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| << | < | > | >> |IndiceNota alla terza edizione 9 Nota alla prima edizione 11 Presentazione 13 La originalità 21 La ricchezza e la fantasia 27 La proprietà 31 L'epressività 35 La metaforicità 37 Trasmigrazioni e germinazioni 39 Derivazioni greche 43 Derivazioni latine 57 Derivazioni francesi 71 Derivazioni spagnole 85 Altre derivazioni 97 Parole pseudo-italiane 107 Bibliografia essenziale dell'autore 115 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Θ d'obbligo, all' incipit di un itinerario che non ha altra pretesa se non quella di evidenziare alcune specifiche peculiarità del nostro parlato, la formulazione di una doverosa premessa: il suo fine prescinde da ogni velleità campanilistica o autocelebrativa, limitandosi alla sola proposizione di un dato inoppugnabilmente sussistente, incentrato sulla multiforme realtà e la originale struttura del lessico napoletano. Al riguardo risulta superflua ed ininfluente l'accademica e tanto vexata quaestio circa l'attribuzione allo stesso della qualifica di lingua o di dialetto: si tratta di una mera etichettatura che nulla aggiunge alla valenza di un «parlare» provvisto di proprietà e caratteristiche tutte proprie. La madrelingua resta e deve restare la più totalizzante prerogativa di una Nazione: Nazione, a dirla col Manzoni, che non può non essere «una d'armi, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor»... Poco conta che, per l'Italia, sia assurto a lingua nazionale un... superdialetto, nella specie quello toscano: sta in fatto che gli idiomi locali, anche se al presente vittime di un declino e di uno stemperamento ormai generalizzati, non cessano di costituire la più diretta attestazione delle radici, della storia e della cultura delle relative territorialità, e che agli stessi va riconosciuto l'innegabile ruolo di serbatoi di alimentazione della lingua, nonché quanto ai fruitori quello di immediata identificazione, di solidale aggregazione e di efficace recupero del «privato». Sempre, in ogni caso, rilevante l'attenzione riservata ai dialetti: già nel lontano 1563, la 22a Sessione del Concilio di Trento autorizzava Vescovi e Parroci a spiegare i Sacramenti «etiam lingua vernacula», e G.B. Vico nella 17a «Degnità» della Scienza Nuova affermava che «i dialetti sono i più gravi testimoni degli antichi costumi». Dal suo canto il Croce non esitava ad ammettere che «molta parte dell'anima nostra è dialetto»; più di recente il Migliorini ha accreditato che «la lingua ha bisogno dei dialetti», mentre non può non riportarsi la sorridente boutade del nostro Libero Bovio: «I dialetti sono eterni. Gesù parlava in dialetto. Dante scriveva in dialetto. Il Padreterno, in cielo, parla in dialetto». Duole però rilevare che tali veicoli primari della trasmissione del pensiero, queste voci genuine del sangue e più immediate creature semantiche risultano, oggi come oggi, segnate da una ingenerosa decadenza al punto da non venire più usati da circa l'85% delle popolazioni e da perdere progressivamente, per obsolescenza, sempre più fonemi o locuzioni. Le cause sono da ricercare, oltre che nella omologazione di una cresciuta acculturazione e di una sempre più ampia penetrazione degli anemici e sterilizzanti mass-media, nella diffusa remora ad adoperarli in quanto