Copertina
Autore Lorenzo Del Boca
Titolo Grande guerra, piccoli generali
SottotitoloUna cronaca feroce della Prima guerra mondiale
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 , pag. 224, cop.ril.sov., dim. 15,5x23,7x2,2 cm , Isbn 978-88-02-07708-6
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1900 , guerra-pace
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Indice


  3 Capitolo primo
    Che colpo di fortuna l'attentato a Sarajevo

 17 Capitolo secondo
    Quei «facili costumi» della politica estera

 35 Capitolo terzo
    Dall'Africa alla Cina: Fantozzi va alla guerra

 51 Capitolo quarto
    L'energica «irruzione» e le «spallate» sul Carso

 67 Capitolo quinto
    Quel generalissimo con il cuore di ferro

 83 Capitalo sesto
    Il fango e il gelo i topi e la febbre

 99 Capitolo settimo
    Era «tolleranza zero» per chi dava il sangue

115 Capitolo ottavo
    Profittatori di guerra e ladri di medaglie

131 Capitolo nono
    Un re piccolo-piccolo in tacchi e sciaboletta

145 Capitolo decimo
    Senza una goccia d'acqua fra le pietre del diavolo

161 Capitolo undicesimo
    La mini-Caporetto del 1916 che non è servita di lezione

175 Capitolo dodicesimo
    L'impegno di Badoglio per propiziare la sconfitta

189 Capitolo tredicesimo
    Lo squittio di topi in trincea e i «savoiardi» per Cadorna

203 Capitolo quattordicesimo
    «Il Piave udiva l'ira» di fucilazioni in massa

215 Indice dei nomi



 

 

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Procedendo a strappi e a tentoni, sembrava che la politica estera dello stato italiano fosse determinata dall'improvvisazione. E come tutte le iniziative realizzate con troppa fantasia – al di fuori di una logica che le tenesse insieme – si esponevano a contraccolpi e a rappresaglie.

I politici nostrani se ne rendevano conto? La maggior parte considerava che l'Italia doveva destreggiarsi fra troppi problemi per consentirsi il lusso di una politica internazionale da protagonista. Era il pensiero dei Depretis, dei di Rudinì, dello stesso Giolitti. Paradossalmente lo pensava anche Riccardo Bollati che, essendo il segretario generale del ministero degli esteri, certificava la propria inutilità professionale.

Gli altri onorevoli e senatori avevano altro cui pensare: soprattutto come arraffare il più possibile, ottimizzando l'incarico pubblico che si erano guadagnati.

Godevano di privilegi che non sono nemmeno comparabili con quelli, pure appariscenti, di oggi perché tutti – a cominciare dal re – consideravano lo Stato cosa loro. Non era necessario rubare: bastava prendere. E chi li contestava?

I Savoia, tutti – il galantuomo, il buono e lo sciaboletta – disponevano di 14 milioni di appannaggio: quanto il Kaiser di Germania che guidava la locomotiva d'Europa ma più della regina d'Inghilterra. Con i debiti paragoni, costavano una cifra di gran lunga superiore a quella sufficiente per mantenere la Casa Bianca di Washington, Pentagono compreso. Ritiravano l'assegno senza pudore.

A Roma, abitavano nell'ex reggia dei Papi, il Quirinale, con tremila finestre. A Castelporziano utilizzavano una spiaggia tutta per loro e, se decidevano di sgranchirsi le gambe con una partita di caccia, poteva accadere di catturare «310 fagiani, 69 cinghiali, 2 cervi e un gatto».

Umberto I, i politici, li considerava «ciula» e «baloss» il che li collocava dritto-dritto nella categoria degli inaffidabili, stupidi sempliciotti o pericolosi approfittatori. Lui si fidava del marchese Rattazzi che aspettava, all'imbrunire, dietro una siepe per conoscere le marachelle di Crispi. E poi, con il cuore soddisfatto dagli allegri pettegolezzi della capitale e dei dintorni, poteva tornarsene a Palazzo dove «salendo le scale, il re scoreggiava». Davanti al fido marchese Paolo Paulucci delle Roncole che, nel suo diario, annotò proprio tutto, comprese le intemperanze intestinali di sangue blu. «Prosit».

Il figlio, Vittorio Emanuele III, una volta giunto al trono, non cambiò idea sulla qualità morale e sull'affidabilità della classe politica italiana, anche se preferì affidarsi ad espressioni meno colorite. I ministri che chiamava perché gli giurassero nelle mani appartenevano alla categoria delle «nullità». Peggio: si dedicavano alla carriera politica solo a scopo di lucro personale e quindi le loro azioni e le loro scelte avevano l'unica finalità di riempirsi le tasche.

Purtroppo, era tragicamente vero. Con la scusa di amministrare, prendevano tutto quello che umanamente era possibile portare via.

Depretis aveva scoperto «il trasformismo» che consisteva nell'ottenere l'appoggio di chi era stato mandato in parlamento per dargli addosso.

