Copertina
Autore Maurizio de Giovanni
Titolo Il giorno dei morti
SottotitoloL'autunno del commissario Ricciardi
EdizioneFandango, Roma, 2010, , pag. 400, cop.fle., dim. 13x18,4x2,2 cm , Isbn 978-88-6044-167-6
LettoreAngela Razzini, 2010 18
Classe gialli
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

I


Quando l'alba tirò fuori dalla notte e dalla pioggia i contorni delle cose, se qualcuno fosse passato avrebbe visto il cane e il bambino ai piedi dello scalone monumentale che portava a Capodimonte. Ma sarebbe stata necessaria grande attenzione: a stento si distinguevano, nella luce incerta del primo mattino.

Se ne stavano là, fermi, indifferenti alle grosse gocce fredde che cadevano dal cielo. Erano seduti sullo scalino di pietra, nella rientranza ornamentale dopo i primi gradini. Le scale erano un torrente d'acqua in piena che trasportava rami e foglie dal bosco della reggia.

Se qualcuno fosse passato e si fosse fermato a guardare, si sarebbe forse chiesto come mai il flusso dell'acqua e dei detriti che incessante cadeva a valle sembrasse rispettare il cane e il bambino, passandogli accanto senza toccarli se non per qualche schizzo occasionale. La rientranza offriva un po' di riparo, anche dalla pioggia: solo il pelo sul dorso del cane ogni tanto aveva un fremito, come un brivido di vento.

Qualcuno avrebbe potuto chiedersi che cosa facessero là il cane e il bambino, fermi nella fredda alba di un autunno pieno di pioggia.

Il bambino era grigio, i capelli attaccati alla testa dall'acqua, le mani in grembo e i piedi sospesi a pochi centimetri dal suolo, la testa lievemente reclinata, gli occhi persi come dietro a un sogno o a un pensiero. Il cane sembrava dormire, la testa appoggiata sulle zampe, il mantello a macchie marroni zuppo, un orecchio sollevato, la coda ferma lungo il fianco.

Qualcuno si sarebbe chiesto se stessero aspettando l'arrivo di qualcuno. O se stessero ripensando a qualcosa che era accaduto, e che aveva lasciato il segno nella memoria. O ancora se ascoltassero un suono, una musica lieve.

Ora la pioggia rinforza, uno scroscio forte come una ribellione al sorgere del sole; il cane e il bambino non reagiscono, la furia dell'acqua li lascia indifferenti. Dal naso dell'uno e dall'orecchio sollevato dell'altro scorrono rivoli freddi.

Il cane sta aspettando.

Il bambino non ha più sogni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 71

XI


Rosa Vaglio fissò il cappello con due spilloni, prese l'ombrello e uscì, richiudendo la porta con tutte le mandate. Doveva solo comprare alcune cose là attorno, ma non si fidava: anche se in giro si diceva che tutto era sicuro, quello era un quartiere che faceva paura.

In realtà era tutta la città, che faceva paura. Quasi dieci anni che si erano trasferiti e non si era ancora abituata a tutta quella gente, sempre in movimento, e al fatto che si poteva uscire ogni giorno per ore senza mai incontrare qualcuno che si conosceva.

Al paese, Fortino nella bassa provincia di Salerno, quasi in Lucania, non era così. Tutti sapevano tutto di tutti: non capitava mai che ci fosse un forestiero, e quando capitava lo si guardava come se avesse avuto due teste, finché quello non si sentiva in imbarazzo e se ne andava, e si era contenti. Non si aveva nessun bisogno di forestieri, al paese.

E c'era rispetto. Quando camminava per la via principale (l'unica via, se è per questo) tutti si scappellavano, davanti alla tata del barone di Malomonte. Lei lo sapeva e incedeva fiera, la testa alta e lo sguardo rivolto avanti. Nessuno si permetteva di rivolgerle la parola, se non era lei per prima a parlare. Lei era quella che era stata scelta per crescere il prossimo barone, e tanto bastava. Faceva il giro delle masserie e dei coloni, controllava che nessuno rubasse, che tutti conservassero per la famiglia che viveva nel castello i migliori prodotti, i maiali, i formaggi. Così doveva essere, e così era.

