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| << | < | > | >> |Pagina 9IIAl commissario Luigi Alfredo Ricciardi non dispiaceva lavorare di domenica, e questa era un'altra delle sue stranezze. I colleghi si defilavano con mille pretesti, quando venivano stabiliti i turni, madri ammalate da accudire, anzianità maturate, millantate necessità familiari: ogni scusa era buona, pur di risparmiarsi il lavoro nel giorno in cui tutta la città faceva festa. Ricciardi invece se ne stava zitto, come al solito, e come al solito gli toccava prendersi il peggio. Non che questo gli fruttasse la benevolenza degli altri, che non perdevano occasione di mormorare alle sue spalle. Solitario, le mani in tasca; sempre senza cappello anche d'inverno; non partecipava alle feste, ai brindisi, non era mai presente alle occasioni d'incontro. Lasciava cadere gli inviti, non stringeva amicizie e non si apriva alle confidenze. Gli occhi verdi spiccavano nel volto bruno, una ciocca di capelli sempre sulla fronte che ravviava con un gesto secco. Parlava pochissimo, con fredde ironie che non tutti coglievano. Ciononostante la sua presenza calamitava l'attenzione. Lavorava senza sosta, soprattutto quando seguiva un caso di omicidio, fra la malevolenza di quei colleghi che non erano in grado di avvicinarsi ai ritmi che imponeva alle indagini: i militari che gli erano assegnati lo maledicevano di nascosto per le ore passate sotto la pioggia o il sole, in appostamenti lunghissimi e talvolta inutili. Commentavano velenosi che ogni volta pareva che gli avessero ammazzato un familiare, si trattasse di un nobile o un poveraccio. D'altra parte le sue capacità erano indiscutibili. Senza seguire le procedure né attenersi alle disposizioni dei superiori, percorreva le sue strade incomprensibili e arrivava sempre al colpevole. Si era sparsa la voce che il commissario Ricciardi parlasse direttamente col diavolo che gli suggeriva i pensieri degli assassini; questo incrementava il vuoto attorno a lui, perché la superstizione era radicata nell'anima della città. Della sua vita nessuno sapeva nulla, o forse non c'era nulla da sapere. Viveva da solo con la sua vecchia tata, non si sapeva di parenti o amici. Niente donne e nemmeno uomini, nessuno che lo avesse incontrato in un bordello o a teatro, mai una serata fuori. Ispirava la diffidenza che sempre ispira chi sembra non avere vizi e quindi non può avere virtù. Gli stessi superiori e in primis Angelo Garzo, il vicequestore, non nascondevano il disagio alla presenza di un uomo che, nonostante le enormi abilità e competenze, non aveva ambizioni. Si diceva che fosse ricchissimo, un latifondista di una terra sperduta, e che quindi non aspirasse a un migliore stipendio. L'unica cosa che sembrava interessargli erano le indagini.
Non che manifestasse una qualche soddisfazione, quando metteva finalmente le
mani sul colpevole. Si limitava a uno sguardo fisso con quegli inquietanti occhi
trasparenti, e poi girava le spalle e passava oltre. A un altro delitto.
Verso altro sangue.
