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| << | < | > | >> |Pagina 9Non è fuor di luogo rilevare che le differenze tra i proverbi e i modi di dire rivestono natura sostanziale: i primi infatti — definiti da Aristotele, che ne fu il primo raccoglitore, "frammenti di saggezza antica" e letti da Giuseppe Giusti quali "veste da camera" della lingua — si articolano in una massima dalla valenza didascalica o in una sententia brevis che fornisce norme di comportamento correlate al secolare ripetersi di situazioni ratificate dall'esperienza del vissuto (probata verba); i secondi invece, più tecnicamente definiti locuzioni idiomatiche, non rivestono alcuna pretesa gnomica, trattandosi di espressioni volte a meglio esprimere e spiegare un concetto o una situazione, evidenziandone in chiave metaforica, ironica, allegorica o sinonimica la specifica portata.Accade tuttavia di frequente che il confine tra gli uni e gli altri sia estremamente sottile: di qui l'inclusione — in perfetta buona fede semantica — di tanti modi di dire nelle oggi diffusissime raccolte di proverbi, specie se in vernacolo. È scontato che il dialetto, idioma primario dell'immediatezza, dell'espressività e della comunicativa, si palesa quale il più idoneo e fertile humus delle anche estemporanee locuzioni in parola: queste però si sono sempre configurate come declassate rispetto ai più aulici e paradigmatici proverbi, sapienti "granelli di sale" avallati dalle Sacre Scritture (ad essi si intitola il più fruibile dei libri vetero-testamentari, attribuito a Salomone), presenti nei Vangeli, prediletti da Autori quali Plauto, Shakespeare e Cervantes, che hanno annoverato tra i loro compilatori da Brunetto Latini a Erasmo da Rotterdam, dal Venerabile Beda allo Strafforello ed al Giusti, ed al cui studio e dedicata una particolare branca della letteratura: quella paremiologia che deriva il nome dal greco paroimìa, cioè proverbio. [...] Per quanto riguarda il presente lavoro, va confessato che furono proprio i modi di dire napoletani, estasianti "gocce di spirito", a captare per primi la remota attenzione adolescenziale di chi scrive che, nato «'ncopp' 'e Quartiere», sentiva frequentemente risuonare sulle bocche dei popolani singolari icastici motti, amene frasi scherzose ed allusivi riferimenti inseriti nel loro colorito eloquio, capaci di fornire allo stesso l'efficace supporto di una affabulante sottolineatura e di un sapido parlar figurato che, a mo' di incipit, di intercalare o di suggello, ne costituiva il più integrante e felice dei commenti. La raccolta di tali locuzioni, ma più ancora i tentativi di identificarne per molte l'esatta derivazione, hanno richiesto svariati decenni. Non ... disponendo di soverchi altri, si avverte ora la opportunità di procederne alla pubblicazione pur nel convincimento della loro incompletezza, considerato che - come ebbe a rilevare Giuseppe Giusti - il "mare magno" dei modi di dire è tale che «il volerli raccapezzare tutti e distinguere quelli in corso e quelli da dargli il riposo per sempre nel museo delle cose fossili sarebbe opera faticosa, tediosa e interminabile». L'averne trascritti e commentati duemilauno - oltre a centosessanta varianti - è solo un voluto aggancio al primo anno del nuovo millennio, con la certezza che altri voglia integrarli con quanti si è mancato di includere, precisando però che sono state deliberatamente omesse due tipologie: l'una relativa a detti del tutto obsoleti in quanto legati a situazioni e costumanze tanto remote da non renderne più recepibili la portata o i riferimenti, e l'altra riguardante espressioni decisamente volgari, dettate più dal senso che dal buonsenso. | << | < | > | >> |Pagina 91Essere nu figlio e 'ntrocchia 569
Analogo al precedente, ma riferito ad individuo ancora più in
gamba ed autosufficiente. Da rilevare che il termine
'ntrocchia
non ha una sua autonomia semantica, sussistendo solo se preceduto dalla parola
"figlio". Il riferimento è ad una madre - peraltro
semper certa -
che ha concepito
int' 'a rocchia
un figliuolo dalla insicura paternità, il quale ha dovuto sempre
sbrigarsela da solo, divenendo autentico stratega della sopravvivenza.