Crispi che era cresciuto come uomo della sinistra ma che si comportava come un guerrafondaio di estrema destra, riteneva di aver maturato un credito per avere il voto di tutti.

E Giolitti, dopo di lui, riscoprendo i valori di una politica senza appartenenze, capeggiò «i governativi» che significava stare in maggioranza. Indipendentemente da chi la ispirava e da quanti contribuissero a comporla. L'opposizione non pagava e, perciò, non era conveniente.

Gli incarichi venivano distribuiti in modo da assicurarsi una clientela fedele e asservita. Il problema di quei primi cinquant'anni di monarchia unitaria consisteva nel dosare i favori in modo che l'eletto fosse sempre condizionato. Un po' blandito e un po' ricattato. Il potere era distribuito come il dividendo di una società.

Il riconoscimento più ambito era l'assegnazione di un appalto pubblico perché consentiva di guadagnare oltre il lecito utilizzando prodotti edili scadenti.

Che importava se, poi, i palazzi crollavano e gli operai morivano sotto le impalcature?

I padroni del mattone avevano realizzato affari d'oro.

Specularono anche sul monumento da dedicare a Vittorio Emanuele II che doveva essere costruito accanto al Campidoglio. Erano stati banditi numerosi concorsi e ciascuno era costato centinaia di migliaia di lire (dell'epoca) ma il progetto non andò oltre la prima pietra: che rimase anche l'unica.

La destra storica, credendo di aver fatto l'Italia, si riteneva in diritto di governarla come un condominio di proprietà. La sinistra – sempre storica – arrivò al potere con appetiti arretrati e, per recuperare il tempo perduto, si trovò coinvolta in scandali torbidi, malamente nascosti. Il poco di buono che fecero passò in fretta. Il molto di male restò a lungo.

Ladri e disonesti. Crispi si appropriò del denaro pubblico delle banche come se avesse dovuto prelevare i soldi dal proprio conto corrente. Si fece pagare 60 mila lire per concedere un'onorificenza a un «bustarellaro» francese. E faceva la cresta sulla carità: razziò le offerte che erano state raccolte dalla generosità degli italiani che volevano aiutare le popolazioni calabresi terremotate.

Ognuno arraffava dove poteva. Non c'era provvedimento di governo, a maggior ragione se riguardava argomenti di finanza, che non si portasse dietro interessi poco trasparenti. Un esempio? Nel 1903 il ministro delle Finanze telefonò a casa sua, a Genova: «Sei tu, cara?». Era lei. «Guarda – avvertì – domani sarà approvato un decreto che avrà enorme ripercussione in Borsa». Alcuni titoli, scrupolosamente elencati, erano destinati a perdere parecchi punti in percentuale a favore di altri che, al contrario, avrebbero dovuto trarre vantaggi consistenti. «Chiaro?».

«Perfettamente! ». Ma perché non rimanesse nemmeno un'ombra di incertezza, fornì un'ultima indicazione ancora più esplicita. «Avverti tuo padre, i miei familiari e tutti i parenti in modo che facciano la stessa operazione». Non c'era tempo da perdere se non per un commento spontaneo: «Che bella cosa... come sono contenta...».

Il deputato Rocco Zerbi, accusato di aver intascato mezzo milione illecitamente, fu trovato morto. Infarto o suicidio? Certamente si uccise il ministro Rosano che, approfittando del suo ruolo nel Governo, era riuscito a far assolvere un suo cliente per una parcella di 400 mila lire.

In quegli stessi anni, un operaio lavorava dieci ore per tre soldi.

Le ferrovie statali che, in un primo tempo, furono privatizzate, vennero ricomprate dallo Stato per aiutare i proprietari a mettere da parte un ricco tesoro.

E poiché un posto in Parlamento valeva come un'assicurazione sulla vita, Giuseppe Luciani riuscì a convincere Pio Frezza a pugnalare Raffaele Sonzogno per succedergli come candidato – con scontate possibilità di riuscire eletto – nel quinto collegio di Roma. Avendogli rubato il seggio, gli prese pure la moglie.

Chi stava a guardare rischiava di fare la figura del fesso. Tutti si industriarono ad approfittarne. Il direttore del banco di Napoli, travestito da prete, tentò di espatriare con due milioni e mezzo appesi fra le gambe e la tonaca da sacerdote.

Angelo Sommaruga derubò migliaia di piccoli risparmiatori facendo sottoscrivere loro delle azioni, preziose come la carta straccia. E il responsabile della Banca di Genova, a Roma, Enrico Baldini, dovendo spedire alla centrale sei milioni in contanti, ne tenne due e mezzo per sé e sostituì le mazzette con pezzi di legno compensato, in modo che si scoprisse l'ammanco il più tardi possibile.

Emanuele Notarbartolo, invece, ci lasciò la pelle. Si era accorto dei troppi imbrogli realizzati attorno al Banco di Sicilia, li denunciò ma lo ammazzarono mentre viaggiava in treno. Le prove d'accusa consentirono di trascinare in tribunale il deputato Palizzolo, in odore di mafia, íl quale aveva scoperto un sistema semplice per far soldi. Giocava in borsa il denaro della banca: se vinceva passava alla cassa a ritirare il guadagno mentre se perdeva erano andati male gli investimenti dell'istituto. Tecnica del privatizzare gli utili e pubblicizzare i debiti.

