Copertina
Autore Daniele Del Giudice
Titolo Orizzonte mobile
EdizioneEinaudi, Torino, 2009, Supercoralli , pag. 144, cop.ril.sov., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-06-19793-3
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa italiana , viaggi , mare , paesi: Cile , paesi: Argentina
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Pagina 3

Vorresti gridare subito la tua storia, vorresti dire «Talvolta credi di commettere tutti gli errori passati e futuri», oppure «Ogni uomo porta in se stesso una camera», oppure «Se potessi capire come mai è finita così», in bilico sopra un filo, un fuso, ma se è vero che ogni uomo ha in se stesso una camera, la tua è tutta in disordine, sul comò si ammucchiano vecchie fotografie, e tu penseresti «È impossibile ricordare tutto», invocheresti la distrazione perché è la sola che scampa al dolore, e intanto in una scatola nell'armadio di cucina c'è un uovo di pinguino, bucato e svuotato dal bianco e dal tuorlo, riportato dal Sud piú profondo, il piú profondo e radicale dei Sud, un gelido Meridione. O forse sta per uscire il tuo numero, qualcuno dice «Sai, il mio numero sta per uscire, lo sento, lo so, sono usciti i numeri di tutti quelli che conoscevo», e ognuno vedendo la pallina fermarsi nella fossetta non ha nemmeno aspettato che il croupier lo annunciasse ad alta voce, si è alzato e si è incamminato verso la porta, col suo numero scritto sulle spalle, come un atleta al termine della gara, uno di quelli che non solo non arrivano primi ma la corsa la finiscono prima della fine. Ecco, vorresti gridare subito un grumo di dolore, o di gioia, che non si articola in parole ordinate, ma tutte insieme, esplose come esplode una stella, e c'è un silenzio attonito e glaciale, e dov'è la calma allora, dov'è la tua calma, dov'è il governo, dove la composta malinconia dell'imperscrutabile capitano, un po' distratto, un po' silenzioso, colui che tiene le fila, un uomo sui fili che ha voluto tendersi da sé?

I fili sono trecentosessanta, ma ventiquattro contano piú degli altri, dodici verso destra e dodici verso sinistra, e da qui potrei cominciare, ma cominciare significa decidere un prima e un dopo, dare un ordine, isolare dal flusso, rompere la simultaneità, uscire dalla compresenza, fare come se esistesse una frase alla volta, un'immagine alla volta, un pensiero o un ricordo o un racconto alla volta, uno e poi uno e poi uno, e non tutto insieme. Sforzati di restare in questo disordine, di aderire ad esso, ma non è facile e non sempre è possibile, non sempre ci riesco. In questo istante, in questo preciso istante, potrei essere l'uomo che controlla gli orologi nel turno di notte, un vecchio signore chiuso nell'osservatorio di Greenwich, dove ha trascorso gran parte delle notti della sua vita, in una notte come tante altre, non un guardiano del faro ma un guardiano del tempo, poiché qui dentro non c'è una lanterna che gira, girano solo i meccanismi degli orologi, ventiquattro orologi in fila, ciascuno sfalsato di un'ora, un'ora a crescere verso est dove il sole cresce, un'ora a calare verso ovest dove il sole cala. Ogni orologio un fuso, ogni fuso un filo, lungo i fusi le storie colano giú, colano fino a te che nel frattempo sei già arrivato laggiú a guardarle dal di sotto.

Per sua natura, la Storia non è che scrittura in una forma diversa.

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Punta Arenas, 53° 10' sud e 70° 56' ovest; Port Famine, 54° 48' sud e 68° 18' ovest, ultima settimana dell'estate australe, 1990.


Il Centro Geográfico de Chile non è un istituto di ricerche ma un cippo di pietra bianca nel paesaggio deserto e in un vento feroce sullo stretto di Magellano. Informa che qui, nella striscia di mare livido che separa la Patagonia estrema dall'Isola Grande della Terra del Fuoco, tra i ghiacciai che colano in acqua e il giallo ocra delle pampas, è qui il centro del Cile. Ma come può esserlo se mi trovo in fondo al Cile? Il fatto è che il Paese ha inglobato il mare di Drake e si è annesso una porzione di Antartide, uno spicchio compreso tra il novantesimo e il cinquantatreesimo meridiano che si stringe fino al Polo. Anche l'Argentina e la Gran Bretagna rivendicano quel territorio ma il Cile si è già ritagliato gli stessi quattromila chilometri che ci sono da qui al confine settentrionale col Perú. Per questo sono 'nel centro'. Nei giornali posso leggere le previsioni del tempo per Santiago e Valparaíso e Viña del Mar, piú quelle per un quarto di Antartide e il Polo Sud. Aspetto che un aereo militare mi porti laggiú.