gratuitamente ravvisati alla stregua di emblemi di sottosviluppo e subalternità (è sempre ricorrente la proterva intimazione del «Parla bene!» o «Parla italiano!» rivolta da genitori di vista corta al figlio che si esprima in dialetto, quasicché questi farfugliasse o adoperasse un idioma straniero...). Il fenomeno ha assunto proporzioni molto più ampie ed esasperate nel Sud dove, a seguito dell'Unificazione, alle parlate locali venne riservato una sorta di vero e proprio ostracismo, supportato da discutibili normative che, con comminatoria di sanzioni, erano mirate ad osteggiarne (quando non addirittura a bandirne) l'uso, determinando specie fra le classi più evolute una sorta di rimozione nei confronti di quello che era stato fino ad allora l'amato parlar nostro, indiscriminatamente adottato da tutti i ceti sociali. E dire che la parola «dialetto» deriva dal greco dià-legomai (parlare insieme, discorrere, conversare) che ne sottolinea il ruolo di piano e colloquiale dialogare e che lo stesso nella denominazione di «volgare» rimanda alla genuinità del parlare propria di quel vulgus che ne è il più esclusivo depositario (quante volte a chi ostenta un linguaggio raffinato o toscaneggiante si eccepisce: Parla comme t'ha fatto mammeta!), mentre l'appellativo di «vernacolo» si rifà al precario e talora sconcio ma pur sempre agglutinante intendersi dei vernae, cioè dei figli degli schiavi ormai dimentichi dei linguaggi proprii e non ancora avvezzi a quelli dei padroni... Sulla scorta di quanto precede, appare dunque opportuno incoraggiare ogni iniziativa tesa alla salvaguardia, alla tutela e al recupero dei dialetti perché nel cuore di ognuno di essi alberga tanta parte della nostra storia, dei nostri costumi, del nostro stesso modo di essere: ed a questo punto il discorso non può non prendere corpo e dimensione napoletana, dal momento che quello di Napoli come conferma il Galiani è il più antico dei patrii idiomi e l'immediato epigono del declinato latino. Esso risulta infatti il più «parlato» e più esteso d'Italia, quello più facile ad essere compreso e a venire imitato o addirittura adottato: si pensi alla tipica cadenza tutta meridionale con cui, dopo solo qualche anno di permanenza negli States, i nostri emigrati sono soliti esprimersi indipendentemente dalla loro provenienza territoriale. Non è poi trascurabile la circostanza che il primo documento «ufficiale» della lingua italiana quel Placito Cassinese o Carta di Capua, giurato nel 960 da tre religiosi benedettini avanti a Landolfo Principe di Capua in favore dell'Abate Aligerno appare redatto in una forma sostanzialmente coincidente con il dialetto napoletano: «Sao... ko kelle terre... le possette...», dove il sao risulta vicinissimo al nostro saccio, l'omofonia di kelle con chelle è del tutto scontata ed il possette riproduce alla lettera l'analogo perfetto napoletano dei verbi della seconda coniugazione (dicette, facette, tenette, ecc.). D'altro canto Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia attribuiva alle parlate meridionali fra le quattordici all'epoca vigenti la specifica qualifica di lingua intermedia fra il sermo rusticus e il sermo illustris. | << | < | > | >> |Pagina 27Il parlare di Napoli ha tanti vocaboli e frasi che se alcuno volesse un vocabolario formarne non so se mai compirlo potrebbe.