Scendendo con circospezione i gradini del palazzo, Rosa sospirò pensando a come doveva essere ora che tutto era abbandonato a se stesso. In passato la sua presenza era sufficiente a far tremare di paura contadini grandi e grossi, che sapevano bene come il suo occhio lungo fosse in grado di scoprire qualsiasi magagna. D'altra parte qualcuno doveva pur pensarci. Il barone era morto da anni, la povera baronessa, che Dio l'avesse in gloria, non era mai stata capace di occuparsi di queste cose.

Come ogni volta, sorrise intenerita al ricordo di quella donna sottile e dolce, dal viso di bambina e dai bellissimi occhi verdi. Appena l'aveva conosciuta, una domestica ventenne dalle braccia forti e dalle guance rosse, aveva deciso che sarebbe stata la tata di suo figlio, quando ne avesse avuto uno. C'erano voluti molti anni, nei quali aveva assistito la baronessa aiutandola a mandare avanti la casa nei lunghi periodi in cui le emicranie e l'astenia la costringevano a letto. E poi era nato il bambino.

Il suo bambino.

Rosa se n'era fatta carico immediatamente, con semplicità e senza tante storie. Gli regalò la sua vita da subito, come se fosse nata per questo, come se gli anni vissuti prima di vederlo fossero stati solo una lunga preparazione.

Lo aveva amato senza riserve, senza obiettività, senza dubbi. Come le aveva detto la baronessa, prima del lungo ricovero e poi della morte, doveva fargli da madre; e così fu.

Non che lo capisse, pensò mentre dal portone guardava l'acqua cadere a catinelle. Non lo aveva mai capito. I perenni silenzi, gli sguardi nel vuoto, le improvvise malinconie. In tutto e per tutto uguale alla madre, gli stessi occhi verdi trasparenti, aperti su un mondo che vedevano solo loro. Ma il compito di Rosa non era capire Luigi Alfredo Ricciardi, barone di Malomonte: era pensare a lui, e fare in modo che non gli mancasse niente.

Era questo che la preoccupava. Il tempo passava, ormai aveva più di settant'anni e lui trentuno: un'età in cui la maggior parte degli uomini aveva da tempo una famiglia, dei figli. E lui, nemmeno una fidanzata.

Nella sua semplicità Rosa capiva che i sentimenti c'erano, in quel cuore rinchiuso. Lo vedeva sera dopo sera fissare una certa finestra, quando credeva che lei dormisse, nella sua stanza; lei invece si alzava e, in punta di piedi, sbirciava dallo spiraglio che lasciava per sentirla russare.

E allora perché persisteva in questa assurda solitudine? Anche sapendo di guardarlo con gli occhi dell'amore, lo vedeva bellissimo, sensibile, buono; ricco, pur se assolutamente (e, per lei, colpevolmente) disinteressato alle sue sostanze. Non gli mancava nulla per affascinare la migliore delle donne.

Ma il signorino, così lo chiamava, si comportava come se avesse fatto un voto: nessuna donna, nessuna famiglia.

Lei pensava fosse un suo dovere fare in modo che il nome dei Malomonte si perpetuasse. Riteneva un crimine mettere fine consapevolmente a una famiglia così antica. Ma cosa avrebbe potuto fare?

Un paio di mesi prima si era accorta che dietro una certa mattonella smossa, in camera da letto, il signorino aveva nascosto un libro. Con fatica, perché conosceva solo i numeri e le lettere grandi, aveva copiato il titolo, e se lo era fatto confermare dalla parrucchiera che era andata a scuola dalle suore per un paio d'anni: "il moderno segretario galante". Si era informata e aveva scoperto che si trattava di una raccolta di modelli di lettere d'amore.

Non sapeva leggere, ma due più due lo sapeva fare: dietro la finestra di fronte si sedeva a ricamare Enrica Colombo, la prima figlia del commerciante di cappelli di via Toledo. E il signorino la guardava ricamare.

