Copertina
Autore Marco De Franchi
Titolo Il giorno rubato
EdizioneLa Lepre, Roma, 2013, Fantastico italiano , pag. 334, cop.fle., dim. 13,5x21,2x2,5 cm , Isbn 978-88-96052-84-6
LettoreLuca Vita, 2013
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

Capitolo primo



Questo è tutto quel che ricordo.

Un campo di grano. La notte. Niente luna, solo un vago chiarore. Un vento leggero, tiepido, che proviene chissà da dove e muove le teste delle spighe, rendendole simili a una processione di anime dolenti che si lamentano nel buio.

Io sono immerso in questo mare di sussurri, sdraiato nel grano, il sapore della terra in bocca. Non oso sollevare la testa, non dopo aver sentito quel rumore, quella vibrazione bassa che proviene da un punto imprecisato più avanti, nel campo. Come un sospiro profondo, ritmato. Mi terrorizza.

Non c'è molto altro... Ah, sì: la mia macchina digitale. La stringo tra le mani, mi aggrappo a lei come a una scialuppa; è il mio contatto con la realtà e anche il motivo, credo, per il quale mi trovo qui: se riesco a scattare fotografie dimostro che ho ragione. Documentare l'incredibile è il mio compito, per quanto difficile: non mi guadagno da vivere senza sforzo.

L'uomo che è con me mi fa cenno di no; dice che non è il momento, che è meglio restare nascosti nell'erba. È in preda al panico. Si accuccia in un angolo, abbracciandosi le ginocchia, e trema come una foglia.

Io lo guardo, perplesso. Cosa gli prende? Perché questa paura? Il suo compito è terminato. Mi ha accompagnato dove doveva; adesso se vuole può anche andarsene, mettersi al sicuro. Glielo dico, ma sembra che non mi senta. Vedo il bianco dei suoi occhi.

Oh, basta... Meglio dimenticarlo. Mi concentro invece su quello strano suono. Pare ci siano voci che si intrecciano nel respiro; sono qui, accanto a noi, appena oltre il sipario di spighe mature.

Prendo coraggio e mi sollevo, dapprima in ginocchio, prestando attenzione a non fare più rumore di quanto necessario. Il frusciare del grano diventa un frastuono, colpa di questo vento improvviso. Controllo la Sony: è carica. Il flash produce un sibilo tenue, che aumenta d'intensità. Sono pronto.

Ora leverò la testa oltre la superficie dell'oceano vegetale; guarderò nel buio e punterò il led rosso della fotocamera verso chi o cosa procede nel grano. Verso chi sta disegnando nel grano.

Mi muovo lento, impacciato; spezzo alcuni steli e il rumore è come uno sparo.

Il mio accompagnatore si copre il volto con le mani.

Il respiro tra le spighe alza il tono, diventa un cupo ansimare. Poi si ferma. Scompare. Resta solo il frusciare del vento e il battere sordo del mio sangue.

Mi muovo, più veloce che posso, e punto l'obiettivo.

Lo vedo! Maledizione, so che lo vedo...

Il fatto è che non rammento altro. Mi resta il sapore della sorpresa.

Perché poi, bang!, diventa tutto nero.

Questo è ciò che ricordo.

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Pagina 11

Capitolo secondo



Ssss...

— Dorme?

— Dorme.

E poi rumori. Fttt fttt. Clang clang clang. E ancora sssss!

Apro gli occhi. O questo è almeno l'ordine che tento di impartire a una parte del mio corpo, anche se non so se esista più un corpo e se sia ancora intero: oltre a sprazzi di luce nel buio e rumori di passi, non ho percezione di nient'altro.

Occhi aperti. Bene. Ora, anche se confuso e come dietro un velo d'acqua, vedo ciò che mi aspettavo: una stanza d'ospedale, con il soffitto bianco, a parte quella macchia di umidità nell'angolo, e pareti color verde tenue. Un letto, anzi due, contando quello su cui sono sdraiato; l'altro è vuoto. Una flebo. Un'infermiera. Un medico.

— Dottor Malerba, è sveglio?