Ricciardi arrivava presto in ufficio, anche quando era di turno la domenica. Nella lunga passeggiata da via Santa Teresa alla fine di via Toledo incontrava meno gente, e questo non gli dispiaceva; la città che si svegliava lentamente, qualche carretto di frutta o latte che percorreva sgangherato la strada, i primi canti delle lavandaie dalle fontane nascoste nei quartieri popolari che attraversava. In questo terribile agosto, oltre due mesi senza una goccia di pioggia, procurarsi un po' di fresco residuo della notte era piacevole nel cammino. Nella semioscurità delle imposte socchiuse, seduto dietro la scrivania, il commissario raccoglieva le idee per la giornata. Gesti meccanici, burocrazia, verbali da compilare, il foglio delle presenze: pochissime, quel giorno. La piazza sotto la finestra era ancora deserta. Un ubriaco cantava rauco: un altro che è di turno di domenica, pensò Ricciardi. La porta era semiaperta, per creare un minimo di corrente d'aria. Lame di luce sul muro, sotto i ritratti ufficiali del piccolo re e del grosso capo del governo. Un gabbiano fece da contrappunto al canto dell'ubriaco, e a Ricciardi parve senz'altro più intonato. Oziosamente guardava dallo spiraglio della porta, verso la porzione di corridoio sulle scale che riusciva a vedere. Anche nella penombra i due cadaveri gli si presentavano nitidi. In piedi, uno di fianco all'altro, uniti per l'eternità dopo essersi appena incontrati in vita. Un monumento alla guardia e al ladro, pensò Ricciardi: Un monumento invisibile, però: quasi per tutti. Dalla sua sedia, a diversi metri di distanza, il commissario vedeva il largo cratere bruciato sul lato della testa del ladro e il piccolo foro di entrata del proiettile sulla tempia della guardia, il rivolo di sangue e di materia cerebrale che scorreva fino al collo; e sentiva il sommesso mormorio dell'ultimo pensiero dei due. Voi non avete turni, pensò con astio. Siete qua ogni maledetto giorno, ad ammorbare l'aria con l'inutile dolore delle vostre giovani vite buttate via. Distolse lo sguardo e si alzò dalla sedia; il caldo andava irrobustendosi minuto dopo minuto, per strada cominciava a sentirsi qualche motore in cammino verso il mare. Andò al calendario e strappò il foglio della giornata precedente. Lesse la nuova data: domenica 23 agosto 1931 — IX. Anno nono. Della nuova Era. L'era dei fiocchetti sui cappelli e degli stivaloni, delle fotografie a tutta pagina in maniche di camicia e con l'aratro. Dell'entusiasmo e dell'ottimismo. Dell'ordine e delle città pulite, per decreto. Magari bastasse un decreto, pensò Ricciardi. Il mondo gira uguale a prima dell'anno Primo, purtroppo: gli stessi delitti, le stesse passioni corrotte. Lo stesso sangue. Gettò uno sguardo al corridoio, ascoltò il mormorio dei pensieri dei morti. Andò a chiudere la porta, come se questo bastasse a escludere l'emozione dall'anima, come se sentisse le parole con le orecchie e non col cuore. Prima di gettarlo nel cestino lesse ancora la data sul foglio strappato dal calendario: anno nono. E invece ne sono passati venticinque, dal mio primo agosto bollente. Venticinque oggi, per essere precisi. | << | < | > | >> |Pagina 111Rosa Vaglio era una di quelle donne d'altri tempi che sfogavano il proprio affetto facendo da mangiare. E siccome era nata poverissima, per lei più si amava più bisognava nutrire, aggiungendo condimento. E siccome amava Luigi Alfredo Ricciardi più di ogni altra cosa al mondo, cucinava per lui delle terribili pietanze che avrebbero ammazzato un toro, se il toro si fosse azzardato a mangiare la sua parmigiana di melanzane.Lo aveva visto la prima volta coperto di sangue, tra le mani della levatrice, con quei bellissimi occhi verdi ancora chiusi. Lo aveva tenuto in braccio prima della sua povera mamma, la dolce baronessa Marta che non c'era più da tanti anni. E lo aveva guardato mille volte giocare, lavorando a maglia o lavando panni con un occhio solo per sorvegliare che non si mettesse in pericolo, silenzioso e temerario com'era sempre stato. Aveva vegliato sul suo sonno inquieto, chiedendosi che cosa di terribile stesse sognando quando lo vedeva