Non sapeva se all'acquisto del libro fosse seguito il suo utilizzo, ma sperava fortemente che così fosse: la ragazza sembrava brava e onesta, e a quanto le risultava la famiglia era buona. La parrucchiera, che faceva da giornalino del quartiere, le aveva maliziosamente raccontato che Enrica aveva rifiutato un aspirante fidanzato proposto dalla madre, un giovanotto ricco e di bell'aspetto: lei aveva tirato un bel sospiro di sollievo, commentando tra sé che nessuno poteva essere bello come il suo signorino. Quello che non poteva sapere era che la parrucchiera funzionava a doppio senso, e che quindi un'Enrica che pendeva da quelle labbra aveva saputo dell'interesse di donna Rosa, la tata del commissario Ricciardi, per le sue questioni di cuore.

Stretto lo scialle al collo e aperto l'ombrello, Rosa si avventurò per strada sotto la pioggia, pensando che per i molteplici dolori delle sue ossa tutta quell'umidità era una condanna. Doveva fare qualcosa, pensò. Il destino fa quello che vuole, ma a volte va aiutato: la ragazza se ne stava contegnosa ad aspettare che lui si facesse avanti, era evidente, e lui aspettava che la propria timidezza di sciogliesse. È una parola! Non sarebbe successo mai, e alla fine lei si sarebbe stancata e avrebbe accettato la corte di qualcuno: sarebbero stati due infelici, a due metri l'uno dall'altra senza il coraggio di parlarsi.

Ma che avrebbe potuto fare?, pensò mentre caracollava sotto l'acqua verso il negozio di spezie e granaglie per comprare un po' di ceci. Come poteva attaccare discorso con la ragazza, e spiegarle che quel mammalucco del suo signorino l'amava in silenzio e da lontano senza il coraggio di vivere?

Mentre attraversava la strada due occhi, dietro gli occhiali e una finestra, la videro e la loro proprietaria si fiondò verso l'anticamera e, preso un cappellino a caso e un ombrello, si precipitò per le scale.

Rosa stava pensando che Ricciardi non portava il cappello e che quindi non si poteva nemmeno organizzare un incontro commerciale col padre di Enrica quando, proprio fuori il negozio di spezie, se la trovò di fronte che educatamente le cedeva il passo.

Fissandola in faccia, esibì il suo miglior sorriso. Ora o mai più, pensò.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 186

XXVIII


Correva attraverso le strade e i vicoli. Correva a piedi nudi, scansando automobili e carrozze, tram e carretti. Correva attraverso il mercatino, saltando ostacoli e urtando grasse signore che sceglievano le mele. Correva sui marciapiedi, schizzando l'acqua dalle pozzanghere addosso a impiegati che andavano al lavoro cercando di tenere i pantaloni asciutti, e attirandosi così imprecazioni e bestemmie.

Cristiano correva, senza curarsi di chi o che cosa incontrasse sulla sua strada, o della gelida pioggia sottile che attraversava; correndo si riscaldava, e respirare l'acqua gli piaceva.

Correva perché stava cercando qualcuno, e andava dall'uno all'altro posto in cui questo qualcuno poteva trovarsi. Finché lo trovò

Cosimo Capone faceva il saponaro. Un mestiere che ne comprendeva molti altri, come diceva sempre. Teoricamente si basava sul baratto, roba vecchia contro roba vecchia, e conguagli da pagare con pietre di sapone bruno dalla forma irregolare, difficili a maneggiarsi quanto a sciogliersi. Teoricamente. Nella pratica, Cosimo chiacchierava.

Chiacchierava con tutti, ma specialmente con le donne. Sapeva di essere affascinante, con il suo bel sorriso e la sua facilità di parola, e che alle massaie e alle lavandaie un paio di complimenti detti bene aprivano il cuore; insieme al cuore, invariabilmente si aprivano i borsellini. Se poi al rassicurante carretto strabordante di pentole di rame e vestiti logori si aggiungeva una bella canzone, il gioco era fatto.

