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| << | < | > | >> |Pagina 11Hammerfest, Norvegia 6 marzo 2002 Una violenta scheggia di luce gli ferì gli occhi. Un'ombra con la forma di un viso era china su di lui. Voci umane disincarnate si perdevano nei meandri della sua coscienza appena ridestata. Si sbriciolarono in mille frammenti di cristallo, rimbalzandogli nel cranio, per poi diventare ancora dolci mormorii. Chiuse di nuovo gli occhi. "Nathan, mi sente?" Un bagliore luminoso gli esplose sotto le palpebre, si diffuse, si ramificò nelle vene. Cercò di urlare, ma una mano invisibile gli comprimeva i polmoni. Ricadde nel buio. "Nathan, la prego, resti con noi... Ossigeno!" Lui riemerse, trascinato dal dolore. Lo sfregamento delle lenzuola sulla pelle bruciava come veleno. Il suo cuore accelerò i battiti. Ogni volta che socchiudeva le palpebre, artigli di luce bianca gli laceravano gli occhi. Non vedeva altro che immagini bruciate. Tentò di girare la testa, e due mani callose lo placcarono dov'era. "Non si muova, stia calmo, è ferito gravemente..." Era un grumo di sofferenza pura. L'inquietudine gli riempì i polmoni. Cominciava a percepire le proprie membra, la nuca. Poi, in un lampo, il suo corpo si inarcò come una lama sul punto di spezzarsi, una sola volta. E ripiombò negli abissi, un oceano nero e gelido. Gli parve di morire ancora. Tornò alla superficie più tardi, un giorno, un anno, un'ora. Il suo mondo somigliava a un cerchio che di volta in volta si dilata e si contrae, un universo popolato di sensazioni. Cigolii metallici delle lettighe, camici bianchi, pareti immacolate, asettiche, che scorrevano all'altezza dei suoi occhi. Aveva l'impressione di essere un liquido, una specie di schiuma che colava e si spandeva. In altri momenti diventava una sottile polvere di stelle che si volatilizzava nel vento dell'oblio. Lo spostavano da una sala all'altra. Figure di nebbia si chinavano su di lui, lo auscultavano. Tenevano in mano grandi teli chiari e umidi simili a lembi di pelle. Riconosceva la sagoma di una donna bionda che appariva a intervalli regolari. Ogni volta ripeteva gli stessi suoni, che a poco a poco si tramutarono in parole: "L'incidente"... "Nathan"... Un'altra presenza, una figura silenziosa e massiccia, senza dubbio quella di un uomo, si fermava a osservarlo per lunghi momenti, senza che Nathan sapesse se faceva parte dei vivi o dei fantasmi della sua assenza. Gradualmente, accettò di assumere dei liquidi. Le prime volte era come avere in bocca della sabbia. Voleva sputare fuori anche la lingua, vomitare l'anima, ma la consapevolezza di esistere lo confortava. Si aggrappava alla vita. Stava tornando. | << | < | > | >> |Pagina 67Aspettavano. Impronte digitali, immagini scansionate del suo passaporto, numeri di carte di credito... Qualche ora prima, Woods aveva inviato tutte le informazioni di cui disponevano alla sede dell'MI 5, a Thames House. L'alto funzionario a cui si era rivolto si era impegnato a rispondergli entro le 17. Stando a quanto gli aveva assicurato Woods, non avrebbe lasciato la minima traccia nei file del servizio di controspionaggio britannico. Nathan aveva approfittato delle ore seguenti per fare un sonnellino. Aveva anche prenotato un posto per il giorno dopo su un volo con destinazione Bruxelles, da dove avrebbe raggiunto Anversa. Seduto alla scrivania, Woods, teso in volto, riordinava delle carte. Dall'altro lato della stanza, Lello stava terminando la trascrizione del manoscritto di Elias. Nathan, da parte sua, se ne stava in silenzio, sforzandosi di reprimere i tremiti di nervosismo che gli correvano lungo il corpo. Nel giro di qualche minuto l'incertezza sarebbe finita. 