Copertina
Autore Don DeLillo
Titolo L'angelo Esmeralda
EdizioneEinaudi, Torino, 2013, Supercoralli , pag. 212, cop.ril.sov., dim. 15x22x1,5 cm , Isbn 978-88-06-21185-1
OriginaleThe Angel Esmeralda [2011]
TraduttoreFederica Aceto
LettoreMargherita Cena, 2013
Classe narrativa statunitense
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Indice


    Parte prima

  5 Creazione (1979)
 27 Momenti di umanità nella terza guerra mondiale (1983)

    Parte seconda

 49 Il corridore (1988)
 57 L'acrobata d'avorio (1988)
 75 L'angelo Esmeralda (1994)

    Parte terza

107 Baader-Meinhof (2002)
121 La mezzanotte in Dostoevskij (2009)
147 Falce e martello (2010)
181 La Denutrita (2011)

 

 

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Pagina 27

Momenti di umanità nella terza guerra mondiale


Un appunto su Vollmer. Ha smesso di descrivere la Terra come un mappamondo, una cartina geografica che improvvisamente prende vita o un occhio cosmico puntato nello spazio profondo. Quest'ultima è la piú ambiziosa tra le immagini che ha usato. La guerra ha cambiato il suo modo di vedere la Terra. La Terra è fatta di terra e acqua, è la dimora di uomini mortali, per usare le raffinate definizioni da dizionario. Non la vede piú (vortice di tormenta, ardente di luce marina, respiro caldo di nebbia e di colore) come un'occasione per fare sfoggio di un linguaggio pittoresco, per placidi giochi o speculazioni.

A duecentoventi chilometri vediamo le scie delle navi e gli aeroporti piú grandi. Gli iceberg, i fulmini, le dune di sabbia. Gli indico le colate di lava e gli occhi dei cicloni. Gli spiego che quella striscia argentata al largo dell'Irlanda è una chiazza di petrolio.

Questa è la mia terza missione orbitale, per Vollmer è la prima. Θ un genio dell'ingegneria, è un genio nel campo della comunicazione e degli armamenti, e forse è un genio anche in altre cose. Come specialista di missione sono soddisfatto di essere io il responsabile. (La parola specialista, nel gergo del Colorado Command, si riferisce a una persona priva di specializzazioni). La nostra navicella è stata progettata principalmente per raccogliere informazioni. Il perfezionamento della tecnica del quantum burn ci permette di fare frequenti rettifiche orbitali senza dover accendere i razzi. Con la Terra intera come personale luce psichica ci avventuriamo in ampie traiettorie per esaminare satelliti telecomandati e probabilmente anche ostili. Seguendo tranquilli la nostra orbita riusciamo a penetrare nell'intimo delle attività superficiali di luoghi dove nessuno è mai stato prima.

La messa al bando delle armi nucleari ha reso le guerre piú sicure sulla Terra.

Cerco di non pensare ai massimi sistemi, di non cedere a vaghe astrazioni. Ma a volte le fantasticherie hanno la meglio. L'orbita terrestre spinge l'essere umano ad assecondare le sue inclinazioni filosofiche. Come si fa a evitarlo? Vediamo il pianeta nella sua interezza, abbiamo una vista privilegiata. Nel tentativo di essere all'altezza dell'esperienza che stiamo vivendo, siamo portati ad abbandonarci a meditazioni profonde sulla condizione umana e cose simili. Si avverte un senso di universalità, sorvolando i continenti, osservando i confini del mondo - una curva netta, come disegnata da un compasso - e pensando che appena dietro l'orizzonte c'è il crepuscolo sull'Atlantico, ci sono i sedimenti fluviali e le foreste di alghe, una catena di isole che brilla nel mare scuro.

Mi dico che sono solo paesaggi. Mi sforzo di pensare che la nostra vita qui non abbia niente di straordinario, siamo solo due coinquilini che si trovano in una contingenza improbabile ma possibile per colpa della carenza di alloggi o delle piene primaverili che hanno allagato la vallata.