Secondo Cosimo essere accompagnati da un ragazzino lacero era una grande idea, per chi faceva il suo mestiere; e più gracile e denutrito sembrava, meglio era. Le donne sono madri, o vorrebbero diventarlo: un bambino in cattive condizioni è un richiamo irresistibile alla pietà, e quindi alla generosità. Se poi il bambino dimostra molto meno dell'età che ha, non riesce a parlare perché è fortemente balbuziente ed è accompagnato da un cane randagio messo peggio di lui, la condizione diventa ideale.

Tettè costituiva per Cosimo una vera miniera d'oro; di volta in volta lasciava pensare che era suo figlio e che la madre era morta di parto, o che l'aveva raccolto per strada, o che era il figlio di un compagno d'armi, perito in guerra. Era abilissimo a comprendere le sfumature di dolore nella vita della donna che si avvicinava al carretto e a toccarne le corde più riposte; le contrattazioni si ammorbidivano e il ricavato era sempre largamente maggiore di quanto sarebbe stato giusto attendersi.

Ma non era questo, l'unico motivo per il quale Tettè era l'aiutante ideale: per l'altro motivo, il più importante, erano stati necessari mesi di addestramento. Un investimento di tempo e sforzi che aveva da poco cominciato a dare i suoi frutti, e che Cosimo, da coscienzioso imprenditore, non era disponibile a perdere rassegnandosi facilmente.

Quando Cristiano, fradicio di pioggia e senza fiato, lo raggiunse, Cosimo stava imbonendo una diffidente dama di mezza età sporta a metà dalla finestra del basso. "Signo', voi stamattina siete uno spettacolo: gli occhi miei non vi possono guardare, che rimangono abbagliati e poi non posso camminare per i vicoli, che vado a sbattere col carretto in faccia al muro. Ma come fate, ditemi, a mantenervi tanto bella?"

La donna, dotata di barba e baffi quanto un cadetto e pesante come un carico di mattoni, strizzò gli occhi: "Stamattina non mi incantate, Cosimo. Io questi due stracci tengo, e mi serve una pietra grossa di sapone. Se me la volete dare bene, se no fate spazio che col carretto davanti alla finestra mi manca l'aria".

"Donna Carme", piagnucolò lui, "voi così mi volete rovinare! Un pezzo grosso vale una camicia, e in buone condizioni: o almeno un tegame non bucato. Che me ne devo fare, di queste due pezze logore? Metteteci almeno cinque centesimi vicino, e me ne fate andare contento! Non vi approfittate che sono innamorato di voi!"

La donna si dimostrava un osso durissimo: distava trent'anni dall'ultimo complimento sincero, e non si lasciava prendere in giro.

"Niente da fare. Allora, decidetevi presto presto, che tengo che fare."

In quel momento Cosimo si accorse della presenza di Cristiano, che ritrovato il fiato gli disse:

"Don Co', ci lavoro io con voi, ci vado io nelle case, quello il cacaglio non ci viene più!".

Donna Carmela chiuse gli occhi a fessura e con aria ancora più diffidente chiese:

"Che dice, la creatura? In quali case deve andare?".

Con la rapidità di un serpente a sonagli, il braccio del rigattiere scattò a ghermire la spalla di Cristiano con una stretta violentissima. Il bambino tacque immediatamente.

"No, e quello chi sa per chi mi ha preso, donna Carme'. Io manco lo conosco, a 'sto scugnizzo. Voi lo sapete, con me tengo solo al mio figlioccio, Tettè. Ve lo ricordate, no?"

Il volto arcigno della donna si rischiarò in un imprevisto sorriso:

"E come no, quel bambino così bello e tranquillo, col cagnolino bianco e marrone. Sempre educato, che fa l'inchino se gli do un biscotto. Come mai non c'è stamattina?".

Cosimo fece la faccia preoccupata, senza mollare la spalla di Cristiano:

"Sta malato, un poco di febbre. Se non si sente bene non lo faccio uscire, con questo tempo, vi pare? Voi pure tenete figli, no, donna Carme'? Mi potete capire, insomma."