V. Oliva,
Grammatica della lingua napoletana
(1728)
Estesissima la dimensione del parlar napoletano, capace di concretizzare la più ampia delle sinonimizzazioni sia in funzione della ricchezza terminologica che della fervida creatività concettuale. Siamo stati in grado di definire in ben centocinquantotto diverse maniere da abacucco a zucannoglia l'individuo sciocco o sprovveduto; di aver dato nome, corpo e struttura ad oltre ottantacinque specie di percosse manuali, da alliccamusso a zuco d'agresta, contro la ventina della lingua patria; di denominare il danaro con più di sessanta suggestivi appellativi, da abbrunzo a zannette; di descrivere il corpo umano con circa duecento lemmi originali, da arche d' 'e ciglia (sopracciglie) a zezzeniello (ugola), escludendo dal novero gli oltre trenta sinonimi dell'organo genitale femminile e la ventina di quello maschile. Nel rimandare chi volesse a nostre specifiche pubblicazioni, ci limitiamo a proporre i sedici (finora accertati) «nomi propri» riservati alla banale ed asettica ernia della madrelingua: guàllara, 'ntoscia, paposcia, burzone, contrapiso, quaglia, zeppula, appesa 'e Pererotta, polletra, scesa tonna, mellunciello, allentatura, pallone, richignenzia, muscesia e (dulcis in fundo) pallera... Quanto alla fantasia, essa è riscontrabile nella sterminata messe dei nostri modi di dire oltre che in quelle pittoresche espressioni assolutamente non catalogabili e spesso di immediato conio estemporaneo che momento per momento fioriscono sulle bocche napoletane... Si ponga mente a plastiche locuzioni quali: Tene' 'a capa sulo pe' spàrtere 'e recchie, Essere chiù fesso 'e l'acqua caura e chiù spuorco 'e na recchia 'e cunfessore, Vule' bene comm'a na scarpa vecchia, 'A capa 'e l'ommo è na sfoglia 'e cepolla, 'A soccia mana sta 'int' 'e Guantare, Tene' 'a neva 'int' 'a sacca, Pare ca s' 'o zùcano 'e scarrafune, Vuttarse 'int' 'a vraca, Zompa 'o cetrulo e va 'ncul' 'o parulano o a icastiche definizioni del tipo Madama senza naso (la Morte), 'o tale e quale (lo specchio) 'a tale e quale (la fotografia), 'o tram a muro (l'ascensore) 'o senzapière (il sonno), 'a mamma e figlia (le antiche due bustine per la preparazione della Idrolitina), 'e lente 'e Cavour (le manette nel linguaggio malavitoso), 'a santacroce (il sillabario), 'o cappotto 'e lignamme (la bara), 'o janco e niro (il pianoforte), 'o cap' 'e fierro (il treno), 'o segno 'e corda (il telegramma), 'a ting-tang (la bicicletta), e via dicendo. Vastità semantica rispecchiata fedelmente nell'ambito paremiologico, che annovera oltre seimila tra proverbi e wellerismi (la monumentale raccolta del Giusti compilata nel 1873 non superava i tremila, riportandone solo poco più di duecento relativi alla donna contro i circa settecento napoletani) e qualcosa come all'incirca quattromila modi di dire... Diretta testimonianza di tanta ricchezza espressiva è fornita dal numero dei Vocabolari dialettali che ammontano ad oltre cinquanta e che includono Dizionari botanici, zoologici, ornitologici, onomatopeici ed addirittura trilingui! Figlia non degenere della fantasia è da ritenere altresì la straripante ampiezza della mimica nostrana, densa di oltre cinquecento gesti, la cui ratio oltre che nel temperamento solare ed estroverso delle popolazioni del Sud è da collegare primariamente alle complesse vicende storiche dapprima cennate: il breve succedersi delle dominazioni, quasi tutte di lingua differente, non consentiva il pur limitato apprendimento dei fonemi essenziali alla sopravvivenza; di qui la necessità di fornire alla ridotta possibilità di esprimersi e venir compresi un valido supporto gestuale, rivelatosi efficace cerniera di trasmissione e di intelligibilità anche in funzione della straordinaria e geniale comunicatività della nostra gente. | << | < | > | >> |Pagina 71La «presenza» francese a Napoli tra l'Angioina e quella degli