Al viaggiatore la Terra del Fuoco non offre monumenti ma natura e storie, e le storie hanno una particolare follia e crudeltà. Nacquero dall'accostamento di elementi eterogenei come in certe concrezioni geologiche stupefacenti, come nell'immagine che ho di fronte: in un solo colpo d'occhio acque grigie, campi di colore morbido a contatto con ghiacciai perenni e foreste umide di faggio antartico. E il cippo. A cristallizzarlo qui fu la velocità con cui tutto accadde nell'arco di un secolo, e ciò che accadde fu un piccolo 'cuore di tenebra' alle porte dei ghiacci.

A Port Famine, sede del centro geografico del Cile, sono arrivato da Punta Arenas, il porto piú meridionale del mondo, seguendo la carretera sterrata che scende lungo lo stretto verso sud-ovest. Poteva darsi che di Punta Arenas, che una volta non era dov'è oggi, restasse qualcosa del primo insediamento: una colonia penale cilena della metà del diciannovesimo secolo i cui reclusi si ammutinavano periodicamente e facevano a pezzi i pochi immigrati cileni che provavano a vivere lí intorno. I forzati e le guardie carcerarie conducevano un'esistenza tanto penosa che un giorno si ammutinarono tutti, perché anche i soldati condivisero le idee dei galeotti. Si impadronirono della città, mutilarono il comandante della guarnigione, lo uccisero e appiccarono la sua testa sulla porta della prigione, e poi si diedero al saccheggio. Tre giorni dopo arrivò una nave da guerra cilena. Gli ammutinati disponevano di una quarantina di cavalli, ma li caricarono di cose futili e non dei viveri necessari; cosí, dopo aver ucciso i cavalli per estrema necessità, morirono uno dopo l'altro nella solitudine del deserto patagonico.

Ma di quella colonia penale non c'è traccia. E nemmeno di Port Famine, a parte un cartello e una lapide per ricordare che Pedro Sarmiento, mentre andava alla ricerca della mitica Ciudad de los Césares, fondò qui nel Cinquecento, quando gli indigeni ci vivevano già da migliaia d'anni, la prima città e la chiamò Rey Felipe. Nessuno la conobbe mai con quel nome. Circa tre anni dopo la sua fondazione ci passò l'inglese Thomas Cavendish, e trovò solo i resti di persone morte per freddo e per fame. Con la concretezza dei corsari sostituí al nome regale quello piú rispondente di Port Famine, 'Porto Carestia'.

Di fronte c'è l'isola plumbea di Dawson che fu l'ultima residenza degli indios custoditi dai missionari italiani. E che fu la prima nuova residenza dei ministri di Allende quando venne il loro turno. A dire il vero il posto non era scelto male. Una penisola minuscola, non piú di quattro o cinque chilometri di lunghezza, compresa tra due piccole baie e con un boschetto dolcissimo. Vista adesso, nell'estate australe, non sembra affatto un luogo di fame e di stenti, anzi. Per il panorama splendido dello stretto e l'isola subito al di là dell'acqua e le due baie ombreggiate e tranquille, potrebbe essere un gioiello turistico.

Dopo una curva a gomito trovai sette o otto croci tra l'erba, col nome cancellato dalle piogge, forse c'era anche quella di Clovis Gauguin che sapevo morto al largo di Punta Arenas durante una crisi di rabbia, mentre litigava col comandante della nave su cui lui, sua moglie e íl figlio Paul, il pittore, stavano andando in Perú. In effetti dal cimitero era stata portata via una croce, la trovai nel piccolo museo della missione salesiana di Punta Arenas. Padre Vincenzo Lucchelli, il conservatore del museo, arrivato qui nel 1932, la custodiva prudentemente dietro la fragilità degli anni, parecchi anni, come custodiva i segreti delle vicende in Terra del Fuoco.