La rete di complicità si rivelò troppo fitta: in tribunale fu assolto.

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Del resto l'esercito era sempre stato utilizzato come una gendarmeria che non andava nemmeno troppo per il sottile. Gli ufficiali servivano per guidare i soldati contro gli operai. Li picchiavano a piattonate e poi trascinavano la spada nei salotti, nei teatri, nei bordelli e nelle case da gioco.

In campo di battaglia, di fronte ai nemici veri che li combattevano ad armi pari, si lasciavano divorare dai dubbi e dall'impotenza. E il più delle volte scappavano con la coda in mezzo alle gambe, senza pudore e senza vergogna. Semmai, l'aspetto straordinario della questione stava nel fatto che riuscivano a fare ricadere la colpa del disastro bellico su qualche altro. E, se non rimediavano una medaglia al valore, almeno uscivano indenni da una sconfitta che, in qualunque parte del mondo, sarebbe risultata scandalosa.

Allontanandosi dal fronte, raggiungendo le piazze delle loro città, i conigli riprendevano vigore. Senza nemici da combattere, alle prese con operai o studenti che protestavano, il coraggio tornava nel cuore degli ufficiali. Non tremava loro né il braccio né la voce. L'ingiunzione di sgomberare, due squilli di tromba e, senza soluzione di continuità, l'ordine di caricare per disperdere la folla. Fra tutti non erano capaci di difendere la nazione ma il potere costituito lo tutelavano a dovere. Erano il braccio armato del re, del suo Governo e dei ministri dai quali dipendevano.

Lo stato d'assedio venne proclamato ripetutamente nel Meridione d'Italia (soprattutto in Sicilia), nelle zone della Romagna e della Toscana dove la povertà era più acuta e dove, quindi, era più facile trovare le ragioni per protestare. Se non bastavano le legnate e le fucilate, non avevano paura di usare il cannone: Genova, Palermo, Messina furono fisicamente bombardate da generali ardimentosi che, giusto reduci da figure meschine nelle guerre d'Indipendenza, recuperarono credibilità presso l'opinione pubblica, con azioni superbamente condotte. Vennero elogiati per il coraggio esibito e lo sprezzo del pericolo dimostrato. A Bava-Beccaris andò anche meglio. Per aver ordinato di aprire il fuoco, a Milano, contro una quantità di poveracci affamati che non avevano nemmeno il pane, ottenne una promozione al grado superiore e i complimenti autografi di Umberto I. Il riconoscimento che lo riempì maggiormente d'orgoglio fu il collare dell'Annunziata che lo rendeva cugino di casa reale.

Non erano tagliati per i combattimenti veri, quei tromboni in divisa. Non disponevano di scuole dove imparare e non avevano l'umiltà di mettersi a disposizione per capire. Faceva loro difetto l'intelligenza, la fantasia, la duttilità per comprendere le situazioni e «leggere» il terreno dello scontro. In abbondanza soltanto vanagloria.

Ovviamente se non c'erano capi, dove trovare i gregari?

Mancavano gli ufficiali e non esistevano soldati.

L'Italia che avrebbe dovuto fornire fantaccini e bersaglieri era un paese umiliato avvilito, divorato dalla miseria e dai bisogni, impossibilitato a pensare a una vita diversa dall'ammazzarsi di lavoro.

Qualche esempio?

I lavoratori delle cave di ardesia di Lavagna sapevano che a quarant'anni non respiravano più. «Per la polvere o per la privazione della luce solare o per l'aria umida nei sotterranei o, meglio, per tutte queste cagioni insieme accolte, muoiono per lo più idropici».

Peggio ancora nelle miniera di zolfo della Romagna. «Duecentosessantatrè ripidi scalini» e, sotto, una bolgia da girone d'inferno. «Uomini mezzo nudi, con in lampioncino, si aggiravano e con pesanti picconi scavavano nella roccia per introdurvi la polvere» in modo da far esplodere un pezzo di montagna. «Tremarono violentemente le pareti... fumo... e denso odore della polvere». Giuseppe Pasolini Zanelli che firmò la cronaca di questa «gita» non ebbe vergogna a impaurirsi e, mentre tentavano di mostrargli i segreti del sottoterra, «mi affrettai a dire: desidero tornare». Fu accontentato immediatamente ma per tutta quell'altra gente che moriva per una manciata di soldi, non esisteva scelta.

Nelle fatiche da affrontare — spaventose e inumane — l'Italia era davvero una.

L'Abruzzo era povero e due tizzoni nel camino erano già un segno di benessere. In Basilicata era considerato un piccolo privilegio trovare posto come impastatrice di liquirizia anche se quel lavoro sformava le mani. Nel Mantovano, i contadini erano obbligati a dormire nella stalla per essere pronti ad accudire alle bestie, evidentemente più preziose degli uomini.