16 e 57. La suoneria del telefono gli esplose nei timpani. Con un gesto l'inglese staccò il ricevitore e con uno sguardo gli confermò che era Staèl. Woods scambiò qualche battuta con l'interlocutore, ma essenzialmente si limitò ad ascoltare e prendere appunti. Non appena ebbe riattaccato, Woods si rivolse al suo assistente in un perfetto italiano. "Lello, sarebbe così gentile da lasciarci soli?" I due uomini si ritrovarono faccia a faccia. "Bene. Staèl ha preferito evitare una ricerca sui suoi documenti di identità, in quanto avrebbe suscitato i sospetti delle autorità, che registrano sistematicamente questo genere di richieste. Però ha controllato gli schedari delle persone scomparse. Non compare nessun Nathan Falh, né tanto meno un Pierre Huguier. Le confermo quindi che nessuno si sta preoccupando per la sua assenza." "Il controllo delle mie carte di credito... ha dato qualche risultato?" "Ci stavo arrivando. La Visa Premier è stata emessa a Parigi dalla banca Eie il 21 dicembre 2001, cioè circa una settimana dopo che lei ha aperto un conto in un'agenzia di boulevard Montparnasse, il 12 dicembre. Il deposito iniziale era pari a 45.000 euro, versato in parte in contanti, per il resto con un assegno emesso da lei appoggiato su un conto nel Regno Unito. Lei ha effettuato diverse operazioni, principalmente prelievi in contanti di importo rilevante. A oggi, il saldo del conto è a credito per 5.000 euro. Passiamo alla AmEx. Questa è collegata a un conto aperto il 7 gennaio 2002 in una succursale della City Bank in Regent Street, a Londra. Il conto ha un saldo attivo di 27.684 sterline. La maggior parte di questa somma sembra corrispondere a un bonifico effettuato dalla società Hydra Ltd, domiciliata a Singapore, tramite un conto svizzero." "Ne sono al corrente, è la compagnia che ha organizzato la spedizione..." "Infatti, mi pareva. Come consiglia vivamente il mio contatto, non credo sia necessario andare più in là nella verifica dell'autenticità dei suoi documenti, la cosa rischierebbe di metterla in qualche imbarazzo. I suoi documenti probabilmente sono stati rubati e poi falsificati, se non addirittura creati nuovi di zecca. Sono sicuro che sono falsi." Di colpo, l'uomo senza memoria si sentì gelare il sangue nelle vene. "Coma fa a dirlo?" "È chiarissimo, Nathan. Mi viene a trovare due volte, presentandosi sotto due identità diverse. I suoi conti in banca sono stati aperti solo da pochi mesi, ci sono state depositate delle somme cospicue e la maggior parte delle operazioni sono prelievi di contanti per un minimo di 15.000 euro. Ha limitato al massimo l'uso delle sue carte di credito, come se cercasse di lasciare meno tracce possibili del suo passaggio. Combatte come un demonio, e sa meglio di me come si maneggia un'arma da fuoco. Nel mondo dello spionaggio, c'è un nome che corrisponde tratto per tratto al suo profilo." A ogni pezzo di verità che Woods gli rifilava, come una serie di pugni nello stomaco, Nathan si sentiva un po' più perduto, un po' più suonato. "Quale?" "Lei è quello che si dice un 'fantasma'. La sua vita è una 'leggenda', di cui è stato accuratamente inventato ogni dettaglio." Un fantasma... sì, era proprio quella la sensazione che lo pervadeva dopo essere venuto al mondo nell'inverno di Hammerfest. "Staèl, comunque, ha preso l'iniziativa di trasmettere le sue impronte digitali agli schedari centralizzati di vari Paesi europei... Francia, Gran Bretagna, Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Germania e Belgio. Tutti hanno risposto negativamente, salvo la Francia e il Belgio che richiedono un ulteriore intervallo di tempo per le ricerche, senza però precisare una data. Per il momento, lei non risulta schedato da nessuna parte." Nathan si sentì venir meno... Le sue speranze crollavano l'una dopo l'altra. Adesso veniva a sapere che non esisteva... "Ha la minima idea del genere di attività che potrebbe esercitare un uomo che si da così tanto da fare per dissimulare la propria esistenza?" "Sì, Nathan, ce l'ho un'idea. Anche più di una, per la verità. Se mi trovassi di fronte a lei senza conoscere i dettagli della sua storia, direi che potrebbe essere tanto un agente governativo disperso quanto un criminale bene organizzato che cerca di sfuggire alla giustizia. Ma c'è il contesto, capisce? La spedizione polare, il manoscritto di Elias, i killer che l'aspettavano al varco in ospedale. Tutte queste cose non aiutano