La donna tornò diffidente, ma si era un po' ammorbidita al pensiero di Tettè:

"No, figli non ne tengo, non mi sono mai sposata, perché non ci stava nessuno che mi andava bene. Però tengo i nipoti, e il bambino vostro mi ricorda un nipotino che morì, tanti anni fa. Va be', non perdiamo tempo, eccovi i due stracci e la moneta da cinque, datemi il sapone e iatevenne, che tengo che fare".

Completata la transazione la donna richiuse con un secco rumore la finestra. Cosimo sputò a terra con astio, e girato l'angolo cominciò a scuotere Cristiano:

"Chi ti ha detto di parlare, a te? Come ti sei permesso di rivolgermi la parola? Ti dovrei ammazzare con le mani mie!

Il ragazzo stava zitto a occhi spalancati: era terrorizzato. Cosimo continuava, sibilando:

"Lo sai che sono capace, eh? Lo sai bene. Dove sta l'amico tuo? Perché sono tre giorni che non si vede, lui e quel cane schifoso? Se poi si presenta e va trovando di mangiare, gli spezzo quelle quattro ossa una a una, lo giuro su Dio!".

Cristiano prese fiato e disse, parlando fitto:

"Don Co', quello il cacaglio non viene più: è morto. Si è mangiato il veleno per i topi ed è morto, l'hanno trovato al Tondo di Capodimonte. Allora io volevo venire al posto suo, con voi, che dal ciabattino non ci voglio andare più. Io sono veloce, corro: e quel fatto là nelle case lo posso fare pure meglio di lui!".

Cosimo sbiancò mortalmente in volto; si guardò attorno terrorizzato e, assicuratosi che non ci fosse nessuno a sentire o a guardare, prese Cristiano per il collo:

"Che vai dicendo? Come, è morto? E chi lo ha saputo? E poi, che vuol dire con 'quel fatto là nelle case'? Che ne sai, tu, con chi hai parlato?".

Cristiano adesso aveva veramente paura: non aveva previsto quella reazione del rigattiere, e nel pezzo di vicolo dove l'aveva portato non c'era nessuno a cui chiedere aiuto. Da animale da strada sapeva riconoscere la fredda determinazione negli occhi dell'uomo, e capì che era in pericolo di vita.

"No, no, lasciatemi, io non dico niente a nessuno. E non lo sa nessuno, a me l'ha detto il cacaglio, che qualche volta mentre faceva il giro con voi si buttava nelle case e acchiappava qualcosa, mentre le femmine parlavano con voi. Ma me l'ha detto solo a me, giuro, e io non lo dico a nessuno. Lasciatemi, però. Io ho detto al prete che venivo un attimo a parlare con voi, e subito tornavo."

Cosimo pensò velocemente, e allentò la presa. Sulla gola di Cristiano si vedeva l'impronta livida delle sue dita. Si passò la mano davanti alla faccia per asciugare la pioggia: era stato a tanto così dall'ammazzarlo.

"E tornaci, allora, dal prete. E non ti fare vedere mai più da me. Ricordati, però: se qualcuno saprà qualcosa, io ti vengo a pigliare dovunque stai, e finisco quello che avevo cominciato stamattina. Mi hai capito bene? E mo' vattenne!"

Cristiano non se lo fece dire due volte, e si mise a correre scivolando sulla strada bagnata.

Cosimo si lasciò cadere sul carretto, con un lieve clangore di pentole di rame. È morto, quindi, pensò. È morto.

E adesso, come faccio?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 216

XXXII


Chi fosse entrato nell'ufficio al secondo piano della questura, in fondo al corridoio, avrebbe visto un solerte vicequestore nell'atto di spulciare alcuni rapporti in un ambiente luccicante di ordine e pulizia. Un vero inno all'efficienza e all'attaccamento al lavoro del Nuovo Stato Fascista.

La realtà era un po' diversa. Gli occhi seguivano le righe dattiloscritte, ma la mente volava per fatti suoi dietro cupi pensieri.

Garzo gettò di sfuggita un'occhiata all'apparecchio telefonico piazzato sulla scrivania. Risentì l'odiosa voce nasale del questore, che l'avvertiva del prossimo arrivo di un funzionario di un'organizzazione non meglio identificata; l'uomo avrebbe dovuto ricevere da lui alcune notizie, nella prospettiva della prossima visita del Duce, in merito alla sicurezza e più in generale alle indagini in quel mmento in corso presso la questura, con riferimento naturalmente al crimine ordinario, che era quello che gli competeva.