Il deputato Alessandro Guiccioli, marchese, vide alcuni giovani impegnati a disboscare un terreno e gli parve un lavoro «non dissimile da quello dei negri nelle piantagioni d'America».

E, a Torino, il mercato delle verdure cominciava ad animarsi all'alba con le donne che erano partite da casa, a piedi, prima della mezzanotte, per arrivare in tempo a prendersi un buon posto. «Ritte o sedute, colle loro derrate esposte sulla neve sudicia, strette le une alle altre per tenersi calde, in zoccolate, imbottite, infagottate, fasciate da pezzuole e di scialli, con guanti di cenci, con fazzoletti attorcigliati intorno alla fronte, con cappelli da uomo sul capo, con vecchi mantelli da carrettiere sulle spalle e lo scaldino nelle mani, con menti e nasi paonazzi».

Partirono a migliaia e poi a milioni. Andavano all'estero, carichi di miseria e di disperazione, per cercare una ragione di sopravvivenza. Fu la storia dell'emigrazione italiana che venne raccontata con un romanticismo intriso di vicende melodrammatiche che non resero giustizia né del fenomeno sociale né dello strazio di quell'esercito di straccioni. Oltre i confini dovettero fare i conti con abitudini diverse e con l'aperta ostilità dei padroni di casa. Tra il 18 e il 19 giugno 1881, a Marsiglia si scatenò la caccia all'italiano con morti e feriti ma Montecitorio commentò l'episodio con una rissa fra radicali che sottolineavano la responsabilità dei preti e gli uomini di Governo che ritorcevano le accuse ai «servi» della Francia. Il 18 agosto 1893, ad Aigues-Mortes, in Provenza, andò anche peggio. I salinaroli, ingaggiati per pochi centesimi, furono massacrati perché considerati ladri di lavoro. Morirono in trenta e gli ospedali si rifiutarono di ricoverare i feriti, come se avessero schifo di curare gente che non parlava bene la loro lingua.

Pellizza da Volpedo stava disegnando la gente del suo «quarto stato», giovani malconci ma a testa alta, disarmati ma con le mani gonfie di forza, certamente poveri ma, proprio per questo, dignitosi. Non si poteva più governare facendo finta che la stragrande maggioranza della gente non esistesse. Se non ci fu un assalto al Parlamento — una specie di presa della Bastiglia, per intenderci — lo si deve ai litigi furibondi di una sinistra divisa, attenta a coltivare virulente polemiche dottrinali anziché imporre una propria politica. C'erano quelli che badavano alla «questione morale» e quelli che predicavano l'uso della forza. Radicali e moderati, socialisti riformisti e intransigenti, parlamentari legalisti ed extraparlamentari, repubblicani mazziniani ed ex mazziniani litigavano sulle banalità e finivano per dimenticarsi delle ragioni vere.

Il proletariato mandò in Parlamento un sarto, tal Giorgianni, in modo che dalla tribuna potesse lanciare chiodi e sassi sulla testa dei deputati che stavano sotto. Gli operai, a Firenze, inseguirono con i fischi la carrozza del presidente del Consiglio.

Tentarono di far fuori Umberto I e, alla fine, Gaetano Bresci ci riuscì a Monza. Così come, diverse volte, presero di mira Vittorio Emanuele III che sempre se la cavò perché la fortuna non gli voltò le spalle. Il 14 marzo 1912 il muratore Antonio d'Alba sparò quattro rivoltellate nella coupé del re e della regina Elena, durante il tragitto verso il Pantheon, dove i sovrani si recavano per la cerimonia «in memoriam» di Umberto I. Fu ferito gravemente alla testa il comandante dei corazzieri di scorta e ucciso il cavallo del brigadiere che gli stava a lato.

Per la prima guerra mondiale, arruolarono quella masnada di disperati, abbruttiti dalla fatica, li misero in divisa, li inquadrarono in battaglioni ordinati e ordinarono loro di imbracciare dei bastoni. Sì, dei bastoni perché altre armi non c'erano. Gli arsenali potevano fornire soltanto 750 mila fucili «91» (nel senso che erano stati costruiti nel 1891) e un milione di schioppi «Metterli» che, quanto a fabbricazione, erano anche più vecchi. Resta incomprensibile perché, non avendone a sufficienza per noi, ne cedemmo 300 mila ai russi.

Per addestrarsi accorreva qualcosa di lungo e di sottile, da appoggiare alla spalla durante le marce, da mostrare al «presentat arm!» per la rassegna militare e da allungare in direzione di un ipotetico nemico per sparargli addosso. Qualcuno faceva anche «bu-u-um» con la bocca per dare un tocco realistico alla scena.

Non avevano neanche gli elmetti da mettersi in testa. Usavano una specie di chepì floscio che a tutto faceva pensare fuorché a un copricapo per soldati. Gli ufficiali, per dare un aspetto più marziale ai loro reparti, ordinarono di riempire le fodere con del cartone pressato in modo da dare a quel cappello una forma dignitosa.