sobbalzare e mormorare. Gli aveva baciato mille volte la fronte, alla ricerca di qualche grado di febbre che riconosceva infallibilmente. Alla morte della madre, e anche prima, era diventata l'inflessibile amministratrice delle consistenti sostanze della famiglia, alle quali Ricciardi non si interessava in alcun modo; era lei che teneva, con una grafia grossa e sgraziata, la corrispondenza con i fattori e i mezzadri: non le sfuggiva un centesimo, metteva tutto da parte per poterne rendere conto quando Luigi Alfredo si sarebbe svegliato da questa fissazione di fare il poliziotto e finalmente avrebbe deciso di fare il barone di Malomonte, mettendo su famiglia. Questo della famiglia era il vero, grande cruccio di tata Rosa. La sua mente semplice aveva pochi punti fermi, e uno era che senza figli una vita non poteva dirsi completa. Lei aveva votato la sua a Ricciardi, che era stato più di dieci figli per la pena e le preoccupazioni che le dava con la sua ostinata solitudine; non poteva accettare che lui invece volesse lasciar finire il nome della sua famiglia. Moltissime volte, pur consapevole di diventare petulante e ossessiva, aveva cercato di spingerlo a frequentare persone, a conoscere ragazze, ottenendone in risposta un'alzata di spalle e una carezza. Aveva perfino pensato che il suo ragazzo fosse di quelli disinteressati alle donne: ma il cuore le diceva che non era così, che il problema era che non si sentiva pronto. Doveva solo venire il momento. E ora, dopo tanti anni, Rosa, mentre metteva in tavola una piramide di maccheroni al forno ripieni di ogni ben di dio, pensava che il momento fosse finalmente arrivato. Si era accorta che da un po' di tempo, nell'affacciarsi da camera sua per guardare la ragazza che abitava di fronte, Ricciardi faceva un breve cenno di saluto con la mano. Lui ovviamente non sapeva che lei vedeva da una fessura nello stipite della porta quello che succedeva nella stanza; e d'altronde, come avrebbe potuto altrimenti sapere che stava bene, quando si chiudeva dentro?
E la ragazza, lo aveva visto dalla sua finestra, rispondeva
con un lieve inchino del capo. Il ghiaccio si stava cominciando a sciogliere.
D'altra parte, con quel caldo per il ghiaccio non c'era scampo, pensò Rosa. E
sorrise.
Ricciardi al solito aveva cominciato a sentire l'odore della cucina di Rosa da almeno duecento metri. Era consapevole di avere un olfatto molto sviluppato, ma si chiedeva come fosse possibile che il vicinato non protestasse contro l'ammorbamento dell'aria di cui la sua tata era responsabile. Doveva tuttavia ammettere che gli odori che arrivavano da casa sua non erano peggio del marciume che il caldo tirava fuori dai vicoli vicini. Non c'era scampo, insomma. Lungo il tragitto, dall'incontro con Modo a casa, aveva continuato a rimuginare su quanto aveva appreso dal dottore. Era chiaro che l'assassino era conosciuto dalla duchessa: il catenaccio non forzato, le chiavi riposte nel cassetto, nulla di rotto tra gli innumerevoli soprammobili dell'anticamera. Però una colluttazione c'era stata, lo provavano i segni sul corpo della vittima; e il cuscino sulla faccia, premuto con forza, certamente per non far urlare la duchessa. Forse aveva ragione Maione, che prima di andarsene a casa gli aveva detto che secondo lui lo stesso assassino aveva ricomposto il corpo, per rispetto, per amore. Per amore. Quante cose strane, assurde aveva visto fare per amore. E quanto subdolo, pensava mangiando sotto l'occhio vigile di Rosa, era questo sentimento che si infiltrava nelle pieghe dei pensieri infettando l'anima. Lui aveva combattuto e combatteva, ma non poteva esimersi dal pensare con crescente ansia al suo innocente appuntamento serale, e al lieve saluto che si scambiava con la dirimpettaia. Non avrebbe saputo dire se era meglio o peggio di prima, quando la guardava ricamare di nascosto solo per sorbirne la normalità, come fosse una benefica tisana. Non sapeva nulla dell'amore. Ma se avesse dovuto parlarne, avrebbe detto che si dovrebbe riparare dal male l'oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi ama. Soprattutto se il male è in chi ama. E quindi nel