Essere nu figlio 'e zoccola 570
È il tipico "figlio di buona donna", il cui appellativo è correntemente
scevro da connotazioni negative, sottindendendo una sorta di malcelata
ammirazione per chi, in quanto tale, è in grado di sapersi validamente
autogestire. (La prostituta è detta
zoccola
perché adusa ad "uscire di notte").
Essere nu guaio 'e notte 571
Chi è insopportabile per noiosa lamentosità, chi assilla il prossimo con
continue lagne, è paragonato a un disastro che si verifica nottetempo, quando è
più difficile porvi riparo.
Essere nu gulío d'ommo 572
Si allude all'individuo meschino, privo di carattere o scarno e
malaticcio, considerato un irrealizzato, velleitario e mal riuscito
tentativo di uomo.
Essere nu maccarone senza purtuso 573 Un inconcepibile maccherone non forato alle estremità perderebbe la più peculiare delle sue caratteristiche: quella di lasciarsi intridere, permeare e sublimare da quel sugo (ovviamente di pomodoro) che è il suo habitat naturale. Pertanto ad esso viene assimilata la persona insignificante, priva di mordente, dal cervello quasi otturato. | << | < | > | >> |Pagina 109Fa' 'e vruoccole 695
La verdura non c'entra: si tratta delle piccole smancerie, delle
futili insulsaggini, delle ammiccanti moine proprie degli innammorati. Il
probabile étimo è quello dal francese
brocarder
di tale significato.
Fa' fesso 696
Ingannare, raggirare, imbrogliare qualcuno, già strutturalmente
predisposto ad essere "fatto scemo".
Fa' fetecchia 697
Far cilecca, non riuscire in un intento, fallire un colpo, fare fiasco;
ed è esattamente venatoria la portata del detto, da intendersi - giusta il Greco -
quale "scoppio debole e vano" di un inappropriato o male adoperato fucile, il
cui maldestro colpo altro non è che un
flaticulus,
piccolo ed inane soffio anziché rumoroso e mirato sparo. È pertanto
inaccoglibile la derivazione della
fetecchia
da
fètere
e ancora meno la sua pretesa valenza di "scorreggia non rumorosa".
Fa' filone 698
Marinare la scuola "defilandosi" dalla stessa, compiendo una
ingiustificabile assenza.
Fa' giacumo giacumo (var.: jacuvo jacuvo) 699 Provare paura, non poterne più dalla stanchezza, col conseguente tremore delle gambe che vacillano. Incerta l'identificazione del "Giacomo" in parola, non essendo da escludersi una valenza meramente onomatopeica. | << | < | > | >> |Pagina 176Nun magna' pe' nun caca' 1197
Paradosso riferito all'avaro, spregiativamente ritenuto capace di
rinunziare al nutrimento pur di non doverlo... rendere.
Nun me fido... 1198
Non mi sento bene, non sono in forma, non ho la forza di far
nulla: modo di dire che per chi lo prende alla lettera sembra
equivalere a una dichiarazione di sfiducia, tipica di chi non "si
fida" di altri.
Nun me ne fotte 1199
Me ne infischio, non me ne importa: il fatto non mi... lede.
Nun me passa manco p' 'a capa (o altri siti anatomici) 1200
Quanto mi vai raccontando, ciò che sta accadendo, la cosa di
cui si parla non mi interessa affatto, non sfiora e non impegna
neanche alla larga il mio pensiero (o altre zone del mio corpo).
Nun misca' 'a lana cu' 'a seta (var.: 'o cantaro cu' l'arciulo, 'o rinale cu"o Cardinale) 1201 Non porre sullo stesso piano cose o persone tra loro non comparabili, in quanto abissalmente diverse per pregi o valori. | << | < | > | >> |Pagina 245Sta' struppiato 1700
Apparire malconcio, dolorante, sentirsi come chi abbia subito una
bastonatura tanto violenta da renderlo storpio.
Sta' stuorto 1701
Mostrarsi di pessimo umore, turbato e contrariato.
Sta' sulo comm'a nu cane 1702
Sentirsi - o essere - abbandonato e negletto, privo di aiuti ed
assistenza come un misero cane randagio.
Stateve buono! 1703
È il più comune degli "arrivederci" napoletani, diretto erede del latino
Vale!
con cui ci si congedava da qualcuno augurandogli di stare bene in salute.
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