Non avevano i cappotti perché i comandanti prevedevano una guerra-lampo da risolvere in poche settimane. Per vendemmia tutti a casa! Dunque, non era necessario approvvigionarsi per affrontare i rigori dell'inverno in montagna.

Niente aeronautica, pochi automezzi e una sola automobile (per il capo di stato maggiore).

Di mitragliatrici, nel 1912, ne erano state ordinate 460 sezioni alla ditta inglese Wickers. Al momento di entrare in guerra non ne erano arrivate nemmeno la metà. E poiché da quel momento le aziende della Gran Bretagna dovevano produrre per il loro esercito impegnato nel conflitto, era impensabile che la situazione potesse migliorare. Perciò, i responsabili dell'artiglieria italiana firmarono un contratto con la FIAT perché fornisse loro un tipo di arma che, tre anni prima, era stata scartata perché insufficiente.

C'era poco di tutto e mancava completamente l'intelligenza. I numeri risultavano abbondanti soltanto per gli uomini che, chiamati sotto le armi, una leva dopo l'altra, costituirono una massa umana quantitativamente poderosa.

Tuttavia, qualcuno poteva pensare che contadini e operai si trasformassero in guerrieri solo perché qualcuno l'aveva deciso e a qualcuno faceva comodo?

Gli sciagurati lo pensarono!

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Il 19 giugno (1916) un reggimento della brigata Barletta fu sterminato dalle cannonate italiane. Fuoco amico. Quel reparto era finito in mezzo a due contingenti austriaci che riuscivano a colpirlo, di fronte e di lato. I «nostri» gli spararono addosso da dietro. I comandanti volevano che quei ragazzi attaccassero, come se fosse possibile sfidare le leggi della natura e poiché i soldati non riuscivano a uscire da quella trappola nella quale erano finiti, per incoraggiarli, li bombardarono alla schiena. Sterminati. Per punizione gli altri uomini del reggimento restarono in trincea, in prima linea, per altri due mesi. E ci restarono come se fossero in prigione. Periodicamente, alla vigilia di operazioni d'assalto, arrivavano i carabinieri che si mettevano in fila dietro i soldati, armavano le mitragliatrici e gliele puntavano alla schiena. «Sparavano a chi si tosse attardato nei camminamenti, invece di andare all'assalto. C'erano uomini – ce ne sono sempre stati – che avevano paura di uscir dalle trincee, quando le raffiche degli austriaci sparavano all'impazzata. Tentennavano, cercando di ripararsi, e allora i carabinieri li prendevano e li fucilavano. A volte era lo stesso ufficiale che li ammazzava a rivoltellate».

I militari avevano capito che i pericoli maggiori arrivavano alle loro spalle e venivano da chi, con maggior riguardo, avrebbe dovuto proteggerli. Per loro non esisteva alternativa fra la possibile morte, lanciandosi contro i nemici o quella sicura, per una fucilata «amica», se avessero mostrato qualche incertezza.

Il sadismo politico militare di Cadorna non pretendeva che i soldati volessero la guerra: gli bastava che la combattessero. E per essere certo del risultato, li minacciava di una morte infamante, se appena avessero esitato a sfidare il nemico.

Vale per i fantaccini, gli alpini e i bersaglieri ma, con diverse proporzioni e differenti valori, anche per gli ufficiali.

I soldati erano lucidamente consapevoli del loro ruolo di condannati a morte. Comunque.

A tanta severità esibita con i dipendenti non corrispondeva altrettanto senso del dovere personale.

L'8 giugno (1916), gli austriaci attaccarono con violenza il presidio della brigata Enna. Le truppe erano stremate e non disponevano di riserve che potessero intervenire in caso di bisogno. Il colonnello comandante chiese dei rinforzi allo stato maggiore e, poiché non arrivava nessun rincalzo, per evitarsi guai, marcò visita e si fece ricoverare in ospedale. Alcuni testimoni registrarono le sue giustificazioni: «non ho il coraggio di assistere a quello che accadrà». I suoi soldati potevano arrangiarsi.

Il giorno dopo anche il «vice», comandante del «2° battaglione» si lasciò vincere dalla malattia e seguì l'esempio del suo capo, raggiungendolo in un letto dell'infermeria.

Risultato? Il corpo dei «territoriali» venne sopraffatto. Il terzo battaglione del «223° fanteria» cadde quasi per intero prigioniero dei nemici. Il primo e il secondo furono massacrati e coprirono il campo di battaglia di morti e feriti che morirono senza cure perché il capitano medico Scarpieri Lonigo era scappato a seguire il decorso della malattia degli illustri graduati.

Il monte Sisemol che rivestiva qualche importanza strategica passò in mano nemica Di chi la colpa? Dei soldati!