La cosa non gli piaceva, neppure un po'. E per diversi motivi. Primo: qual era questa organizzazione? Non aveva un nome? Era una struttura del Ministero dell'Interno? Si trattava di una qualche branca dell'esercito? Secondo: che significava, "con riferimento naturalmente al crimine ordinario"? Qual era l'altro o gli altri crimini sotto osservazione, per i quali la questura non era competente? Terzo: La sicurezza oggetto dell'intervista era quella del Duce e del suo seguito? E chi era questo funzionario? Come l'avrebbe riconosciuto, se non gli era stato detto un nome?

Il vicequestore era uno di quelli che non riuscivano a sopportare gli imprevisti: gli davano un senso di disordine, gli impedivano di pianificare. Gli piaceva muoversi nel solco tracciato dalle procedure, quando ogni evento aveva un precedente al quale rifarsi e uno schema da seguire pedissequamente. E questa visita, annunciata e non annunciata, non aveva, a sua memoria, alcun precedente.

Mentre scorreva il rapporto senza leggerlo, sentì un discreto colpo di tosse alla sua destra. Fece un salto spettacolare: la penna gli volò di mano, tracciando una striscia d'inchiostro in aria e poi una pioggerella di gocce nere sul ripiano della scrivania; gli occhiali caddero, fortunatamente senza rompersi, e gli venne fuori un urlo in falsetto piuttosto mortificante.

Davanti a lui, in piedi col soprabito sul braccio e in mano un ombrello chiuso, stava un uomo di mezza età con pochi capelli brizzolati e un abito scuro piuttosto ordinario.

"Chi... chi accidenti siete, voi? E che ci fate, qui dentro? Come siete entrato? Ponte! Ponte!"

Lo sconosciuto fece un mezzo sorriso.

"Calmo, dottore. Nessun problema. Ponte non c'è, gli è stato detto di andare in pausa, prima del mio arrivo. Un ordine da parte vostra, che ci farete la cortesia di confermare. Io sono la persona che aspettavate. Potete chiamarmi Falco. Appartengo a quell'organizzazione che sta predisponendo quanto necessario alla visita del Duce."

Garzo non aveva ripreso fiato e continuava a guardare il sedicente Falco con gli occhi fuori dalle orbite:

"Ma... ma... non è questo il modo! Non siete abituati a bussare alle porte, voi? Poteva prendermi un colpo!".

Falco non accennò a scusarsi.

"Non possiamo trattenerci a lungo in un corridoio, dottore. Questo comporta, a volte, un atto di apparente maleducazione. Vogliamo venire a noi, adesso? Immagino che vi sia stato già detto quello che ci serve sapere."

Ritrovato un minimo di controllo, Garzo cercava di pensare più velocemente possibile. Questa specie di spettro che gli si era parato davanti era sicuramente della polizia segreta, di cui si favoleggiava in tutte le questure e sui giornali sediziosi stampati in segreto e gettati alla folla di nascosto. Ciò implicava che doveva stare attento, molto attento: aveva sentito di persone e persino di famiglie intere sparite nel nulla, che dalla sera alla mattina non avevano lasciato alcuna traccia dietro di sé. Bisognava compiacerli.

Esibì uno sghembo sorriso, si rimise gli occhiali sul naso e disse:

"Prego, accomodatevi e ditemi pure".

Oltre tre ore dopo avevano minuziosamente pianificato ogni singolo attimo della visita del Duce, valutando percorsi alternativi a quelli che sarebbero stati annunciati, persone presenti agli incontri, momenti istituzionali e privati. Molte volte, quando Garzo manifestava preoccupazione in merito alla disponibilità di uomini, Falco sorvolava dicendo:

"Non c'è alcun problema, su questo. Non vi preoccupate".