— Non lo so...

Biascico a malapena e probabilmente quelle poche sillabe sono incomprensibili; ma il medico sorride: quindi qualcosa ha inteso, o forse vuole incoraggiarmi a morire. Tocca a me chiedere. Non sento dolori, ma solo un intorpidimento generale. I miei pensieri sono confusi e ho un sapore agrodolce in bocca, come di ketchup andato a male.

— Cosa mi è successo?

Il medico sorride ancora: pensa davvero di essermi di conforto, con quella specie di rictus.

— Un tocco. Solo un tocco leggero.

— Un tocco?

— Un principio di infarto, ma non deve preoccuparsi: siamo arrivati in tempo, in tempissimo!

Un infarto... Di cosa sta parlando? Un attimo fa mi trovavo al centro di un campo di grano. Un cerchio imperfetto mi circondava e il cuore non mi doleva, stavo magnificamente... Un attimo fa ero Dio, credo.

Cerco di capire, di replicare: – Ero nel grano e... Dove sono ora? E l'uomo che era con me?

Mi blocco quando leggo lo stupore sul suo volto. La mia storia non è in sintonia con la sua: sono un esperto nel genere, è difficile che la gente creda a uno scrittore che racconta di mostri...

— Lei era solo – mormora il medico con accondiscendente perplessità – e con lei non c'era nessun uomo, né mi risulta che si trovasse in un campo di grano.

Ora chissà perché Doctor Rictus non sorride più. Forse la mia reazione non rientra nei comportamenti previsti dalla sua diagnosi; d'altronde ha detto che ho avuto un infarto, e io so che non è vero, che sto bene. Però...

— Chi devo ringraziare? Chi ha chiamato i soccorsi?

Rictus e il suo staff si consultano con lo sguardo: ho posto una domanda proibita? C'è qualcosa che non devo sapere?

— Un infarto, va bene – concludo. Per adesso, basta così.

Voglio dormire ancora. Riposare. Poi capirò, o almeno lo spero.

Dormo, mi sveglio, mi riaddormento, in un tran tran noioso e vagamente ipnotico. Mi sembra di navigare in un mare di melassa trasparente, ma la mia mente è ancora viva. Nei momenti di maggiore lucidità mi chiedo che cosa sia accaduto realmente: non ho sognato quell'escursione notturna in campagna, né il disegno nel grano; non ho semplicemente immaginato il respiro cupo tra le spighe e c'era un uomo con me. Un testimone, credo. Però è vero: il resto è confuso, non solo quello che è accaduto dopo, anche il prima. Non ricordo neppure come sono arrivato a quel cerchio nel grano; forse era la meta di una delle mie ricerche, ma non ne sono sicuro. Potrei saperne di più se uscissi da qui; ma il dottorino ha letto la sentenza, "infarto", e per quanto non ci creda, per quanto mi senta bene, preferisco non rischiare.

Il fatto è che io non ho mai sofferto di cuore e credo anzi di essere in buona salute: sono un quarantacinquenne che non ha mai fumato, che beve con moderazione e che non si dedica da molto tempo alla triade "sesso, droga e rock'n'roll". Mi sembra assai strana questa faccenda, ma il bizzarro in fondo è il mio mestiere e verrò a capo di ogni cosa. Non ne dubito.


Più tardi ricevo la prima e unica visita: è quella di Gianluca, il mio editore, e quando arriva al mio capezzale è tutt'altro che felice.

— Mi hanno detto che ti hanno preso in tempo, che è stata solo una scossetta, ma che comunque...

Gianluca è grosso, peloso e generalmente allegro. Mi disturba vederlo in questo stato. Sembra preoccupato. Infastidito.

— Di che cosa hai paura? – gli chiedo a bruciapelo.

— Io? Paura? – sorride, ma è una smorfia. – Mi preoccupo per te, caro Valerio; dicono che ti devi riguardare, stare attento. Insomma, un infarto non è proprio una passeggiata!