per niente a fare un'ipotesi. In tutta franchezza, non so che dire." | << | < | > | >> |Pagina 117Nathan scattò verso il sentiero roccioso e scese a precipizio la collina fino alla spiaggia. Quando fu a una cinquantina di metri dall'animale, trasse un profondo respiro, impugnò il fucile a pompa e tirò un primo colpo in aria. La belva fece dietrofront, poi, con un movimento ampio e poderoso, si drizzò sulle zampe e valutò l'avversario, prima di ributtarsi sulla tomba come se niente fosse. Se il necrofago non sembrava disposto a mollare la carogna, Nathan era però fermamente deciso a strappargliela dalle grinfie. Azionò la pompa di armamento, eiettando il guscio fumante della cartuccia vuota, e marciò dritto verso la bestia. I suoi passi calpestavano la ghiaia al ritmo del sangue che gli pulsava nelle arterie. A venti metri, si fermò e sparò un altro colpo in aria. Un ruggito lacerò il paesaggio. Nathan vide il mostro ritrarsi dalla fossa e inarcarsi di fronte a lui, lacerando il vuoto con artigli terrificanti. In posizione verticale, l'animale raggiungeva quasi i due metri e mezzo e le fauci spalancate mostravano delle zanne simili a coltelli d'avorio. Nathan inghiottì la saliva, non poteva permettersi un errore. Una sola zampata sarebbe bastata a decapitarlo. Aggirò lentamente l'orso fino a mettersi controvento. In questo modo, le scariche di paura che trasudavano dal suo corpo non sarebbero arrivate fino alle sue narici. Cinque. Era il numero delle cartucce rimaste. Ne sprecò altre due e avanzò ancora. A sei metri, il respiro ardente del mostro lo inchiodò sul posto. Puntò la canna contro il muso schiumante. Un altro ruggito di inaudita violenza gli percosse i timpani, poi l'orso fu scosso da brividi che si ramificarono lungo la sua folta pelliccia. Nathan mise un altro colpo in canna e sparò di nuovo, questa volta mirando tra le zampe gigantesche. Non abbassò mai gli occhi di fronte a quello sguardo nero, non un istante lasciò trasparire il terrore che lo paralizzava. D'improvviso, il mostro descrisse un ampio giro con la testa, si lasciò ricadere come un macigno sulle zampe anteriori e battè in ritirata. Abbandonava il campo. Nathan non riusciva a crederci. Aveva vinto. Le ginocchia ancora tremanti, tenne sotto tiro l'orso fin quando si fu allontanato a sufficienza, poi poggiò l'arma a terra e si avvicinò alla buca. Il cielo si era coperto di nubi di un grigio cupo e il vento spazzava la spiaggia che sembrava essersi tramutata in un mare d'acciaio. Nathan mise piede nella cavità tra le sacche mortuarie, che giacevano, rigide come lame, mezzo sepolte tra le pietre. La prima cosa che lo colpì fu la totale assenza di odore. Qui la morte era pulita, niente brulichio di vermi, niente putrefazione. La parte superiore della prima sacca, lacerata, lasciava comparire un magma carminio di schegge d'osso, capelli grigiastri e brandelli di pelle. Si chinò per esaminare meglio i lineamenti sfigurati. Il necrofago aveva cominciato a divorare il volto del cadavere, rendendo impossibile qualunque identificazione visiva, ma il colore grigiastro dei capelli non corrispondeva: quello non poteva essere il medico. Si volse allora agli altri contenitori e finì di liberarli dal loro involucro minerale a mani nude, raspando con le unghie, scheggia dopo scheggia, il cemento di ghiaccio che colmava ogni più piccolo interstizio. Terminato il lavoro, abbassò interamente la chiusura a cerniera della seconda sacca. Con un gesto, scostò lentamente i lembi di tela scura, indurita dal freddo. Il cuore gli balzò nel petto. | << | < | > | >> |Pagina 210La torcia tra i denti, Nathan si lasciò scivolare lungo il pozzo d'ombra, aiutandosi il meno possibile con la scala di cui avrebbe avuto bisogno per ritornare all'esterno. Una volta raggiunto il suolo spugnoso, verificò le condizioni della galleria illuminandola con la Maglite. L'inizio del budello non misurava più di un metro e sessanta di diametro; le pareti, un agglomerato viscido di fango ocra e blocchi di lava, erano state tappezzate di assi rozzamente