Ma la croce non era di Clovis Gauguin, apparteneva a Pringle Stokes, primo ufficiale del brigantino di flotta di Sua Maestà Britannica Beagle, morto nell'agosto del 1828 «for effects of the anxiety», come era stato inciso a fuoco sul legno della croce da chi l'aveva seppellito, ormai quasi illeggibile, abraso dal tempo e dalle intemperie. La Beagle era lunga ventisette metri e mezzo, aveva sei cannoni, sessantacinque uomini di equipaggio e duecento tonnellate di stazza. Il primo viaggio della Beagle avvenne il 22 maggio 1825 al comando di Stokes, la missione era quella di scortare una nave piú grande, l' Adventure, per un'esplorazione idrografica della Patagonia e della Terra del Fuoco, missione che purtroppo non riuscí perché il comandante non aveva potuto sopportare la solitudine e la desolazione del luogo. A Port Famine, nello stretto di Magellano, Stokes si chiuse nella sua cabina per quattordici gíorni, poi prese una rivoltella, la caricò, si sparò, e neppure questo riuscí perché mori dopo dodici giorni di agonia mentre il suo cervello lentamente si congedava da lui. In un posto tanto remoto e in un tempo cosí lontano da noi, il suicidio del capitano Pringle Stokes in Terra del Fuoco ha qualcosa di emblematico, non poteva essere un suicidio come gli altri.

Alla Beagle venne nominato un nuovo capitano, forse timoroso della stessa depressione che aveva devastato e portato Stokes al suicidio. Era Robert FitzRoy, abile marinaio molto versato in geografia, inventore e costruttore di uno speciale barometro tra i primi della nascente meteorologia. Salpò il 27 dicembre 1831 per una seconda spedizione esplorativa e fece il giro del mondo, Atlantico, America del Sud, Oceano Pacifico, Tahiti, Australia. Davanti all'isola di Lennox stabilí il contatto con gli indigeni Yagan. Non erano cannibali come poi credette Darwin, ma nemmeno dei santi.

Erano il popolo piú meridionale del mondo, tremila chilometri piú a sud del Sudafrica, venticinque paralleli piú giú di Buenos Aires e trenta gradi di temperatura in meno. Tenevano i fuochi accesi anche nelle canoe, e come gli Alakaluf vivevano di pesca mentre gli Ona cacciavano il guanaco con fionde ricavate da un ossicino a forcella di balena. Per questioni di donne o di clan si massacravano sovente tra di loro. Non credevano in una religione ma in una fantasmologia, una metafisica delle presenze, per lo piú sonore o luminescenti: ognuno aveva il suo fantasma da vivo, il suo 'mehn', e quando moriva anche il mehn svaniva ma a nessuno interessava sapere dove fosse andato. Dell'aldilà non pensavano nulla, né premi né castighi, e se qualcuno parlava loro dei morti si offendevano. Erano beffardi, imprevedibili, bugiardi. Avevano una lingua complessa e poetica, una di quelle lingue 'di situazione' o deissi; conoscevano almeno cinque parole per dire neve e per spiaggia ne avevano ancora di piú perché la scelta del vocabolo dipendeva dagli stati d'animo di chi parlava o dalla sua ubicazione rispetto all'interlocutore o dalla posizione dell'interlocutore rispetto al paesaggio, se a separarli c'era terra o acqua, oppure dall'orientamento geografico della spiaggia.