Vollmer esegue i controlli di routine del sistema e poi va a fare un riposino nella sua amaca. Ha ventitre anni, la testa oblunga e i capelli tagliati molto corti. Mi parla del Minnesota del Nord mentre tira fuori le cose contenute nella scatola degli oggetti del cuore e le dispone su una superficie di velcro lí accanto per osservarle da vicino, con affetto. Io, nella mia scatola degli oggetti del cuore, ho un dollaro d'argento del 1901. E poco altro, niente di importante. Vollmer ha la sua foto di laurea, tappi di bottiglia, sassolini del giardino di casa sua. Non so se sono cose che ha scelto lui o se gli sono state imposte dai genitori nel timore che la sua vita nello spazio potesse essere priva di momenti di umanità.

Le nostre amache sono momenti di umanità, almeno credo, anche se probabilmente non era questo lo scopo iniziale del Colorado Command. Mangiamo hot dog e croccanti di mandorle, ci spalmiamo sempre il burro cacao sulle labbra prima di metterci a dormire. Al pannello dei comandi siamo in pantofole. La maglietta da football di Vollmer è un momento di umanità. Enorme, viola e bianca, in poliestere, con sopra il numero 79, il numero di un grande uomo, un numero primo senza un significato particolare; quando la indossa sembra che abbia le spalle curve e il corpo di una lunghezza abnorme.

- Mi deprimo ancora di domenica, - mi dice.

- Abbiamo anche qui le domeniche?

- No, ma ce le hanno laggiú e io le sento. Lo so sempre quando è domenica.

- Perché ti deprimi?

- La domenica con quella sua lentezza. Quella luce, l'odore dell'erba calda, la funzione in chiesa, i parenti che vengono a farti visita, col vestito buono. Θ come se la giornata non volesse mai finire.

- Nemmeno a me piaceva la domenica.

- Era un giorno lento, ma non nel senso di pigro. Erano giornate lunghe e calde, o lunghe e fredde. In estate mia nonna faceva la limonata. C'era una routine ben precisa. Tutta la giornata era prestabilita, in un certo senso, e la routine non cambiava quasi mai. La routine in orbita è tutt'altra cosa. Dà soddisfazione. Dà forma e sostanza al nostro tempo. Quelle domeniche erano informi, nonostante sapessi per filo e per segno cosa sarebbe successo, chi sarebbe venuto, cosa avrebbe detto ciascuno di noi. Sapevi quali parole avrebbe pronunciato una persona prima ancora che aprisse bocca. Ero l'unico bambino del gruppo. La gente era felice di vedermi. Io volevo solo andarmi a nascondere.

- Cosa aveva la limonata che non andava? - gli chiedo.

Un satellite militare telecomandato segnala un'intensa attività di raggi laser nel settore orbitale Dolores. Tiriamo fuori i nostri laser kit e li osserviamo attentamente per mezz'ora. La procedura di irradiazione è complessa, e poiché il pannello dei comandi funziona soltanto se azionato da entrambi in contemporanea, dobbiamo ripassare le varie misure previste con la massima attenzione.


Un appunto sulla Terra. La Terra è il baluardo del giorno e della notte. Θ sede di una sana ed equilibrata alternanza, un naturale avvicendarsi di veglia e sonno, o almeno questa è l'impressione di chi non è piú esposto a questo effetto di marea.

Perciò ho trovato interessanti le osservazioni di Vollmer sulle domeniche nel Minnesota. Lui ancora avverte, o afferma di avvertire, o crede di avvertire, quel ritmo intrinsecamente terrestre.

Per uomini cosí lontani dalla Terra è come se la forma fisica delle cose avesse l'unico scopo di rivelare la semplicità nascosta in una profonda verità matematica. La Terra ci svela la semplice, incredibile bellezza del giorno e della notte. Esiste per contenere e incarnare questi eventi concettuali.


