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| << | < | > | >> |Pagina 5Era tutto già riassunto in una visione. Arrivata all'improvviso prima che il treno entrasse nella stazione di un piccolo paese sul fianco del lago. Forse Castiglione, forse Terontola, o forse qualche altro nome che non ricordo più. Quello che ho ancora nitido nella mente è il colore azzurro e grigio dell'acqua. Il basso movimento delle onde, appena appena sospinte a riva dal vento. Poco più che un'increspatura. E quella trasparenza ovattata di bruma che sempre mi sembra stia sospesa fra l'acqua e l'aria. Nella luce orizzontale del tardo pomeriggio.Tornavo verso casa e come sempre fermavo gli occhi a riposare sul paesaggio tranquillo e prigioniero del lago. Fu allora che come nata dall'acqua una folla di immagini venne verso di me, ognuna attraversò lo spazio d'aria che ci separava, e tutte invasero la mia mente. Erano tante strane immagini. Faccio ancora fatica a metterle in ordine. Cominciò, mi sembra, con un collage di letti colorati. Differenti tipi di letti. Piccoli, ampi, in legno, o con sontuose testiere in ferro battuto. In alcuni vi erano distese delle sagome. Non era chiaro se si trattasse di donne o di uomini. Forse erano solo fantasmi. Uno o due fantasmi seguivano a piedi. Poi arrivarono le mucche. Grandi morbide mucche con le mammelle gonfie di latte. Troppo latte. Avanzavano muovendosi a fatica. Avvicinandosi mi guardavano e avevano il volto di donne piangenti. I fantasmi e i letti e le mucche, tutti camminavano verso di me. Divennero vicinissimi. Il vetro del finestrino che mi separava dall'alito caldo dei loro respiri s'infranse. Si scompose in lame d'aghi, che ferirono le dita di una mano. Con tagli lenti e precisi. Che scorrevano verticali lungo le dita, dai polpastrelli al centro del palmo, inesorabili. Tutt'intorno solo piatti rotti. Ho ancora qui il foglio dove avevo preso alcuni appunti di quella allucinata visione. A quei tempi prendevo sempre appunti. Come continuo a fare ancora. Tutte le volte che è necessario strappare i fantasmi dal terreno che li nutre e renderli innocue righe d'inchiostro. Nello spazio lasciato vuoto dalle parole c'è un disegno. Uno scarabocchio, piuttosto. È una mano che fra l'indice e il pollice afferra una farfalla. Un gesto molle, quasi distratto, come a dimostrare, se fosse necessario, che non costa alcuno sforzo immobilizzare una farfalla. Mentre una forbice, che sembra mossa solo dall'aria, ne taglia le ali. Un gesto sgraziato sospeso sopra un fascio di lame di vetri. Un brutto disegno. Anche ora che lo guardo dopo tanto tempo, sento il sordo stridere del morso del ferro che taglia e il dolore asciutto delle ali di quella farfalla.
Era tutto già riassunto lì. Bisognerebbe fare più attenzione alle proprie
visioni, non lasciarsene solo incantare. Ma io me ne dimenticai
presto. Di questa come di altre. Ero troppo giovane per capire ed ero
contenta di ritornare verso quella che allora era la mia casa. Di lasciarmi
andare al dondolio lento del treno. All'aria del mese di maggio. Già piena di
tepore e di spore mature.
Lo vidi per la prima volta qualche giorno dopo. In molti mi avevano già parlato di lui. "È appena arrivato dalla Francia, lo devi conoscere". "È tornato da New York" mi dicevano. "Vedrai, è uno dei migliori. Il migliore" qualcuno mi diceva. Lo vidi nel locale dove teneva un concerto con il suo gruppo. Un jazz molto complesso, intellettuale, quella sera, e tutti li vidi musicisti maturi, forti, irraggiungibili. Lui era il pianista e suonava da dio. «Suona da dio, ma è completamente pazzo!» dissi a Marco, che mi aveva accompagnato in uno dei soliti giri tra cantine e locali notturni. Marco rise e mi raccontò di lui, dettagli che ora non ricordo. Ma ricordo che a un certo punto mi puntò gli occhi addosso e fece un commento non so se più ironico o risentito: «So già come andrà a finire. Fra di voi» disse. Le luci erano basse e lui era curvo sulla tastiera. «Senti questo pezzo,» fece Marco «è uno dei suoi. Ascoltalo bene...». Ma io già non avevo occhi e orecchi che per lui. Aveva un modo molto particolare di scavare dentro la musica, dentro ogni nota. Andava giù, giù, ancora giù. Come tentato dall'esplorare chissà quali profondità. Fermandosi sul limite di non so cosa, per poi risalire, in vortici leggeri. Soffermarsi in superficie, giocare con l'aria, indugiare accarezzando il piano della tastiera per poi ancora ridiscendere. Come inseguendo e componendo movimenti di linee a lui solo visibili. Era sempre curvo sulla tastiera. Non ne potevo vedere bene il volto. Solo un tratto di profilo inclinato, la linea assorta dello zigomo, la barba leggera. La testa affollata di capelli e le spalle. Larghe e fragili di sussulti. Le braccia forti e le mani, le mani e le dita che erano tasti ed erano musica. Poi finalmente sollevò la testa, si volse appena, e vidi gli occhi. Grandi e scuri. Nella penombra mi sembrarono immensi. Erano immensi. Lucidi di gioia. Eccitata. Guardarono intorno, immaginai che mi