FitzRoy riportò in Inghilterra quattro di loro con la lodevole intenzione di indurli a una vita migliore e piú felice: un giovane che fu battezzato Boat Memory, 'Ricordo della Nave', un altro chiamato York Minster, 'Monastero di York', il nome di un'isola vicina a Capo Horn, una bambina di nove anni, Fuegia Basket dunque 'Cesta Fuegina', e infine Jemmy Button perché dicono che l'avesse pagato a suo padre un bottone. Ma è un racconto ridicolo, nessun indio avrebbe venduto suo figlio nemmeno per l'intera Beagle con tutto il carico che aveva a bordo; almeno scrisse cosí Lucas Bridges nel suo El Ultimo Confín de la Tierra, osservando semplicemente che quando gli uomini bianchi battezzano gli indigeni amano scegliere i nomi piú fantasiosi. A Londra gli indios furono oggetto di studi, esposizioni esotiche e cortesi attenzioni da parte dei regnanti, e la regina Adelaide si tolse la cuffia e la mise sul capo della piccola Fuegia Basket. Poco tempo dopo tornarono in Terra del Fuoco con FitzRoy, che questa volta aveva imbarcato anche Darwin e parte delle osservazioni naturalistiche che lo avrebbero portato alla teoria dell'evoluzione per selezione naturale. Ma appena arrivati, Jemmy Button scomparve nei canali e si ripresentò seminudo solo quando la nave stava per andare via; ci fu un'ultima cena a bordo, e come nel finale di un film epico ciascuno si convinse della propria natura e che mai avrebbe potuto cambiare l'altro.

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In un angolo, prima di uscire dal museo, vidi una giubba e un berretto da marinaio. «E questi?», chiesi. «Questi sono del Piloto Pardo». Pardo era il comandante dello Yelcho, il battello che andò a recuperare i naufraghi della spedizione antartica di Shackleton e della sua nave, l' Endurance. E il comandante dello Yelcho prima di Pardo era stato il padre di Francisco Coloane , il maggiore scrittore di storie fuegine.

Quando andai a trovare Coloane ebbi di fronte un travolgente omone di ottant'anni. «Vai in Antartide dunque, - mi disse, - la prima volta ci sono stato nel 1947, ho lavorato alla costruzione della base Prat. A un certo punto si trattava di uccidere una foca perché lo zoologo ne voleva il cuore, e un ufficiale di marina mi passò la pistola e mi disse "Pensaci tu". Gli risposi che nemmeno io ce la facevo, ma insistette, e allora appoggiai la canna contro la nuca dell'animale pensando che fosse il modo piú veloce. Sparai un colpo, poi un altro e un altro ancora. Al terzo colpo la foca urlante fuggi in mare. Provo ancora rimorso, ma la cosa piú curiosa è che qualche anno dopo ho letto il nome di quell'ufficiale nella lista dei torturatori di Pinochet».

Io guardavo le pareti della stanza piena di cose di mare, e una fotografia di Coloane con Evgenij Evtusenko in Patagonia e un'altra con Vargas Llosa. «In marina sono stato quattro anni, ma il mio primo lavoro a Punta Arenas fu nella estancia della señora Braun, a Rio Grande. Bisognava prendere gli agnelli tra le mani, enucleare la sacchetta dei testicoli, tirare i nervi con i denti e riannodarli. Non usciva nemmeno una goccia di sangue e l'animale era tranquillo. Ne castravo cosí cinquecento al giorno». Mi disse che era stato sempre marxista, che aveva conosciuto l'anarchico Soto, che aveva navigato in barca con un indio il canale di Beagle, che stava scrivendo un libro su Gunnar Andersson, esploratore antartico nella spedizione Nordenskjöld e poi scopritore in Cina del pitecantropo di Pechino.

Scendeva il buio e parlammo dello Yelcho e di Shackleton. Ci riraccontammo questa storia come due ragazzi, perché è la piú bella storia antartica. Nel 1914 sir Ernest Shackleton parti di nuovo per il Polo Sud. C'era già stato nel 1902 con la prima spedizione Scott e nel 1907 con una spedizione tutta sua. Questa volta voleva attraversare il continente da una parte all'altra, ma la sua nave, l' Endurance, restò subito impaccata nei ghiacci del mare di Weddell e in nove mesi compreso l'inverno polare andarono alla deriva per duemila chilometri. Poi una sera ci fu uno schianto terribile e il ghiaccio di pressione stritolò la nave affondandola. Vissero per cinque mesi sulla banchisa trascinandosi dietro le scialuppe come slitte. Mano a mano che salivano di latitudine il lastrone cominciò a sciogliersi e una notte si spaccò sotto le loro tende e caddero in acqua addormentati. Quando ne uscirono si contarono: «Ne manca uno!», gridò Shackleton, nel buio vide qualcosa che si agitava freneticamente nell'acqua chiuso nel suo sacco a pelo e lo tirò su a forza di braccia, appena in tempo, prima che i due lastroni si richiudessero come il tetto di un cinema. Ammararono le scialuppe e fecero trenta miglia a remi tra gli iceberg, sbarcando mezzi morti sull'isola dell'Elefante, disabitata. Da qui Shackleton riparti con cinque uomini e una barca con una vela di fortuna, dopo ottocento miglia arrivò all'isola della Georgia del Sud, si arrampicò su un ghiacciaio e scendendo sul versante opposto trovò una stazione baleniera norvegese. Fu portato a Punta Arenas, qui raccolse una colletta di duemila sterline tra inglesi e cileni, noleggiò lo Yelcho col Piloto Pardo e tornò all'isola dell'Elefante per prendere i suoi uomini. In due anni di peripezie non ne aveva perduto nemmeno uno. C'è una foto che li ritrae tutti all'arrivo sul molo di Punta Arenas.

