi contemporanee, esistessero alcune corrispondenze. Nel Collegio di Urbino infatti perseguivo la realizzazione di un luogo che – come quello che proponevo a Dublino – potesse dare agli studenti condizioni di vita diverse da quelle che avevano avuto fino ad allora nelle caserme chiamate Case dello studente o nelle case di periferia dove si affittano stanze. Carlo Bo e io pensavamo che gli studenti dovessero essere considerati in modo diverso, se si voleva che cominciassero a studiare in modo diverso; che non dovevano più essere trattati come quantità disperse di una massa, ma invece come persone messe in condizione di sviluppare la loro individualità.

Nel Collegio del Colle di Urbino il mixaggio tra vita privata e vita collettiva è stato rigorosamente calcolato. I luoghi di cui è composto sono stati suddivisi e articolati in modo da favorire al massimo la privacy ma anche da rendere attraente lo scambio. Le stanze degli studenti sono indipendenti da tutti i punti di vista, ma gli spazi di circolazione, i soggiorni, le zone collettive sono configurati in modo da favorire il più possibile l'incontro.


Guardie Rosse, Hippies e Sessantotto


Cosa mi dici della rivolta giovanile, che tu hai visto svilupparsi in Italia e negli Stati Uniti?

A me sembra si possano trovare analogie strette tra gli Hippies americani e le Guardie Rosse cinesi, e non tanto perché si sono rivoltati negli stessi anni, quanto per il modo del loro rivoltarsi: contro i luoghi comuni, le gerarchie, le rispettate strutture politiche e sociali che proponevano. Le Guardie Rosse si sono a un certo punto abbandonate a raccapriccianti manifestazioni di crudeltà, ma credo che il loro primo movimento sia stato generoso e libertario. Anche gli Hippies, quando si sono messi in questione fino in fondo e hanno messo in crisi ogni credenza, hanno fatto sperare che fosse possibile ripulire il mondo da tutte le orrende scorie del capitalismo. Ma poi l'enfasi delle droghe, l'imitazione superficiale dei culti sincretici orientali, la messa in circolo di stupidi feticci, hanno frenato la loro spinta innovativa e spento il loro potenziale rivoluzionario.

In Europa la rivolta dei giovani è stata altro e non ha raggiunto quelle punte. Comunque ha avuto il suo momento più creativo in Francia, quando ha coniato il modello che poi si è diffuso in gran parte dell'Europa occidentale e anche in Italia; dove ha sconvolto molti tabù dell'arretrata società italiana e ha inventato un nuovo modo creativo di usare lo spazio fisico, la città, le sue strade, le sue piazze.

Ma il periodo dell'allegrezza, dell'invenzione, dell'ironia e dello scherno è durato poco; presto è sfociato nella burocratizzazione: la stessa che affligge la politica, la cultura, l'arte, l'insegnamento dell'architettura. Nelle assemblee i capi degli studenti parlavano per ore e ore e nessuno li fermava per contraddire le stupidaggini che andavano dicendo. I professori ascoltavano per ore e ore senza dire niente: forse erano consapevoli che il tempo avrebbe giocato a loro favore e perciò aspettavano e stavano zitti, aspettavano la restaurazione che – come in tutte le vicende politiche e culturali italiane – sarebbe venuta da sola, immancabilmente.

L'esplosione di quegli anni aveva davvero messo in subbuglio le istituzioni statunitensi, compresa l'università che ne era stata per prima coinvolta. Ma l'istituzione universitaria americana è infinitamente più flessibile di quella italiana – e anche più abile. Quando nel 1968 ero tornato negli Stati Uniti per insegnare al MIT, il presidente aveva risposto alla contestazione degli studenti decidendo di chiudere l'università e di sospendere per 15 giorni tutti gli insegnamenti per dedicarli a un grande dibattito tra docenti e studenti sui problemi della scuola. Ho partecipato a quel dibattito frequentatissimo, e debbo dire che non solo era molto impegnato ma generava decisioni importanti. Come, per esempio, che l'università dovesse rifiutare ogni ricerca commissionata dall'apparato militare che, negli Stati Uniti, è uno dei più solidi sostenitori della ricerca scientifica e tecnologica. Anche quando, come nel caso del decollo verticale degli aerei, non era direttamente riferibile a impieghi bellici, doveva essere sospesa perché commissionata dall'apparato militare. Scelte di questo genere mettevano in crisi la struttura finanziaria dell'università americana che, essendo per la gran parte privata, non ha sostegni statali. Eppure erano state accettate sotto la pressione degli studenti e di docenti importanti come Serge Chermayeff o Noam Chomsky, che si battevano per conquistare il massimo di indipendenza dal sistema.

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