Il giorno dopo la sconfitta il generale Michele Asinari ordinò che si facesse vendetta esemplare. Nove soldati, scelti per estrazione fra i superstiti di quella immensa battaglia, vennero fucilati. Tre finirono davanti al plotone d'esecuzione sommariamente fasciati alla testa e alle braccia per le ferite riportate in combattimento.

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Badoglio fu personaggio di rilievo per quasi tutto il secolo ventesimo che attraversò, accumulando onori e stipendi. Ogni volta che lo si incontra, verrebbe voglia di impiccarlo all'albero della storia. Le sue piccinerie e, non di rado, le sue meschinità lo rendono caratterialmente disgustoso. La presunzione e, qualche volta, l'insolenza, con cui si presentava, obbligano gli studiosi a porsi una questione che resta senza risposta: come mai ottenne tante protezioni e tanta fortuna?

Era un mediocre che si alzava alle 7 del mattino, all'una si sedeva a tavola e alle 9 e mezzo — cascasse il mondo — andava a letto. Stava un quarto d'ora a leggere, poi spegneva la luce e, come se avesse testato anche l'interruttore del suo cervello, si addormentava di scatto. Come a comando. Pranzava in 22 minuti poi — non importa chi avesse come ospite — si alzava e andava a passeggiare.

I giornali, li guardava, distrattamente. Del resto, quanto capitava nel mondo lo lasciava del tutto indifferente. Badoglio si impegnò in un solo programma: la sua carriera.

Durante la guerra in Libia, quando era capitano, trovò modo di partecipare a una scaramuccia scoppiata fra militari e ribelli africani, attorno alla fonte d'acqua di Ain Zara. Quattro schioppettate che misero in allarme la guarnigione, soprattutto per le urla che i guerriglieri lanciavano, mentre montavano i loro cavalli. Nei resoconti ufficiali — chi poteva sostenere il contrario? — sembrò un conflitto degno della battaglia napoleonica di Austerliz. Un'altra scaramuccia, a Zanzur, passò per uno scontro epico e lui, condottiero di quelle imprese militari, fu ritenuto meritevole della promozione a maggiore.

Le sue colpe era capace di farle ricadere sugli altri e dei meriti degli altri riusciva ad appropriarsene. Comandò i reparti che conquistarono il Sabotino ma il merito non era suo. Il progetto della battaglia era dovuto ai generali Montuori e Venturi e l'esito favorevole dello scontro dipese dal maggiore Pecorini, al comando dei «Lupi di Toscana». Strano battibecco, dopo la vittoria. Venturi voleva sottoporre Badoglio al giudizio della corte marziale perché, dopo lo scontro, se ne era andato, abbandonando il suo posto e perdendo l'occasione di sfruttare il successo. Capello lo promosse sul campo e, in seguito, quell'episodio gli valse il titolo di «marchese del Sabotino».

Poca gloria anche in Etiopia che sembrerebbe l'impresa meno criticabile. Non riuscì a spuntarla nemmeno contro un esercito di indigeni raccogliticci, senza ordine e senza scuola militare. Li sconfisse, con poca gloria, usando i gas. Dovette apparire disdicevole anche a lui perché non ne fece cenno e, a distanza di decenni, tentarono ancora di negare le circostanze. Di quella ridicola vittoria menò vanto come non era accaduto nemmeno in occasione dei trionfi della Roma imperiale. Accanto all'androne d'ingresso di casa sua, fece murare una lapide con l'incisione: «come falco giunsi» che, per l'appunto, poteva richiamare il più famoso «veni, vidi, vici» di Giulio Cesare.

Un profittatore: avaro, gretto, bugiardo, carrierista ineguagliabile. Attorno a lui — sempre e comunque — sospetti infamanti.

Non si preoccupò di apparire un cinico. Quando seppe che il nipote era stato gravemente ferito, in un'azione di guerra, trovò modo per compiacersene: «servirà a far sapere che io non imbosco i parenti».

Fu il liquidatore dei drammi nazionali e, come capita in occasione delle grandi svendite, c'è qualcuno che perde tutto e qualcun altro — lui — che si arricchisce a dismisura e illecitamente.

Si vantò, quando era ambasciatore in Brasile, di percepire un assegno di un milione, di averne guadagnati cinque, quando era governatore in Libia e di averne intascati 26, vendendo a un marajà indiano i vasi del palazzo imperiale del Negus di Addis Abeba.

Dopo ogni sconfitta, all'esito della quale Badoglio non poteva considerarsi estraneo, riusciva a scambiare il posto dell'imputato con quello del giudice. Decideva le sentenze, anziché subirle e si ritrovava a essere riconfermato negli incarichi che aveva malamente svolto. Anzi, promosso, decorato, ricompensato, caricato d'onori e considerazione. Che, in proporzione, aumentasse anche il disprezzo che lo circondava, gli interessava relativamente. Di difensori, infatti, ne aveva pochi e, come tutti i difensori delle cause perse, per aiutarlo, si trovarono costretti a giocare con le parole, arrampicarsi sui vetri, ingrandire il dettaglio, a costo di trascurare l'insieme della vicenda. Ai Savoia andava bene. Loro si tenevano sempre a disposizione un generale da poter utilizzare per gli affari sporchi. Badoglio occorreva salvarlo perché poteva servire per il «dopo».