Su questo molo tante volte si era riunita una folla dalla composizione inspiegabile: la banda dei bomberos, consoli inglesi e jugoslavi e belgi, grandi estancieros e cercatori d'oro, missionari al capezzale degli indios massacrati, venivano tutti qui a vedere la partenza degli esploratori antartici che scattavano una fotografia dalla nave in allontanamento. Ho visto quelle foto: la folla è festosa e scettica, agita fazzoletti ma pensa «Chissà quando e se mai ci rivedremo».

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Da quando ho cominciato questo viaggio mi interrogo sul rapporto tra la natura e le storie. Il continente antartico, come ebbi modo di scoprire, non è quello delle immagini scattate nei rari giorni di tempo buono, dove tutto è 'bello' e il bello corrisponde all'imperante criterio fotografico di solarità. Se c'è una bellezza è quella complicata dei grigi e degli opachi, del diafano e della luce drammatica e irreale. Nonostante la grande violenza, la natura qui non è ostile o tanto meno amica, è solo indifferente alla presenza umana che è un fatto del tutto accidentale. Per noi il paesaggio è sempre un sentimento del paesaggio, ma quel che qui chiamiamo paesaggio non sgorga dalla coscienza, bensí la altera e le impone un'altra direzione. Per questo le storie antartiche sono cosí nervose.

King George Island è al novantacinque per cento coperta da ghiacciai che scendono a barriera fino in mare, o si arrestano poco prima creando baiette di sassi e terriccio morenico che le basi delle diverse nazioni contendono agli elefanti marini, ai pinguini, agli skua, oltre a reclamarsele tra loro. Cominciai a conoscere la voce dei 'roaring forties' e dei 'furious fifties', i quaranta ruggenti e i cinquanta furiosi, non un'età o un'epoca ma una misura in nodi del vento, quando il vento non sibila e non ulula ma arriva a colpi di raffiche e l'unica cosa a cui somiglia è il ruggito di un animale. Ogni ora portava un vento diverso, un'ora neve, un'ora pioggia battente, un'ora sole abbagliante, un'ora cappe di nebbia, e ogni tempo cambiava l'intensità e la colorazione della luce sui contrafforti rocciosi che spuntavano dai ghiacci. Nubi basse sfilavano piano senza essere seguite da alcun vento; altre volte raffiche isolate arrivavano dai diversi punti cardinali, senza legge apparente. Sembrava il luogo stesso d'origine delle nubi, il nido dei quattro venti. Dico cosí adesso ma dovrei subito capovolgere la prospettiva, come mi sforzai di fare in quei primi giorni: se proprio il paesaggio deve chiedere qualcosa al suo osservatore, è una sensibilità sufficiente per capire quanto esso non sappia cosa farsene di lui.