suo caso, se amore era quello che sentiva per Enrica, doveva mantenerla lontana dalla sua maledizione, dal dolore selvaggio e terribile di cui era portatore. Era questo il motivo dello starle lontano, del non cercare un modo per incontrarla, per parlarle guardandola negli occhi o tenendole la mano. Così era stato per oltre un anno, finché il caso non li aveva messi di fronte. E ora quell'emozione pura e gentile, vissuta a distanza di sicurezza, era stata inquinata dall'odore della pelle. Per ventitré ore al giorno Ricciardi avrebbe voluto che si fosse ricostituita la precedente situazione di stallo, insoddisfacente forse, ma almeno tranquillizzante. Per un'ora al giorno, per quell'ora, invece, avrebbe volentieri attraversato in volo i cinque metri che lo separavano da lei per abbracciarla e baciarla mille volte. E adesso quell'ora era arrivata. Col cuore in gola, dopo aver chiuso la porta della sua stanza, Ricciardi si avvicinò alla finestra. | << | < | > | >> |Pagina 207Quando Ricciardi e Maione girarono, l'angolo di piazza Santa Maria La Nova si trovarono di fronte alla consueta rappresentazione di un funerale di rango. Era già arrivato il carro, e di per sé era uno spettacolo. Otto cavalli a due a due, neri, alti e formidabili, che schiumavano per il peso e il gran caldo: sulla testa di ognuno un alto pennacchio, nero come i finimenti. Addestrati appositamente, le bellissime bestie non emettevano alcun rumore: non uno scalpiccio, non un nitrito o uno sbuffo, Dietro, la carrozza vera e propria, un barocco, complesso intarsio di legno e stucco e vetri lucidi. Un ultimo viaggio in grande stile, sotto gli occhi ammirati di tutti. Tranne che del passeggero.La piazza era immersa in un silenzio innaturale. Una folla eterogenea era ammassata a ridosso dei palazzi, della chiesa; solo attorno al carro lo spazio era vuoto, come se le persone non si volessero contaminare con la morte nella sua immagine più popolare. Il vetturino, col suo frac nero a lunghe code e il cappello a cilindro in tinta, attendeva in piedi con la frusta in mano, vicino alla ruota posteriore più alta di lui. Più avanti, nella vana ricerca di una fetta d'ombra, gli otto orchestrali che avrebbero preceduto il corteo suonando marce funebri aspettavano fumando e lamentandosi per il caldo; il sole traeva lampi d'oro dagli strumenti appoggiati a terra. L'arrivo dei due poliziotti causò un mormorio immediato, come se si fosse alzato il vento in un bosco. Dietro gli amici, le autorità e quelli che volevano comunque essere presenti al fianco dell'influente famiglia in quel momento, c'erano centinaia di curiosi: l'omicidio aveva fatto un'enorme impressione, anche se sulla stampa, secondo le direttive, a esso era stato dedicato poco spazio, con riferimenti neppure troppo velati alla possibilità di una semplice rapina andata male. La vita della duchessa, esibita da lei stessa senza pudori, non consentiva riservatezza neppure nella morte. Si attendeva l'uscita della bara dal palazzo. Su richiesta del duca la funzione religiosa era stata tenuta da don Pierino nella cappella familiare, dove all'alba il cadavere era stato trasportato dall'obitorio. A tutti sarebbe quindi stato consentito un saluto nel breve passaggio dal portone al carro, e poi il corteo per il tratto di strada fino al cimitero di Poggioreale. La chiesa grande della piazza reclamava comunque attenzione, col lugubre suono delle sue campane a morto che rimbombava con regolarità. Ricciardi si guardò attorno. In prima fila riconobbe il Prefetto e il Questore con le mogli in mezzo alle altre autorità cittadine. Vicino a loro, un passo indietro ma strategicamente in piena evidenza, Garzo. Gli occhi dei due uomini si incrociarono per un breve momento, nel quale Ricciardi riuscì a rinvenire un muto rimprovero per la sua inopportuna presenza. Il commissario sostenne lo sguardo senza accennare a un saluto. Vicino al carro, appoggiate al muro del palazzo e perfino vicino alla cancellata della chiesa di fronte, c'erano molte corone di fiori; i nastri neri che le addobbavano recavano i nomi delle famiglie che rendevano omaggio. Maione, che come sempre