guardassero. Quasi subito si riabbassarono e furono di nuovo solo della musica. Non so se fu già quella sera che m'innamorai di lui. No, non credo. Ma ne avvertivo, fortissimo, il fascino. Continuavo a fissare le sue mani, illuminate negli spot di luce, il loro doppio riflesso nel legno del piano, le dita che danzavano decise. Sfiorando appena i tasti e sempre fondendosi in loro. Sembravano tessere parole di note. Accompagnate da sfrigolio di piatti, tocchi soffocati di tamburo e corde di basso. Ma io vedevo e sentivo solo le sue dita. Tutt'intorno era il solito sommesso chiasso. Parole, cenni d'intesa, saluti sorpresi da un tavolo all'altro, tintinnio breve di bicchieri, distratto spostare di sedie. Qualcuno che arrivava, qualcun altro che usciva per chissà dove. Incontri. Avvistamenti. Appuntamenti. Salutai degli amici appena arrivati. Fecero segno di unirmi al loro tavolo. Esitai, poi provai ad alzarmi. Ma tutto sembrò fermarsi, o almeno così ricordo la vertigine che si aprì nella mia testa, quando sentii l'accenno alle note di quel brano. "Angela". Motivo dolcissimo e dolorante che presto avrei imparato a conoscere e amare. Poche note che erano già un rimpianto "Angela, Angelo, angelo mio. Io non credevo che questa sera. Sarebbe stato un addio. Angela io non sapevo" Ogni strofa un lieve lamento. Mi aveva preso allo stomaco dalla prima volta che l'avevo sentito. Decine e decine di volte l'avrei poi riascoltato nascere dalle sue dita, che sempre sembravano girare intorno alla triste dolcezza del brano quasi ne fossero padrone e schiave allo stesso tempo. Scavando variazioni nella melodia. Sprofondando fin dove il dolore poteva arrivare. Tentando a volte improvvise impossibili fughe. Per ritornare a cullarsi nel rimpianto. Rassegnate alla propria catena. "Angela, angelo, angelo mio io non sapevo. ... volevo solo vederti piangere. Perché mi piace farti soffrire". Quel motivo ritornò a tratti durante la serata. O almeno così credetti. Forse perché rimasto prigioniero nella mia testa, più di una volta mi sembrò di sentirlo affacciarsi a sorpresa nel fraseggio di ogni altro brano che fu suonato. Negli attacchi dei suoi assolo. Magari ripreso in un breve cenno, riassunto in una sola nota. Nascosto qua e là nelle pause di silenzio. "Angela, Angela, io non volevo" | << | < | > | >> |Pagina 14No, questa volta solo farmaci.Sì, aveva anche sperimentato l'elettroshock, in passato. Dopo che la malattia lo aveva reso a tratti furioso. Non voglio neanche provare a pensare cosa possa essere. Non ricordo neppure se ne abbiamo mai davvero parlato in dettaglio. Preferirei lasciar perdere. Dicono che oggi non se ne faccia l'uso indiscriminato di un tempo. Solo in casi gravissimi, e dicono che non sia doloroso come una volta. Lo so, corrente alternata di 50-60 cicli al secondo, voltaggio di 110-150 mV, intensità 0,9 ampère. Sempre in anestesia totale. Ma non credo sia questo il punto. In quel periodo veniva curato con il litio, un sistema per tenere sotto controllo e prevenire, ho imparato, gli sbalzi d'umore. Mi aveva comunque avvisata subito. «Devo sempre avere paura di me stesso» mi aveva detto una sera. Certo era fortunato, ora che esistevano cure e la malattia era più accettata. «Pensa al medioevo,» mi aveva detto «che la gente come me veniva bruciata in piazza». «Ma spesso le cure sono terribili. È una disperante anestesia della mente, che ti chiude in una prigione d'ovatta. È terribile, formichina rossa». Già mi chiamava così. «È terribile, sono arrivato a non riuscire neppure più a sentire la musica. Disabilitato. Stop. Capisci? Vorrei non succedesse mai più». «So,» mi disse «che io dovrò suonare per tutta la vita. Perché questo, solo questo è il mio modo di comunicare con la gente». Forse cominciavo a capire. Forse capivo il suo sottoporsi allora troppo distratto alle cure che gli venivano proposte. Per contrastare la tristezza che diventa sofferenza e disperazione. Per calmare l'esaltazione che consuma le forze. Neanche ora saprei dire quanto la calma indotta e il tenerlo isolato dalla sua musica, come era accaduto e accadeva ancora, non gli provocasse nuove tristezze. Aggiungendo dolore a dolore. L'alchimia dei farmaci regola gli umori, rimuove pensieri, stabilizza le emozioni. Aiuta, certo. Ma pensare di rimuovere con una combinazione chimica il dolore del mondo... Non era facile andare avanti adeguando il ritmo della propria vita agli appuntamenti con i medici, gli analisti, gli psicofarmaci. Entrando e uscendo dai ricoveri in ospedale, per lunghi o brevi che fossero. Forse cominciavo a capire. Ma ero ormai innamorata. Della sua dolcezza, della sua musica. E anche quei racconti tristi che già mi regalava mi legavano ancora di più a lui. Come le volute di note dei brani della sua musica.
Ancora credo non ci sia nulla di meglio che possa capitare che affacciarsi
sull'inverno al fianco di un amore nuovo. Specie quando si pensa che sia
finalmente uno di quelli veri. Prima o poi definitivo, chissà.
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