Untuoso e servile con il Mussolini presidente del consiglio al quale si rivolgeva con umida e ipocrita cortesia; codardamente ostile con quello che era stato disarcionato dal potere, dopo il 25 luglio (1943).

Indifferente, se non per i propri interessi, durante il Ventennio. Abulico, subito dopo, quando gli sarebbe toccato il compito di organizzare i reparti disorientati. Vilmente preoccupato di salvare la sua inutile pelle, l'8 settembre, in fuga verso Brindisi. Mentre gli italiani dovettero scegliere di farsi massacrare – o con i nazi-fascisti o contro di loro – per decisioni che, a volte, non si potevano spiegare, il maresciallo d'Italia, curvo sotto il peso delle medaglie e delle decorazioni, intrepido, stava scappando dalle responsabilità e dall'onore.

Ugualmente, la vigilia di Caporetto. L'attacco doveva avvenire sul fronte di Badoglio e lui ostentò una sicurezza criminale. «E chiel, l'on cà fa chiel?» gli aveva chiesto Cadorna e lui, rispondendo in piemontese, lingua nobile nell'esercito sabaudo, dichiarò che si sentiva assolutamente a posto. Forse, si era dimenticato una cosa: preparare i campi di concentramento per gli austriaci che avrebbe catturato. Chissà se questa sicurezza gli veniva dall'imprudenza o dall'incoscienza.

Lo spaccone assicurò: «ho tante artiglierie da sterminarli appena escono dalle trincee». In effetti, disponeva di 800 bocche da fuoco che potevano radere al suolo gli altopiani ma ordinò che nessuno sparasse perché, quell'ordine, voleva impartirlo lui personalmente. Però, non rimase in linea, a Ostri Kras, come sarebbe stato logico se voleva condurre personalmente le operazioni della battaglia. Si ritirò a Cosi dove aveva disposto il suo Quartier generale. Erano solo tre chilometri ma quando scoppiò la tempesta, anche quella distanza relativamente breve diventò insormontabile.

Cenò alla solita ora e, subito dopo, rispettando la routine alla quale si era abituato, andò a dormire. «Vadano pure a riposare, tranne chi è di turno di guardia». All'ufficiale di servizio le ultime disposizioni: «lei, vigili attento e, per qualunque cosa, sa dov'è la mia camera». Non c'era minaccia che potesse fargli rimandare il sonno. Anche l'8 settembre dormiva.

«Non ci saranno problemi – sentenziò, la notte di Caporetto – più collegati di come siamo noi...». Aveva il telefono ma non si era preoccupato di fare interrare i fili perciò le prime granate mandarono in frantumi gli impianti. Disponeva di «strumenti ottici» ma la nebbia che era calata impediva di vedere il proprio vicino. E se pensava di utilizzare i «mezzi acustici», prodotti dalle trombette bi e tri-tonali, il frastuono della battaglia impedì che quel flebile richiamo potesse essere percepito. Mandò dei messaggeri per portare ordini e ricevere informazioni ma vennero ammazzati dallo sbarramento degli austriaci. Restò muto, come un conferenziere che aveva perduto la voce.

A volte la storia è perfida. Cannoniere – Alfredo Cannoniere – è il nome del colonnello, destinato al comando di quella rassegna sterminata di batterie. Rispettando le disposizioni, non sparò nemmeno un colpo.

Per quanti arzigogoli si vogliano imbastire, la sconfitta della prima guerra mondiale, il nome del primo responsabile, l'ha indicato: Pietro Badoglio.

Tracotante prima della battaglia, il generale si ritrovò annichilito. Qualcuno disse che, correndo per scappare, perse il cappello. Altri riferirono che i comandi austriaci avevano individuato la frequenza da dove partivano le sue chiamate, per cui erano in grado di bombardare in prossimità della sua auto, quando si spostava. Altri ancora assicurarono che si sedette su un masso, mormorando che non restava che aspettare i carabinieri che, certamente, sarebbero arrivati per portarlo in prigione.

Alcuni ufficiali lo videro mentre tentava di rimontare la fiumana dei soldati che si ritiravano. Cercava di fermarli per chiedere loro di tornare indietro. Estrasse la pistola perché i suoi ordini risultassero più efficaci. Un militare lo guardò di traverso, fece un gesto schifato, con il dorso della mano e gli sibilò un «ma va muri ammazzato...».

Comunicò al comando che aveva fatto riconquistare il Globocak e non era vero perché, in quel momento, la montagna non era stata ancora perduta. Ordinò alla «19a divisione» di correre a difendere la linea dello Jeza, ignorando che la «19» era già lì proprio per quello. Chiese a tre divisioni di traghettare sulla destra dell'Isonzo, quando ormai non c'era più niente da fare perché l'esercito nemico ci era già passato da un pezzo. E, giusto per addossare qualche sua colpa sugli altri, denunciò che la brigata Lecce aveva ceduto, ritirandosi, senza combattere. Era un'infamia ancora più grande perché quei ragazzi si erano fatti massacrare, per colpa delle sciocchezze che lui aveva deciso per loro.