Capisco: i libri che scrivo hanno bisogno in genere di ricerche sul campo e io sono bravo, mi muovo come pochi. Gianluca sa bene che la forza della mia scrittura sta nel contatto con la realtà, per quanto fittizia o evanescente essa sia. Se un infarto mi imponesse una lunga convalescenza, o peggio mi bloccasse a vita dietro una scrivania, come potrei scrivere con altrettanta autorevolezza? E dove andrebbero a finire gli incassi di Gianluca?

— Guarda che non è stato un infarto – lo informo; ma, come per smentire la mia affermazione, un pizzicore improvviso mi solletica là dove pare che io abbia un cuore... Stiro le gambe sul letto sfatto, mentre Gianluca mi guarda ansioso.

Gli racconto quello che ricordo, cercando di essere verosimile, convincente. Invento, li dove la memoria mi gioca brutti scherzi. Tappo i buchi.

— Sembra interessante! – dice Gianluca, che non ha capito niente. – Però ti hanno trovato nella camera d'albergo che avevi prenotato in città, hanno sentito i tuoi lamenti e... Insomma, sei salvo per miracolo! Così è andata. Niente respiri nella notte, né passeggiate in campagna.

— Chi ha chiamato la guardia medica? Chi ha aperto la porta della mia camera? E di quale albergo parli?

Gianluca ora è visibilmente scandalizzato: – Valerio, mi sembri davvero stonato; credo sia stata la cameriera, una donna ha telefonato al 118... Ma poi, che ne so io? C'eri tu là dentro!

Sto per dirgli che sta sbagliando tutto, ma c'è qualcosa di troppo storto in questa storia e Gianluca è apprensivo: meglio non metterlo in allarme. Per essere un editore che pubblica storie di incubi e di misteri, lui ama fin troppo la solida realtà. Prima di andarsene mi dice che pagherà ogni eventuale spesa di degenza e mi consegna un po' di posta giunta in casa editrice per me: lettori curiosi, qualche fan, un paio di psicopatici in cerca di successo. La solita roba, insomma.

Quando esce mi sento un po' solo: so che nessun altro verrà a trovarmi. C'era una persona, una volta, che avrebbe potuto preoccuparsi per me; ma adesso non più... Tutto sommato va bene così, o almeno è ciò che da anni mi ripeto.

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Pagina 18

Capitolo quarto



Finalmente sono a casa.

L'odore delle mie cose mi accoglie e ne sono felice. Vivo separato dal mondo e possiedo quel tanto che basta per apprezzare una moderata solitudine; per qualcuno sono già oltre il limite dell'eremitaggio, ma non è così, lo giuro. Il mio regno si trova in una verdissima valle incastonata tra boschi e montagne.

Il paese più vicino si chiama Breccia ed è a pochi chilometri da qui, al termine di una serie di curve da Formula Uno. Come forse ricorderete (il caso fece sensazione, tenendo banco sui media per qualche mese), più di vent'anni fa da queste parti si verificò una lunga serie di incendi di origine misteriosa: dapprima solo piccoli focolai, cortocircuiti degli impianti elettrici, perdite di gas nelle cucine, improvvisi roghi nei pagliai. Nulla di veramente pericoloso, ma gli abitanti cominciarono ad avere paura: qualcuno chiamò in causa le strie, le streghe del folklore locale; altri il Monicaccid, una specie di spiritello dei boschi che si diverte a dannare gli umani. Altri ancora cercarono, ma invano, spiegazioni razionali.

Come si usa in questi casi intervennero le autorità, che inviarono a Breccia un piccolo esercito: tecnici dell'Enel, vigili del fuoco, geologi, artificieri, fisici, esperti ambientalisti. Nessuno ci capì un bel niente, anche se le teorie si sprecarono, ipotizzando di volta in volta le cause più disparate, dai campi elettromagnetici a quelli geostazionari, dalle perdite di gas sulfurei alla burla organizzata. Ma gli incendi continuarono, anzi si intensificarono: prendevano fuoco improvvisamente lenzuola stese ad asciugare, auto parcheggiate all'ombra, materassi sui letti, pietanze in tavola, tende, sedie, mobili. Praticamente non c'era abitazione di questo disgraziato paesino di poche centinaia di anime che non fosse stata toccata dal fuoco. Nessuno si fece male, ma la cosa stava prendendo una brutta piega e la gente era disperata.