Vollmer con i suoi pantaloncini e gli zoccoli a ventosa fa pensare a un nuotatore liceale, quasi completamente glabro, un uomo ancora incompiuto, inconsapevole di essere oggetto di analisi impietosa, inconsapevole di essere senza mezzi, in piedi con le braccia conserte in un luogo pieno di voci che rimbombano ed esalazioni di cloro. La sua voce suona vagamente stupida. Θ una voce troppo diretta, profonda, che gli esce dalla parte alta della bocca, un po' insistente, un po' troppo forte. Vollmer non ha mai detto niente di stupido in mia presenza. Θ solo la sua voce a essere stupida, un timbro da basso, grave ed essenziale, una voce senza inflessione né respiro.

Non ci manca certo lo spazio qui. La cabina di pilotaggio e gli alloggi sono stati disegnati con cognizione di causa. Il cibo è decente, a volte persino buono. Ci sono libri, videocassette, giornali e musica. Abbiamo liste di controllo manuali, liste di controllo orali, facciamo simulazioni di tiro senza traccia di noia o sciatteria. Diventiamo ogni giorno piú bravi a svolgere i compiti che ci sono stati assegnati. Gli unici pericoli vengono dalla conversazione.

Io cerco di far rimanere le nostre conversazioni sui binari della quotidianità. Ci tengo a parlare delle piccole cose, delle azioni abituali. Mi sembra giusto. La trovo una mossa sensata, viste le circostanze in cui ci troviamo, limitare i nostri discorsi ad argomenti familiari, a questioni di poco conto. Voglio costruire una struttura delle cose ordinarie. Ma Vollmer ha la tendenza a parlare di argomenti seri. Vuole parlare della guerra, delle armi. Vuole parlare di strategie e aggressioni su scala globale. Gli dico che lui, dopo aver smesso di descrivere la Terra come un occhio cosmico, ha deciso di considerarla un gioco da tavolo o un modello computerizzato. Vollmer mi guarda con la sua faccia ordinaria e cerca di coinvolgermi in una speculazione teorica: confronti tra attacchi spaziali selettivi e lunghissimi e ben modulati scontri terra-mare-aria. Cita esperti, menziona fonti. Che cosa dovrei controbattere, io? Lui tanto dirà che la gente è delusa dalla guerra. La guerra si sta trascinando verso la sua terza settimana. In un certo senso è una cosa sfibrante, estenuante. Lo intuisce dai notiziari che ci mandano periodicamente. La voce dell'annunciatore lascia trapelare un senso di disillusione, una stanchezza, un vago disincanto nei confronti di non si sa bene cosa, qualcosa. Su questo punto Vollmer probabilmente ha ragione. Anch'io ho avvertito qualcosa nel tono di voce dell'annunciatore, o del Colorado Command, nonostante le notizie ci arrivino censurate, nonostante ci tengano nascoste informazioni che secondo loro noi non dovremmo conoscere, data la particolare situazione in cui ci troviamo e vista la nostra posizione delicata, la nostra vulnerabilità. In quel suo modo diretto e apparentemente stupido, ma misteriosamente sagace, il giovane Vollmer dice che la gente non sta apprezzando questa guerra nella misura in cui la gente ha sempre apprezzato la guerra, traendone nutrimento, vedendola come un momento di elevazione, un fervore che si rinnova a intervalli periodici. Quello che di Vollmer non sopporto è che spesso io e lui condividiamo certe convinzioni radicate, solo che io faccio fatica ad accettarle. Queste idee, pronunciate con quella sua espressione mite, quella voce inespressiva, seria e sonora, mi innervosiscono e mi preoccupano molto piú di quanto non facciano quando rimangono inespresse. A me piace che le parole abbiano una certa reticenza, che rimangano aggrappate a un punto scuro nel piú profondo dell'interiorità. Con la sua schiettezza, Vollmer mette a nudo qualcosa di doloroso.