La «19° divisione», comandata dal generale Giovanni Villani sopportò il primo urto, poderoso, degli austriaci e venne fatta a pezzi. Il comandante conosceva la debolezza del suo fronte ma aveva assicurato che i suoi uomini si sarebbero battuti fino alla morte. A cominciare da lui. «State certi – aveva assicurato il comando supremo – passeranno solo sul mio corpo». Fu uno dei pochi che mantenne la parola.

Tentò in ogni modo di venire a capo di una situazione che lo stava travolgendo. Corse, facendo la spola fra i reparti, come un ufficiale inferiore, e si rese personalmente conto che la sconfitta stava diventando una disfatta. Accanto a un posto di guardia che riteneva suo, sentì che i soldati armavano i moschetti. «Fermi, non sparate, siamo italiani...!». Spararono perché erano austriaci: erano già arrivati lì. Villani si ritirò nella casupola che utilizzava come ufficio e si sparò una rivoltellata. Poche righe per giustificarsi: «Non ce la faccio più... lascio ad altri l'incombenza di continuare...».

Si suicidò anche il generale Gustavo Rubin de Cervin. Non accettò che venisse messo in dubbio il suo onore di soldato. Badoglio l'accusò di avere ceduto sull'Isonzo «intempestivamente» e lo denunciò al generale Carlo Petitti di Roero. I due confabularono. C'erano gli estremi per la fucilazione immediata? Convennero che no ma fecero avviare le procedure per un processo che si sarebbe celebrato davanti ai giudici del tribunale militare. Un uomo onesto, trascinato a giudizio da un lestofante? Rubin de Cervin non accettò le decisioni che lo riguardavano. Fece chiamare il suo attendente e lo mandò da sua madre per comunicarle che il figlio era morto. Appoggiò la canna della rivoltella alla tempia e si fece saltare le cervella.

Per Badoglio la promozione e una medaglia d'argento.

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«A causa del cedimento della II Armata, vilmente ritiratasi, senza combattere e ignomignosamente arresasi al nemico...». Il comunicato che Cadorna firmò, il primo novembre, sembrò un atto d'accusa senza attenuanti. Aveva scaricato le colpe sugli altri e si sentiva già meglio. «Tale subitaneo cedimento della nostra linea, in un punto vitale, per opera di truppe avversarie, non preponderanti di numero, è solo spiegabile come conseguenza di un cedimento morale i cui terribili effetti gravano su quanti non hanno sentito la loro responsabilità di uomini e di soldati».

Il ministro della guerra Vittorio Alfieri, pure generale ma non della corte di Cadorna, lo fece bloccare e il ministro Orlando preparò una nuova versione. «La violenza dell'attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della II Armata hanno permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sul fronte Giulio. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti a impedire all'avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria».

Solo quel giorno gli italiani che comprarono il giornale seppero che c'era stata Caporetto. Ben inteso, ebbero una vaga idea che si doveva parlare di una sconfitta del loro esercito. Gli inviati, dal fronte, si preoccuparono di raccontare una cronaca edulcorata. Fino ad allora, per cinquanta centesimi, avevano proposto una quantità di bugie e di sciocchezze. Barzini, per esempio, raccontò un assalto che aveva visto solo lui. «L'eroica brigata bersaglieri saliva dopo poche ore, riprendeva la montagna, catturava sulla vetta prigionieri e mitragliatrici, spazzava il nemico dalle pendici fino ai contrafforti». Raccontava della battaglia del Globocak che, al contrario, venne investito dalle truppe nemiche che stroncarono ogni difesa. I nemici finirono i feriti con le mazze ferrate.

In quel trambusto andarono perduti centomila uomini, cinque milioni di scatolette di carne e settecentomila di salmone, ventisettemila quintali di gallette, tredicimila di pasta, cinquemila ettolitri di vino, seicentosettantaduemila camicie, trecentoventunmila paia di scarpe.

Sembrava che non ci fosse più niente da fare. Felice Trojani, classe 1897, era un aspirante con un mese di anzianità e da otto giorni stava al fronte. Il generale Rosso, comandante della brigata Arno, suo massimo superiore, riunì gli ufficiali per spiegare le strategie ma i suoi commenti restavano senza senso perché non c'era una carta geografica per verificarne la praticabilità. Di cartine ce n'erano due: una per il generale e una per l'amico del generale. Il giorno dell'attacco additarono al Troiani il fiume Isonzo e gli ordinarono di non muoversi. Obbedendo, non si mosse finché i tedeschi, arrivando, lo circondarono. «I miei soldati uscivano dalle buche come scarafaggi. Erano contenti. Qualcuno cercava anche di baciare la mano a chi lo prendeva prigioniero. La mia guerra era finita e non avevo sparato un colpo».

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