Io ero da queste parti per scrivere d'altro; all'epoca ero solo un dilettante, una specie di giornalista free lance in cerca di impiego, anche se avevo già in testa quello che volevo fare. La mia idea era sfornare libri-inchiesta facili e poco impegnativi, alla portata di tutti, perfetti per scalare le classifiche. Quello che m'interessava, in poche parole, era far soldi scrivendo, cioè con la cosa che mi riusciva meglio. Mi ero già cimentato con la cronaca nera, con reportage su qualche omicidio eccellente o su clan criminali come la Banda della Magliana; ma presto capii che non era quella la strada che mi avrebbe portato al successo. Provai anche col gossip, ma non andò meglio.

Arrivai a Breccia per fatalità, seguendo le tracce di un latitante della camorra; avevo informatori da quattro soldi che mi spillavano quattrini per notizie rimasticate, ma a quei tempi non me ne rendevo conto. Quando scoprii che stavo per affogare nell'ennesimo buco nell'acqua mi guardai intorno per cercare un salvagente, e fui improvvisamente colpito da quanto stava accadendo.

Erano rimasti in giro ormai pochi colleghi, impegnati a far domande stupide e a far incazzare gli abitanti. La maggior parte dei media aveva già voltato pagina, anche se i fuochi continuavano a scoppiare un po' dappertutto; al resto del mondo non fregava già più niente di Breccia.

Non c'erano spiegazioni plausibili al fenomeno e i più si accontentavano di quelle che erano già state fornite. Fui dunque attratto inaspettatamente dalle potenzialità della storia: improvvisamente avevo un mondo intero da esplorare. A Breccia c'erano mistero, paura, incertezza del futuro, tutti ingredienti eccellenti per storie da leggere la domenica mattina davanti a una ricca colazione. Cominciai a intervistare la gente, ponendo poche essenziali domande ma aprendo le orecchie, e mi scoprii davvero bravo; ascoltai i vecchi del paese, memori di tradizioni e leggende, ma anche i giovani, che con il loro scetticismo offrivano un punto di vista non viziato dalla superstizione.

Mi misi, in poche parole, dalla parte di chi viveva in paese da sempre e aveva improvvisamente a che fare con fenomeni inspiegabili, indipendentemente da come la pensasse. Tralasciai le ragioni della scienza e della razionalità, così come tutte le ipotesi formulate fino a quel momento dai tecnici; soprattutto decisi che l'importante non era cercare spiegazioni a quanto stava accadendo, bensì semplicemente narrarlo. Insomma, diedi ascolto al popolo; e il popolo, antico e scaltro, mi raccontò non una ma mille storie.

In breve raccolsi materiale per un libro interessante, forse non molto scientifico e con poche prove degne di questo nome, ma di sicuro effetto; scrissi del monacello infuriato, delle streghe che infestavano i boschi di Breccia e che forse erano la causa di quello che era accaduto. Raccolsi leggende e testimonianze. Qualcuno, se vogliamo dirla tutta, mi procurò anche fotografie recenti del Piccolo Popolo che viveva da secoli indisturbato su quelle montagne; mi piacquero e le commentai con note a margine. Spolverai il tutto con un po' di ironia, tanto per mantenere le distanze, e tirai fuori agevolmente trecento cartelle di testo.

Il libro balzò subito in testa alle classifiche e francamente fu una fortuna inaspettata, sia per me che per il mio editore. Non sapevo esattamente a cosa dovessi questo exploit, ma una cosa mi era chiara: avevo trovato la mia strada.