Θ trascorso abbastanza tempo dall'inizio della guerra per cominciare a notare riferimenti nostalgici ai conflitti che l'hanno preceduta. Tutte le guerre rimandano al passato. Navi, aerei, intere operazioni prendono il nome da vecchie battaglie, armi piú rudimentali, da quelli che noi percepiamo come scontri nati da piú nobili intenti. Il nostro ricognitore-intercettore si chiama Tomahawk II. Quando sono al pannello dei comandi ho davanti a me una foto che ritrae il nonno di Vollmer da giovane in mezzo a un campo brullo, con una divisa informe color cachi, un casco basso in testa e un fucile in spalla. Questo è un momento di umanità, che mi ricorda tra l'altro che la guerra è una forma di nostalgia.

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Pagina 44

Un appunto sull'universo. Vollmer sta per sentenziare che il nostro pianeta è il solo a ospitare forme di vita intelligente. Siamo un caso che è capitato una volta sola. (Bella osservazione da fare in presenza di qualcuno che non vuole parlare di massimi sistemi mentre si segue un'orbita ovoidale). Θ la guerra che gli dà queste sensazioni.

La guerra, dice, metterà fine all'idea che l'universo pullula, come si suol dire, di vita. Altri astronauti hanno guardato oltre i puntini delle stelle e hanno immaginato infinite possibilità, mondi a grappoli brulicanti di forme di vita superiori. Ma questo accadeva prima della guerra. Lui dice che il nostro punto di vista sta cambiando, il mio come il suo, mentre vaghiamo per il firmamento.

Vollmer vuole forse dire che l'ottimismo cosmico è un lusso riservato agli intervalli fra una guerra mondiale e l'altra? Proiettiamo i nostri fallimenti, la nostra disperazione sulle nubi stellari, sulla notte infinita? In fondo, si chiede lui, dove sono loro? Se esistono, perché non ci sono mai stati segnali, nemmeno uno, nessuno, neanche una minima indicazione a cui una persona seria si possa aggrappare, nemmeno un sussurro, un impulso radio, un'ombra? La guerra ci dice che è sciocco credere.


I nostri dialoghi con il Colorado Command cominciano a dare l'idea di convenevoli da tè e pasticcini generati automaticamente da un computer. Vollmer tollera fino a un certo punto il gergo di Colorado. Θ critico nei confronti delle loro espressioni piú degradate e non si fa scrupolo di farglielo notare. E allora perché, se sono d'accordo con le sue opinioni a tale riguardo, le sue lamentele mi irritano sempre di piú? Θ troppo giovane per fare il paladino della lingua? Ha la giusta esperienza, la posizione professionale per rimproverare il nostro ufficiale delle dinamiche di volo, il nostro ufficiale dei paradigmi concettuali, i nostri consulenti di stato sui sistemi per la gestione dei rifiuti e per le opzioni relative alle tattiche evasive? O è qualcos'altro, che non ha niente a che vedere con il Colorado Command e con le nostre comunicazioni con loro? Θ il suono della sua voce? Θ solo la sua voce che mi sta facendo impazzire?


Vollmer è entrato in una fase strana. Adesso passa tutto il tempo alla finestra, e guarda la Terra. Dice poco o nulla. Vuole guardare e basta, non fare altro che guardare. Gli oceani, i continenti, gli arcipelaghi. Siamo stati programmati per intraprendere una serie di orbite cosiddette variabili e non c'è monotonia da una rotazione intorno alla Terra a quella successiva. Sta seduto lí e guarda. Mangia alla finestra, spunta la sua lista di cose da fare alla finestra, dando appena uno sguardo alle istruzioni mentre passiamo sulle tempeste tropicali, sopra gli incendi boschivi e le maggiori catene montuose. Io aspetto che lui riprenda la sua abitudine di prima della guerra, che torni a usare frasi arzigogolate per descrivere la Terra: un pallone da spiaggia, un frutto maturato al sole. Ma lui si limita a guardare fuori dalla finestra, a mangiare croccanti di mandorle, con gli involucri che galleggiano in aria. Θ chiaro che quella vista riempie la sua coscienza. Ha il potere di ridurlo al silenzio, di zittire la voce che gli rotola giú dal palato, di lasciarlo tutto storto sulla poltrona, attorcigliato scomodamente per ore e ore di fila.