squadrate. L'insieme sembrava abbastanza solido da impedire una frana. Si aggiustò il cappuccio, lanciò un'ultima occhiata al ciclo tetro e iniziò la discesa verso le tenebre. Procedeva lentamente, chino su se stesso, respingendo i pensieri che lo assalivano, concentrato sui pericoli celati in quell'antro, sentendo il respiro caldo delle pareti, evitando il legname marcio di cui era cosparso il suolo, le radici luccicanti che spuntavano da ogni dove come artigli protesi verso il suo corpo vulnerabile. Presto la luce del giorno scomparve completamente, e ai gridi penetranti degli animali seguì il silenzio. Aveva appena attraversato una nuova frontiera. Un mondo notturno, lontano dal Congo e dal genocidio, che lo accoglieva sotto le sue ali nere. Persino sotto terra la pioggia continuava. La luce della torcia vacillava come una fiammella in mezzo ai rivoli di acqua e di vapore che scendevano dalla volta. Continuò ad avanzare, senza cedere, costretto a volte a mettersi in ginocchio o a scavalcare crepacci. Carogne di scimmie e grossi roditori, per qualche misterioso motivo venuti a morire lì, esalavano un pestilenziale lezzo di putrefazione. Man mano che procedeva, l'atmosfera chiusa si andava riempiendo di un ronzio inquietante che pareva sorgere dalle profondità della terra. Tese l'orecchio. Al fruscio si mescolavano mormorii e sussurri lontani, che si ripercuotevano fino a lui come risolini sadici. Una sensazione di disagio lo spinse a fermarsi. Anche lui cominciava a delirare, a credere in quelle assurde storie di superstizioni... Si costrinse a proseguire, la torcia puntata al suolo. Il crepitio si intensificava. Fu allora che li vide: ragni rosso rame, larve biancastre, scarafaggi giganti dalle elitre umide gli brulicavano intorno da tutte le parti, strisciando lungo le pareti, piovendogli sulle spalle, a grappoli, dalla volta. Lì la terra non era un santuario silenzioso, ma una massa di putrefazione vibrante, terrificante, dove la vita e la morte si abbracciavano fino a formare un'unica entità informe e mostruosa che si rigenerava perpetuamente. Si asciugò con la manica la cortina di sudore che gli impediva la vista e continuò la discesa. Era di lì che quel farabutto di Kahékwa e i suoi scagnozzi avevano fatto passare i gruppi di rifugiati impauriti, lì che avevano sentito le urla... Se non avevano visto nulla in quello stretto tunnel, voleva dire che esisteva, da qualche parte, un passaggio che portava a un altro reticolo di gallerie. Aveva percorso tre o quattrocento metri, esaminando con cura le pareti, quando il fascio luminoso della torcia incontrò un'apertura ricavata su un lato del tunnel. Si chinò, infilò le mani nell'interstizio e tirò con tutte le forze. Le assi marce cedettero con uno scricchiolio. Tirò via il pannello e lanciò un'occhiata. Un'altra galleria. L'imboccatura, parzialmente crollata, era inondata da ampie pozzanghere. Il camminamento sembrava inoltrarsi ancora più lontano nelle tenebre. Si rimproverò per non essersi portato né un casco né una lampada frontale, né tanto meno qualcosa con cui improvvisare un filo di Arianna. In qualunque momento avrebbe potuto perdersi o ritrovarsi bloccato da una frana, ed era certo che nessuno sarebbe venuto a cercarlo lì. Il varco non era più largo di cinquanta centimetri. Si stese ventre a terra, e aggrappandosi a una sporgenza rocciosa si tirò facendo forza con un braccio fino a far passare le spalle. Il resto ci andò dietro. Poi strisciò nel fango come un'anguilla per una trentina di metri, quindi si immerse fino alla vita in una palude nera che finiva in una zona più ampia e più alta. La torcia alogena lampeggiò, si spense, si riaccese, strappando riflessi metallici all'oscurità. Il corpo teso fino allo spasmo, Nathan si avvicinò a passi lenti, stringendo la Maglite che perdeva di intensità. Lettini da ospedale imbottiti, catene d'acciaio, cinghie di cuoio per bloccare le braccia, le gambe... Inciampò in un mucchio di stracci stropicciati e anneriti... Le pareti erano ricoperte di teloni in plastica gialla