pareva mezzo addormentato, era concentrato sull'atteggiamento contrastante dei gruppi che componevano la folla. Quelli in lacrime, sinceramente addolorati, giovani e ben vestiti, dovevano essere i compagni delle scorribande della duchessa, gli animatori della vita notturna dell'alta società. Non erano in molti. Compunti e a disagio, gli abiti neri e i volti senza espressione, coloro che erano presenti in omaggio al vecchio duca e alla sua famiglia, le autorità e la migliore nobiltà cittadina. Dietro di loro l'immancabile folla di curiosi, attirati dalla fama libertina della morta e dalla sua orribile fine. Il brigadiere cercò Capece ma non riuscì a vederlo, né nelle prime file, ed era comprensibile, né in mezzo alla folla. Forse non se l'era sentita: poteva capirlo. Dalla metà aperta del portone venne fuori don Pierino, vestito dei paramenti funebri con due chierichetti al fianco. Dietro di lui la bara, di legno scuro istoriato, portata a spalla da quattro becchini. Il, prete benedisse il feretro che fu posto, con visibile sforzo, nel carro. Il caldo che veniva dal sole ormai alto era insopportabile. Sulla soglia del portone venne sospinto il duca, su una sedia a rotelle, e sembrava un altro cadavere. Il pallore innaturale, l'orrenda magrezza del collo, che navigava nel colletto della camicia, e delle membra, l'espressione assente annunciavano la morte ancora più del carro, dei cavalli e della bara. Il vestito nero, in tinta con cravatta e scarpe indossato per l'ultima volta prima della malattia, dava l'idea di quella che doveva essere stata la sua corporatura e quanto di lui il male avesse consumato. La carrozzina era condotta da Concetta, imponente e silenziosa come sempre, il volto impassibile. Un passo indietro i coniugi Sciarra, lei in lacrime col fazzoletto premuto sulla bocca e lui serio, gli occhi addolorati sull'enorme naso, cappello e giacca troppo grandi a farne una figura patetica in un contesto tragico. Si fece subito una fila di personaggi autorevoli che stringevano la mano del duca e gli rivolgevano brevi parole di condoglianze. L'impressione di Ricciardi e Maione era che tutti, per il caldo ma anche per l'atmosfera del luogo, non vedessero l'ora di allontanarsi. Dopo qualche minuto successe qualcosa destinato a essere raccontato poi per mesi: sulla soglia comparve Ettore, vestito di bianco, col bastone da passeggio e una cravatta rossa. Il cappello di paglia, bianco anch'esso, faceva ombra a un viso perfettamente sbarbato, con un largo sorriso sotto i baffi sottili. Non portava alcun segno di lutto, né la fascia al braccio né il bottone nero all'occhiello, dove invece esibiva una splendida gardenia. Rivolto un cordiale saluto al prefetto che stava ossequiando il duca, se ne andò fischiettando. Se avessero gettato una bomba al centro della piazza, l'effetto non sarebbe stato più fragoroso. Si levò un alto brusio, che fece sobbalzare don Pierino assorto in preghiera sulla bara; il prete si girò disorientato, e quando vide Ettore allontanarsi ebbe sul suo mobile viso un'espressione di intensa tristezza. Ci fu perfino una breve risata nelle retrovie, seguita da un brusco richiamo al rispetto da parte di qualcuno. Ricciardi, il cui punto d'osservazione era non lontano dal portone, colse un rapido sguardo tra Concetta e Mariuccia, come se le due donne avessero trovato conferma di qualcosa che s'erano dette. Il corteo, che avrebbe fatto compagnia alla duchessa nella sua definitiva passeggiata, si dispose. Concetta con fermezza interruppe i saluti al duca e lo riaccompagnò nel palazzo. L'uomo non aveva cambiato espressione per tutto il tempo: Ricciardi pensò che dovesse essere sfinito. Dietro al carro, insieme a don Pierino e ai due chierichetti, si sistemarono i coniugi Sciarra e un'anziana coppia di lontani cugini della duchessa; dopo venivano le autorità e la folla. Quando la porta della carrozza fu chiusa, il vetturino salì a cassetta e diede uno schiocco di frusta. L'orchestra attaccò la marcia funebre di Chopin e i cavalli partirono, cadenzando il passo sulla musica. Ricciardi e Maione si divisero e si confusero tra la folla, qualche metro