Ho cominciato a muovermi come posso: chiedo passaggi agli elicotteri della posta per le isole e la penisola, ai gommoni dei biologi che studiano i pinguini sugli iceberg e nelle baie, mi sposto a piedi da una base all'altra con marce di alcune ore, basandomi sulle mappe dello Scott Institute. Ho imparato a sommare alla temperatura il diagramma del vento, il 'wind chill' che incrementa il freddo con sbalzi improvvisi da meno otto a meno diciotto senza un motivo meteorologico; mi sono abituato a calcolare il punto di non ritorno e a prendere una decisione in rapporto al percorso e alla quantità di luce che rimane. Vado da solo e non patisco mai il freddo, il camminare diventa un ritmo e anche il vedere; solo la quantità di cioccolata che divoro indica un mutamento nei cicli abituali del corpo. Ogni ghiaccio, ogni pietra, ogni nebbia ha per me lo stupore di una scoperta e il senso di una violazione. Gli animali appaiono ovunque, e anche il rapporto con loro qui è diverso: non siamo noi a mantenerli, come nel nostro emisfero, come alle nostre latitudini, e questa differenza rimette ciascuno al proprio posto. Passo ore a guardare gli elefanti marini, enormi bestioni che dormono addossati l'uno all'altro sulla riva; la pelle coriacea che ricopre il grasso è macchiata di muschio e gli occhi grandissimi secernono una lacrima densa, che impedisce al vento di asciugare il liquido corneale, e che cola lentamente fino ai loro baffi.

Il cielo è l'altra metà del paesaggio, una specie di sfera di cristallo che può essere usata per vedere. A latitudini diverse accadde agli esploratori di scorgervi, riflesse nei miraggi, le navi e i compagni lasciati lontano, e i miraggi erano reali, solo le dimensioni ingannavano, sembrava tutto piú grande e piú vicino. Le nubi iridescenti e le aurore australi che squarciavano l'azzurro per effetto del vento solare non erano ancora nulla in confronto ai perieli e ai paraseleni, quando il Sole o la Luna si presentavano accompagnati da lune e soli gemelli o circondati da sezioni d'arco e croci luminose, che l'immaginazione riceveva come simboli teosofici o giocosi, e che erano il prodotto del passaggio dei raggi in un cielo intriso di minuscoli cristalli di ghiaccio.

Edward Wilson, biologo e pittore, il personaggio piú amato della 'banda antartica', vide il suo primo perielio nel 1902. Tirò fuori di corsa il teodolite e misurò tutti gli angoli e le distanze dei cerchi luminosi tra di loro, e annotò: «Era una visione stupenda ma molto difficile da descrivere, però sono riuscito a fare degli schizzi che credo potranno rendere un'idea». Le lastre fotografiche dell'epoca avevano tempi di posa troppo lunghi, e poi erano in bianco e nero, e i fenomeni ottici troppo mobili perché potesse restarne qualcosa. Cosí Wilson faceva degli schizzi a matita durante le marce e accanto a ogni forma luminosa appuntava il colore, arancio, giallo, violetto, trasformandoli poi in acquarelli nei momenti di riposo alla baracca. Morí con Scott nel 1912 nel disperato ritorno dal Polo Sud, dove avevano trovato piantata la bandiera norvegese di Amundsen e una lettera che li invitava a rendere omaggio al re Haakon VII. I suoi acquarelli danno l'immagine piú bella e adeguata di questo paesaggio: chiuso nella sua differenza da tutto quanto conosciamo e che mai ci accoglierà.

Del paesaggio, qui, fa parte tutto ciò che viene lasciato, ci sono ancora i cani di Scott, cadaveri essiccati, mummificati in modo naturale dal gelo, legati alla catena, perfino le impronte. Solo che sono impronte al negativo. Ne ho viste alcune che non erano affondate nel ghiaccio ma dal ghiaccio emergevano. Dalla distesa bianca veniva fuori uno zoccolo di ghiaccio a forma di piede, come una scultura. «È molto semplice, - mi disse Xie Zichu, glaciologo cinese, - chi ha lasciato questa impronta ha schiacciato neve fresca, compattandola e facendola ghiacciare. Poi il vento d'ablazione ha spazzato via la neve circostante, abbassando il livello. Per questo adesso spunta l'orma».

Mi capita di vedere altri tipi di impronte, altrettanto sorprendenti, nei luoghi piú deserti: intrecciato a una scogliera dai riflessi verdi, trovo un centinaio di metri di tubo di nafta venuto da chissà dove; o dietro la china di un ghiacciaio trovo un cingolato sovietico col cingolo staccato, e il tutto abbandonato lí dove si è rotto. Non c'è tempo nemmeno per provare sentimenti di sdegno, il paesaggio ti butta in faccia questi oggetti come uno schiaffo: «Questo è tuo».

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