Per la cronaca, i fuochi improvvisi e misteriosi smisero di manifestarsi, sparendo di colpo così com'erano iniziati. Nessuno seppe trovare una spiegazione a quel capriccio del destino, che pian piano sparì dall'attenzione e poi dalla memoria del grande pubblico. Io però, nel frattempo, avevo scritto il mio libro e Breccia mi rimase nel cuore. Qualche best seller più avanti, quando il mio successo si consolidò ed ebbi abbastanza soldi da poter spendere senza più alcuna preoccupazione per il futuro, mi tornò in mente un vecchio casale da ristrutturare, nel mezzo di una splendente radura, a pochi chilometri dal paese. Lo acquistai e divenne la mia casa, il luogo dove adoro tornare quando posso, per isolarmi da tutto e da tutti. Io per lavoro viaggio continuamente e ormai amo la mia vita da zingaro di lusso; ma lo sperduto casale di Breccia è il mio punto fermo.

Sono a casa... Ma la gioia sfuma davanti a un mucchio di lavoro arretrato. Idee da mettere in ordine. Appunti da sistemare. Un nuovo libro da terminare. E poi ho intenzione di tornare in quel paesino tra i campi di grano, dove c'è ancora qualcosa da cercare. E devo fare i conti con questo strano infarto di cui non ho memoria: dovrei chiamare il mio medico per sottoporgli un paio di quesiti, magari per chiedergli come mai non si è mai accorto della mia presunta cardiopatia...

Invece non faccio nulla di tutto questo: mi sdraio sul mio divano, accendo il televisore, do fondo alle scorte alimentari, programmando di passare così i prossimi giorni.

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Capitolo quattordicesimo



Vicolo Atina è uno stradello piacevole, delimitato da case a tre piani, giardini, siepi curate, buganvillee che si sporgono verso i passanti, cancelli e vialetti che fanno pensare a esistenze serene, ben protette. Il rumore della città qui è come attenuato. Mentre risalgo la serpentina della strada realizzo che non è questo il luogo in cui è stato girato il video; probabilmente la location di quell'incubo è una delle arterie consolari che precipitano verso il centro, tra palazzoni e piazze austere.

L'indirizzo però è giusto. Sul citofono del villino bifamiliare che scovo al civico 38 c'è il cognome Guelfi scritto a mano con bella grafia. Un tocco femminile e gentile nello svolazzo della G e della F.

Vedo un cancello basso, un vialetto, un andito protetto da vetrate e verniciato di recente di giallo ocra. Consulto l'orologio: sono le 17,30. Mi sembra di essere stato fedele alle disposizioni. Spingo il pulsante del citofono; non avverto suoni, ma quasi subito una persiana al pianoterra sbatte, come se qualcuno fosse rimasto dietro la finestra a scrutarmi e al mio gesto avesse sussultato, lasciando andare le ante. Aspetto, finché il suono elettrico del cancello che si apre non mi invita a entrare.

Mentre percorro il vialetto, la vetrata fumé che ripara il portone si schiude per metà. Una ragazza mette il naso fuori e mi guarda. È carina, ha occhi grandi, azzurri, e lisci capelli biondi. È scalza. Molto giovane. Ma lo sguardo che mi lancia è cupo, troppo per una ragazzina.

— Chi cerca? – anche la sua voce è più scura di quanto dovrebbe. È roca, come se avesse urlato fino a poco prima.

— Luca – rispondo. – Luca Guelfi.

La ragazza indietreggia di colpo, come se qualcuno l'avesse strattonata. Poi si sporge di nuovo con una strana luce in quegli occhi blu: – Aspetti – mi dice, con un tremito nella voce.

Obbedisco, fermandomi al centro del vialetto, in preda a un vago presagio. Le cose cattive si annunciano spesso con piccoli particolari fuori posto. Increspature. Un attimo dopo, un uomo e una donna appaiono sulla porta; sono giovani, meno di cinquant'anni, ma hanno il volto segnato da pieghe che li fanno sembrare decrepiti. Lui indossa una fiacca tuta da ginnastica su logore sneakers. Non sono dotato di facoltà paranormali, ma so già quello che sta per accadere. Conosco le parole esatte che stanno per pronunciare: – Siamo i genitori di Luca – dice l'uomo. – Luca è morto.