dietro le prime file. Cominciarono a cogliere i commenti a mezza voce, riferiti per la maggior parte alla famiglia Camparino, alla rappresentazione che aveva appena messo in scena Ettore, al povero duca e a quanto poco gli restasse da vivere. Non mancavano i giudizi morali sulla duchessa, sempre perdente nel raffronto con la prima moglie del duca. E Ricciardi si rese conto che molti si stavano chiedendo dove fosse e cosa facesse Mario Capece. E se e quando avrebbe avuto la faccia tosta di presentarsi. | << | < | > | >> |Pagina 286Ricciardi non avrebbe voluto passare di nuovo per il luogo dell'incidente dell'automobile, ma non poteva proporre a Maione un'inutile deviazione; anche perché l'aria si era fatta se possibile ancora più rovente. Quindi dovette di nuovo ascoltare il dissonante coro della famiglia morta, col bambino che aspettava un gelato che non avrebbe mai consumato.Cercò di distrarsi ripensando alla famiglia Capece: certi sguardi, certi equilibri, certe tensioni che forse solo un mese prima gli sarebbero sfuggiti, adesso gli apparivano evidenti; ma alteravano il quadro che fino ad allora si era andato formando. Maione, che non smetteva di asciugarsi la fronte col fazzoletto, ruppe il silenzio: "Commissa', che ne pensate di questa recita sulla pistola? Tutti a guardarsi sorpresi: 'Uh, Gesù, e che fine ha fatto il giocattolino? Quella stava qua fino a un paio di anni fa, ce la ricordiamo bene, ma chissà quale cattivona di serva se l'è rubata e se l'è venduta'?". Ricciardi però non ci vedeva chiaro. "E non sarebbe stato più semplice dire che non c'era nessuna pistola? Noi non l'avremmo trovata nella perquisizione e tutto finiva là. No, non credo. Penso piuttosto che non erano d'accordo tra di loro, questo penso. E marito e moglie si sono guardati storto, ognuno pensa che l'altro l'ha fatta sparire. La famiglia sta difendendo Capece, questo almeno sembra." Maione cercava di tenersi all'ombra per limitare i danni del caldo. Due ampie macchie di sudore andavano allargandosi sotto le maniche della giacca chiara. "Sta di fatto, commissa', che la pistola non è uscita e che Capece non tiene un alibi: perché noi lo sappiamo, che la signora dice una fesseria sostenendo che il marito ha dormito con lei, sabato notte. Quello non dorme con la moglie da anni, ve lo dice Raffaele Maione. E poi ce l'ha raccontato lui stesso, no, che s'è fatto le sette cappelle delle taverne, dopo il teatro." "È vero; ma sta a noi dimostrarlo, adesso. Se la signora Capece testimonia così e il marito decide di accettare l'aiuto, noi siamo punto e accapo. Dobbiamo seguire tutte le strade, il tempo stringe. Tu vai a casa a rimetterti la divisa, che vestito così non ti riconosco nemmeno io. Ci rivediamo in questura." "E voi che fate, commissa'?"
"Io devo andare a fare una verifica. A dopo."
Lo guardi fumare, affacciato. Come faceva cent'anni fa, quando eravate ancora una famiglia. Ogni tanto usciva sul balcone, e tu ti chiedevi dove andasse con la mente, dietro quali ideali, dietro quali pensieri. È un uomo, pensavi. Ha bisogno delle sue piccole solitudini. Poi la solitudine è rimasta solo tua. Giorni e notti passate a chiederti dove fosse, e a fare cosa. E ad aver paura delle risposte. Non ha detto niente, quando i due poliziotti sono usciti. Ti eri preparata tutte le risposte, eri pronta a offrirgli di nuovo una possibilità; pensavi che averlo difeso, esserti schierata al suo fianco gli avrebbe fatto calare dagli occhi il velo che l'incantesimo di quella strega gli aveva inflitto, anni prima. Aveva ancora una famiglia, in fondo. Una moglie. Pensavi che avrebbe reagito, abbracciandoti in lacrime, ringraziandoti. Magari rimproverandoti per il rischio che avevi corso aiutandolo. Invece è uscito sul balcone, voltandoti le spalle senza nemmeno guardarti in faccia. Non ti dispiace, è la sua reazione. Non lo hai fatto per questo: non per la sua gratitudine, men che meno la sua pietà. Lo hai fatto perché lo ami ancora, perché è stato l'unico uomo della tua vita, il padre dei tuoi figli. Perché non potevi perderlo, solo perché aveva fatto un errore.
Anche se quell'errore era un delitto.