collegati a ogni angolo da strutture gonfiabili. Esaminò il suolo alla luce della torcia: tra brandelli di miseri vestiti, si vedevano croste marrone scuro, pozzanghere viscose dove giacevano appiccicati bisturi, cesoie e altri strumenti di tortura ancora scintillanti nonostante la corrosione. Un laboratorio... Nathan fremette, ma non aveva più paura, come se, per sopportare l'orrore di ciò che stava scoprendo, la mente si fosse staccata dal corpo. Prese la macchina digitale e cominciò a fotografare quel luogo di sevizie pezzo per pezzo. In una cavità, scoprì una specie di porta stagna adiacente ai teloni. Aggirò un pagliericcio rovesciato e in due passi arrivò alla chiusura a cerniera, larga e circolare. Bloccata. Con un colpo di pugnale, lacerò la tela e ricavò un passaggio tirando con le mani. Il fascio della Maglite si perse in un corridoio leggermente in discesa. Vi si infilò a testa in avanti, e avanzò aiutandosi con i gomiti. Qui il suolo sembrava più asciutto, e anche più friabile; man mano che guadagnava terreno, vedeva fili di sabbia che colavano lungo le pareti come sottili cascate d'acqua. | << | < | > | >> |Pagina 372La mano contratta sulla spalla ferita, Nathan tornò, attraverso le sabbie, verso la necropoli. Una volta perso il contatto radio con i suoi uomini, Mikhail aveva sicuramente capito com'era finita la caccia. Il suo impero vacillava, ma di certo non era pronto a darsi per vinto. E Nathan sapeva che dei sette angeli era lui il più temibile. Le piramidi erano l'unica possibilità di avvicinarlo senza farsi scoprire. Si sarebbe addentrato nei cunicoli sotterranei che le collegavano al monastero. Molti erano stati murati per trasformarli in laboratori, ma altri rimanevano praticabili e permettevano di accedere direttamente alla navata della chiesa. Finalmente vide apparire le tombe dei faraoni, erette per l'eternità sulla massa di roccia lavica che si estendeva lungo la Montagna pura. La maggior parte erano state parzialmente distrutte o danneggiate dal tempo. Davanti a ogni tomba, si potevano ancora notare grossi blocchi di pietra ocra su cui erano incisi in caratteri meroitici gli incantesimi e le formule magiche che accompagnavano i morti nell'aldilà. Nathan sgusciò tra le rovine e, d'istinto, arrivò fino all'ultima piramide, che sorgeva all'estremità orientale della necropoli. Aggirò l'edificio fino a trovare una stretta scala che spariva nell'oscurità; accese la torcia e si addentrò a passi felpati nel regno dei morti. La porta di pietra che ostruiva l'ingresso del sepolcro era stata forzata dai ladri di tombe e offriva un angusto passaggio verso l'interno. Malgrado la ferita, Nathan riuscì a infilarsi nella breccia e penetrò nella camera mortuaria. La luce della torcia profanò la notte millenaria. Era una sala minuscola, con il suolo invaso dalla sabbia e le pareti coperte di calce biancastra. Dei tesori racchiusi un tempo in quel luogo non restava altro che qualche urna di terra e un po' di frammenti delle ossa di un re dimenticato. Spostando il pennello luminoso, Nathan vide anche degli strani geroglifici, tracciati con pigmenti azzurri, porpora, oro, praticamente intatti... Gli dei-pianeti, Amon Ra, Osiride, accompagnavano il monarca defunto nell'ultimo viaggio, verso la sua resurrezione. Violando quella tomba, Nathan poteva toccare con mano la follia di Mikhaìl... Capì che l'impulso che animava quell'uomo non era solo la vendetta, che il Cerchio di Sangue era molto più di un semplice papiro: un segreto passato tra le mani di decine di generazioni di mistici, la chiave di un sapere che aveva attraversato le epoche. Esserne il guardiano faceva di lui un essere eletto, l'eguale dei faraoni. Le realtà materiali gli importavano poco. La sua intera opera era rivolta a una sola ricerca: quella dell'assoluto, del divenire a sua volta una divinità attraverso la fusione con l'energia divina, da cui si sarebbe irradiata la sua stessa immortalità. Bisognava fermarlo.
La botola. Doveva ritrovare la botola.
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