È un'abitazione ricca, nel senso letterale della parola. Trabocca. I mobili sono di pregio, ma troppo scuri e massicci. Decine di quadri, anche di valore, si contendono scampoli di spazio sulle pareti; ovunque si ammucchiano soprammobili e cornici d'argento colme di foto. Nel salotto l'aria sembra risucchiata da quella quantità di oggetti e dalle tende pesanti, che lasciano trapelare appena un filo di luce dorata. L'atmosfera è soffocante, eppure è tutto netto, pulito, privo di odori, come se qualcuno lustrasse con furia maniacale quel salone, senza sosta, per impedire anche a un solo granello di polvere di corromperne il cupo splendore.

Dappertutto c'è traccia di Luca, che si affaccia da istantanee prese sulla neve, in riva al mare, in angoli di città che non conosco. Spesso sorride, ma anche quando è serio esprime tutta la vitalità e la gioia di un ragazzo che ha poco più di vent'anni e nessuna intenzione di morire.

Eppure Luca è morto. E quando suo padre me lo ripete gli occhi di sua moglie lo fulminano, con ira spaventosa.

È morto: suo padre me lo dice ancora una volta, come se lui stesso non credesse a una simile assurdità. Mi affianca toccandomi leggermente un gomito, quasi avesse paura che io possa fuggire: — Lei lo conosceva?

Non so cosa rispondergli. Certo, non posso confessargli che mi ha telefonato qualche ora fa per darmi appuntamento qui.

Non prima delle 17. Sa, devo morire.

La ragazza che mi ha aperto è seduta a gambe incrociate su una poltrona, come in attesa. Ha gli occhi lucidi di pianto. Deve essere la sorella di Luca; ha preso i colori chiari dal padre, mentre il fratello doveva assomigliare alla madre.

I genitori di Luca restano in piedi, accanto a un tavolo rotondo che straripa di ninnoli d'argento e foto del ragazzo. Non mi invitano a sedere, si limitano ad aspettare. La donna è silenziosa e segue passo passo il marito, sempre attenta e protesa verso di lui; ma non c'è benevolenza nel suo sguardo.

— Quando è successo... ? — domando, cautamente.

Nell'espressione del padre si accende una luce di sospetto: — Quando? Dieci giorni fa. Dieci giorni... — scuote la testa, come per farsi una ragione di quel tempo già passato e di tutto quello che dovrà ancora passare. Poi mi fissa e ripete: — Ma lei lo conosceva?

— Veramente no; non di persona, almeno... Luca aveva venduto tramite Internet un video a un mio cliente e avevo bisogno di alcune informazioni da lui.

Non so come proseguire, ma noto che la ragazzina solleva la testa di scatto e mi fissa, adesso senza più lacrime ma mordendosi un labbro, come chiedendosi chi diavolo sia questo sconosciuto che sta rimestando nel loro dolore.

Il padre mormora, con un'espressione assente: — Avrebbe dovuto conoscerlo, allora... Era un così bravo ragazzo E si porta una mano al volto, scosso da profondi singhiozzi.

— Smettila! — urla la moglie. — Lo sai che non è vero.

Il marito lascia scivolare le mani dal viso, con strana rassegnazione: — Lucia, ti prego... Non fare così...

— Non è morto — sibila lei e tu lo sai... Luca non è morto... Non è morto!

La donna fugge via, districandosi in quel labirinto di mobili e suppellettili, perdendosi nella casa. Il marito la segue solo con lo sguardo. Nemmeno la ragazza si è mossa e insiste nel fissarmi con aria sospettosa.

— Mi dispiace... — comincio a dire, ma l'uomo mi interrompe con un gesto.

— No, ci perdoni lei. Lucia non è più in sé. E poi, sa, quelle maledette telefonate... Mia moglie dice che è lui, che riconosce la sua voce, ma a me non sembra Luca. No, non può essere lui: il mio Luca non avrebbe detto quelle cose crudeli al telefono.

Mentre apro la bocca per chiedere, per capire, il mio cellulare squilla. E lo sguardo che l'uomo e la ragazza lanciano all'apparecchio potrebbe bastare da solo a farmi scappare da quella casa per sempre.

E invece non posso far altro che rispondere.

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