Separatosi da Maione, Ricciardi andò verso la questura: solo quando fu certo che il brigadiere non poteva più vederlo deviò il cammino verso largo della Carità. Non avrebbe saputo dire per quale motivo volesse tenere ancora fuori l'amico da quella parte delle indagini. Forse, rifletté, perché era basata su sensazioni più che su fatti concreti; o per il pericolo, per le situazioni che potevano insorgere. O perché, dopo la tentata aggressione subita con Livia, la percepiva come una questione personale. Il pensiero di Livia gli fece venire in mente la serata passata con lei, prima dell'incidente con i quattro energumeni. Era stato bene, non poteva negarlo. Si era sentito, anche solo per qualche ora, libero dal fardello della solitudine che il Fatto gli buttava addosso. La donna era bella, spiritosa, intelligente; la sua compagnia e le evidenti invidia e ammirazione che arrivavano a ondate, tanto dagli uomini quanto dalle donne, lo avevano anche gratificato. Non era innamorato di lei: lo capiva dal confronto tra il ricordo di quei momenti e l'emozione struggente e disperata che sentiva in petto quando pensava a Enrica. Ma forse il segreto era quello, pensò: per stare bene bisogna limitare il coinvolgimento. Si sentiva un apprendista dei sentimenti. Alla sua età, quando la maggior parte degli uomini aveva avuto mogli, figli e innumerevoli incontri clandestini o mercenari, lui non sapeva dell'amore che le smozzicate frasi dei cadaveri che incontrava. Mentre camminava nei raggi del sole calante pensava che l'amore è una radice infetta che cerca la via migliore per sopravvivere: una malattia mortale a lunghissimo decorso che porta assuefazione, e fa preferire la sofferenza al benessere, il dolore alla tranquillità; l'incertezza alla stabilità. Pensò per associazione all'immagine della defunta e ai due anelli, quello della prima duchessa e quello in mano al giornalista: due pegni d'amore, strappati con forza dalla mano della vittima, uno da viva e uno da morta. Anche il luogo dove stava andando, e l'immagine notturna che aveva visto, ne erano la prova. E gli sembrava emblematico aver assistito a quella scena mentre si aggirava senza meta, in preda all'incoerente malinconia per aver visto Enrica e quello che pensava essere il suo fidanzato. L'amore era un miraggio, che nella migliore delle ipotesi regalava scampoli di sé rubati in piena notte.
Come il bacio appassionato che aveva visto sul portone
davanti al quale adesso si trovava.
Le labbra strette mentre davanti allo specchio si abbottonava la veste fino al collo, Rosa si preparava a uscire in un orario per lei insolito. Faceva caldo e in casa si stava sicuramente meglio che fuori: ma per una volta sentiva che le toccava. Non sopportava più di vedere Ricciardi in pena. Non aveva mai avuto un aspetto allegro, da quando non era più un bambino non lo aveva mai sentito ridere; era silenzioso e schivo, ma in ogni momento lei sapeva, o credeva di sapere, come si sentiva e di che umore era. Da qualche giorno però il suo ragazzo, quello che aveva giurato di proteggere sul letto di morte della madre, soffriva terribilmente. Non mangiava, usciva in piena notte e rientrava prima dell'alba, se ne stava la sera ad ascoltare la radio al buio, per ore: tutto ciò da quando era entrato trafelato nella stanza di lei per guardare le finestre di fronte. Terminata l'abbottonatura e fissato il cappello con due spilloni, Rosa si appressò alla finestrella del ripostiglio, in fondo al corridoio; da lì si vedeva uno spiraglio di una cameretta dell'appartamento dei Colombo, esattamente della stanza dove dormiva la figlia maggiore. Si distingueva la testiera del letto con la croce di legno appesa sulla parete, il comodino con un bicchiere e due libri e il cuscino sul quale poggiava, a faccia in giù, la testa della ragazza. Dal movimento delle spalle, chiaramente visibile a cinque metri di distanza, Rosa ebbe la conferma che Enrica Colombo stava piangendo.
Annuì soddisfatta e fece quello che tutte le donne del
quartiere facevano quando avevano la necessità di assumere informazioni: andò
dalla pettinatrice.
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