Il vicequestore si rese conto che ci sarebbe stato un contingente molto nutrito a fare da nastro protettivo, in incognito e senza divisa. Ciò gli trasmetteva ansia, invece di rassicurarlo; ma capiva che era meglio eccedere in prudenza che difettare.

Alla fine Falco, che non si era nemmeno sbottonato il panciotto, chiese:

"E ditemi, adesso, dottore: quali e quante indagini per crimini seri ci sono in corso, in questo momento? Ci piace avere tutta la situazione sotto controllo, come avrete capito, e non vogliamo certo che qualche nodo arrivi al pettine proprio quando sono presenti la massima carica dello Stato dopo il Re e tutti i maggiori funzionari del ministero, no?".

Garzo fronteggiò fiero lo sguardo dell'uomo:

"No, certo. Grazie al cielo non ci sono stati eventi recenti, e le indagini in corso concernono reati minimi e contro il patrimonio. Questa città, caro signore, è mantenuta in perfetto ordine".

Falco lo fissò in volto per un lungo, imbarazzante momento in seguito al quale sul collo di Garzo si formò la famosa chiazza rossa e cominciò a espandersi verso nord. Alla fine annuì e disse:

"Va bene. In effetti così ci risulta. E l'organico è tutto presente?".

Garzo prese i registri del personale e li squadernò davanti all'ospite:

"Abbiamo sospeso i turni di ferie. L'unico assente è il commissario Ricciardi Luigi Alfredo, che ha chiesto qualche giorno di vacanza ma rientrerà in servizio il giorno prima della visita del Duce. Abbiamo ritenuto di autorizzarlo perché frequenta... cioè, è in amicizia con una persona vicina alla famiglia stessa di Sua Eccellenza, amica della figlia, che terrà un ricevimento al quale donna Edda dovrebbe essere presente".

Falco assunse un'aria pensosa:

"Ah, la signora Ciano. Quello è un altro problema, che però non vi riguarda direttamente. La signora è molto meno controllabile di Sua Eccellenza, purtroppo. È insofferente a ogni forma di accertamento e molto dinamica e intraprendente. Va protetta a sua insaputa".

Garzo valutò immediatamente che qualsiasi commento avrebbe potuto essere usato contro di lui e tacque. Falco continuò:

"Sappiamo, naturalmente, di questo ricevimento. E sappiamo di questo Ricciardi, della sua amicizia con la signora... Vezzi, vero? La vedova di Arnaldo Vezzi, che è arrivata da poco in città. Una bellissima donna, molto apprezzata a Roma. Il vostro Ricciardi è un uomo fortunato".

Garzo credette di aver fiutato l'aria e commentò entusiasta:

"Uno dei nostri uomini migliori, credetemi. Capace e fidato, per me è un aiuto indispensabile. Non so quante volte, con le mie indicazioni naturalmente, è riuscito a chiudere indagini intricatissime".

Falco annuì:

"Certo, certo. Mi risulta anche questo. Ma non tutte le sue frequentazioni sono così apprezzabili; alcuni personaggi a lui vicini ci lasciano un po' perplessi, in verità. Il medico legale, Modo, per dirne uno. Un uomo che non perde occasione di gridare ai quattro venti pesanti critiche al regime. Il che, come potete immaginare, non ci fa piacere".

Garzo boccheggiò come una triglia in punto di morte e si produsse in un formidabile dietrofront.

"Ah, ma io non ho alcun rapporto con Ricciardi, al di fuori dal lavoro! Anzi, vi dirò, eccellenza, che quell'uomo ha dei lati oscuri che non mi piacciono. Mi propongo di controllarlo meglio, in futuro, state pure tranquillo."

Falco si alzò con un sorrisetto:

"Non esageriamo, Garzo. E non chiamatemi eccellenza. Anzi, mi userete la cortesia di dimenticare questo nostro incontro, e di fingere di non riconoscermi se, ma è altamente improbabile, ci incroceremo per strada. Buona sera, e divertitevi, con la signora, al ricevimento della vedova Vezzi. Non abbiate pensieri, perché la serata si svolgerà lieta senza alcun imprevisto".

E uscì, silenzioso com'era entrato.

| << |  <  |