Orléans e dei Napoleonidi assomma a circa duecento anni. Scontate allora le sue tracce sia nel nostro parlato che in tanti toponimi: tra i quali quelli di Piazza Francese, del Ponte dei Francesi, di Via Renovella (Rue nouvelle), di Rua Francesca, delle non più esistenti Rubattina (o Rua Rubertina, in onore di Roberto d'Angiò), Rua Provenzale e della Acquaquiglia che finiva per dar nome a tutta la malfamata zona compresa tra il Mandracchio e la Dogana del Sale, intitolandosi alla antica Fontana della Quaquiglia (o della Maruzza, in francese coquille). Un cenno a parte merita la persistente Cupa Lautrec (generalmente chiamata 'O Trirece, Lo Trecco o 'O Trivio) derivante l'appellativo da quell'Odetto de Foix Visconte di Lautrec che cinse d'assedio Napoli nel 1528 morendovi avvelenato dall'acqua che lui stesso aveva ordinato di inquinare remoto esempio di guerra batteriologica meritandovi tuttavia onorata sepoltura nella Chiesa di Santa Maria La Nova. Diffusi i francesismi nell'àmbito della nostra gastronomia, anche se vittime di amene storpiature e sempre graficamente resi alla napoletana: si pensi a bombò, bignè, briosce, buatta, crocchè, dessert, filoscio, franfellicche (da fanfreluches, ciondoli, minuterie da noi... dolcificatisi graditissimi a Goethe e definiti da Emanuele Rocco «monumento gastronomico»; e come non rammentare al riguardo lo scanzonato ma tremendamente icastico mottetto settecentesco «Napule è bella assaje, pare nu franfellicco: ognuno vene, allicca, arronza e se ne va»...), fricassè, gattò, genovese (Genova non c'entra affatto: la derivazione è da genevoise (ginevrina) essendo in uso a Ginevra, come in tutta la Svizzera francese, la cottura della carne con le cipolle), grattè, mignon, monzù, 'nnoglia (il più povero degli insaccati 'a sasiccia d' 'e puverielle da andhouje), parfè, patè, pummarola (da pomme d'amour), ragù, roccocò (delizia del Natale, la cui remota forma non proprio rotonda richiamava la barocca rocaille, conchiglia), sartù, sciù, sotè, sufflè e (vedremo perché) zoza. Per non tacere dello 'nfrancesarse (contrarre il temuto «morbo celtico», pervenuto proprio dai Francesi di Carlo VIII e gratuitamente definito «morbo napoletano»), delle spingule francese (ricorrenti nel canto popolare pomiglianese che Salvatore di Giacomo trasfuse negli agili versi dell'omomina canzone stupendamente musicata da Enrico De Leva nel 1888), del fa' 'o francese (mostrare di non comprendere o fare lo gnorri) e di quel tirabusciò (cavatappi) che ispirò il «nome eccentrico» della Niny immortalata nel 1911 da Califano e Gambardella. Era poi abituale costume delle classi medioelevate infiorare di francesismi o pseudo tali il loro discorrere a (pretesa) conferma di un'élitaria acculturazione: via libera allora per i diffusi aplomb, argent, c'est la vie, lieu d'aisance, arriére - pensée, comme-il-faut, fané, pendentif, sans faηon, surmenage e via francesizzando.
Ecco ora una limitata rassegna di vocaboli di matrice francese trasfusi nel
nostro parlato:
Accatta': comprare, acquistare, da acheter, da cui l' accàtteto, cattivo acquisto, spesa inutile e dannosa. Ammilocca: busta per lettere, da enveloppe (e riaffiora la sissantina 'e vase che l'estensore della Digiacomiana Lettera amirosa voleva imprimere attuorno attuorno all'ammilocca 'nchiusa). Ammurza': stringere con una morsa, trattenere, invischiare, da amorcer, prendere con l'esca: nel gergo dei barbieri, tipico delle forbici che s'ammorzano al contatto di capelli unti e bisunti. Argiamma: corruzione di argent, uno degli oltre sessanta sinonimi del danaro, forse quello per antonomasia, presente nel remoto adagio «Quatto li cose a 'o munno ca fanno cunzula': 'a femmena, l'argiamma, lo suonno e lo magna'...». Arrangiarse: da arranger, sistemare alla meglio, rabberciare. Ma che da noi diviene emblema dell'arte della sopravvivenza... Arrassusia: lontano sia (ricalca il longe a nobis del Petroniano Satyricon), non sia mai, che riteniamo derivante più compiutamente che dallo spagnolo arradar da arrière-soit-il. Β bonora: faustamente, felicemente, da bonheur. Bello e buono: di punto in bianco, all'imprevisto: è la versione nostrana del bel et bien. Bisciù: gioiello di minute proporzioni e di scarso valore, ma anche vezzoso complimento a persona amata o ammirata, da bijou. | << | < | > | >> |Pagina 85Quella spagnola è stata, fuori dubbio, la più prolungata delle presenze straniere: sommando infatti il periodo aragonese a quello viceregnale si perviene ad un totale di oltre duecentocinquanta anni. Essa ha fortemente inciso sulla mentalità napoletana, che ha molto assorbito del «naturale» iberico, come attestato oltre tutto da espressioni tipo «Fa' 'o grand' 'e Spagna», «Spagna pava»; «'A carità spagnola» (quella fatta con tasche altrui...). In ordine al parlato, occorre ridimensionare l'adusato luogo comune della pretesa semi-identità tra lo spagnolo e il napoletano. Sta in fatto che una limitata rassomiglianza è riscontrabile solo a livello di pronunzia, come per l'apocope dei verbi all'infinito e dei sostantivi al vocativo (trattandosi di diretta eredità catalana) e per una certa consonanza di termini. Attribuire peraltro al detto idioma un effetto determinante sul nostro eloquio è pura petizione di principio: trattandosi di lingua neo-latina, gran parte dei lemmi ispanici sono di derivazione latina o greca e ben pochi fra quelli autoctoni sono stati, come vedremo, recepiti nel nostro dialetto. Estesi i riferimenti toponomastici connessi alla dominazione spagnola: dalla pulsante arteria per antonomasia la Via Toledo che quel Don Pedro nel 1536 volle «scavata nel sole» ai Quartieri, «acquartieramenti» militari; dal Ponte di Tappia a Piazza Carlo III; da Rua Catalana (dove il Boccaccio ambienta la Decameroniana novella di Andreuccio da Perugia e che con deformazione gergale era detta «aria catalana») alla Vicaria e a Piazza San Ferdinando; dal Conte di Mola (Simon Vaez) a Taverna Penta; dal Piliero al Mandracchio; dalla seicentesca Port'Alba (voluta dal Viceré Antonio Alvarez duca d'Alba) alle vie Alfonso d'Aragona e Ferrante Loffredo; dalla Maddalenella degli Spagnoli al Largo Ferrandina; da Via Nardones a Via Miradois; dalla non più esistente Via Baglivo Uries a Via Conte Olivares e al Supportico Lopez; da Santa Teresella degli Spagnoli alla Trinità degli Spagnoli, non ignorando il Palazzo San Giacomo e Via Cervantes, il drammaturgo, poeta e romanziere che definì Napoli «gloria d'Italia e ancor del mondo lustro, madre di nobiltade e di abbondanza, benigna nella pace e dura in guerra»...
Ed ora la consueta scelta di lemmi autenticamente spagnoli accolti nel
nostro parlato:
Abbusca': guadagnare modestamente, trarre un limitato profitto, procacciarsi qualcosa con tutta l'aleatorietà e la precarietà che il verbo sembra includere ma anche, per antifrasi, prendere botte e minacciare di darne. Da buscàr, cercare, buscare, arrangiarsi. Β bona 'e Dio: letterale trasposizione della frase-auspicio dei naviganti all'inizio della traversata (A la buena de Dios) richiamante il latino Deo adiuvante. Ammuina: chiasso, confusione, scompiglio, «affaccendamento disordinato e scomposto» (Andreoli), «cura soverchia» (annotava il De Ritis nel suo monumentale Vocabolario napoletano lessigrafico e storico, 1845, purtroppo incompleto): ma una agitazione e uno strepito che a nulla approdano e niente concludono, conseguendo addirittura un risultato opposto a quello sperato. Deriva da mohinar, molestare, infastidire, confondere, che dà l'esatto senso del disturbo, del disagio e della rabbia ingenerati da chi fa ammuina o s'ammuina.
Anema 'e Dio:
solidale appellativo per creature indifese e
abbisognevoli di aiuto, teneramente inserite nell'
alma de Dios.
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