Quella vista dà un appagamento senza fine. Θ come la risposta a una vita di domande e di vaghi desideri. Soddisfa ogni curiosità infantile, ogni aspirazione messa a tacere, lo scienziato che c'è in lui, il poeta, il veggente primitivo, l'osservatore del fuoco e delle stelle cadenti, qualunque ossessione abbia mai tormentato le sue notti, qualsiasi desiderio dolce e sognante lui abbia mai provato nei confronti di quei luoghi lontani e senza nome, qualunque senso della Terra lui possegga, l'impulso neurale di una consapevolezza ancora piú scatenata, una comprensione per le bestie, qualunque fiducia in una forza vitale immanente, nel Signore della Creazione, qualunque segreta convinzione dell'idea dell'unicità umana, qualunque desiderio e speranza, qualunque troppo e non abbastanza, qualunque tutto in una volta e a poco a poco, qualunque bisogno ardente di fuggire dalle responsabilità e dalla routine, di fuggire dal suo essere troppo specializzato, dall'io circoscritto e rivolto all'interno, qualunque fossero i resti del suo fanciullesco desiderio di volare, dei suoi sogni di spazi strani e altezze inquietanti, le sue fantasie di una morte felice, qualunque inclinazione a un'indolenza sibaritica - lotofago, fumatore di erbe e piante aromatiche, occhi azzurri che fissano lo spazio -, ebbene, tutti questi bisogni sono soddisfatti, tutti raccolti e ammassati in quel corpo vivente, lo spettacolo che vede dalla finestra.

- Θ semplicemente troppo interessante, - dice alla fine. - I colori e tutto quanto.

I colori e tutto quanto.

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Pagina 75

L'angelo Esmeralda


La vecchia suora si alzò all'alba, con le articolazioni tutte indolenzite. Si alzava all'alba da quando era postulante e pregava in ginocchio sul pavimento di legno duro. Per prima cosa tirò su le persiane. Ecco il mondo, piccole mele verdi e malattie infettive. La stanza era attraversata da fasci di luce che permeavano le venature variegate del legno con un bagliore color ocra antico cosí gradevole alla vista per tonalità e composizione che doveva distogliere lo sguardo se non voleva incantarsi a guardarlo come una ragazzina. Si inginocchiava tra le pieghe della camicia da notte bianca, stoffa lavata e rilavata, battuta col sapone screziato, lasciata rigida e tigliosa. E il corpo là sotto, quella cosa esile che lei portava in giro per il mondo, perlopiú pallido come il gesso, mani chiazzate, vene superficiali, capelli corti, sottili, di un grigio biondiccio, e gli occhi azzurri come l'acciaio — quei due laghi che molti ragazzi e molte ragazze del tempo che fu avevano visto in sogno. Si fece il segno della croce, mormorando le parole appropriate. Amen, quella parola antica, che rimanda al greco e all'ebraico, in verità — toccandosi la vita per completare il segno della croce a forma di corpo. La piú breve tra le preghiere quotidiane, che garantisce però un'indulgenza di tre anni che diventano sette se si immerge una mano nell'acqua santa prima di segnarsi. La preghiera è una strategia pratica, l'acquisizione di un vantaggio temporale nei mercati dei capitali del Peccato e dell'Assoluzione.

[...]

Edgar parlò e proprio in quel momento la ragazzina si intrufolò in un labirinto di auto sfasciate: quando Gracie arrivò alla finestra la ragazzina era un puntino sperduto in mezzo alle basse rovine di una vecchia caserma dei vigili del fuoco.

— Chi è quella bambina che vaga in questa zona, — chiese Gracie, — ed evita le persone?

Ismael guardò la gang e uno di loro intervenne con la sua vocina stridula, un ragazzetto mingherlino con la pelle scura, a torso nudo e con un paio di jeans dipinti con lo spray.

— Esmeralda. La madre non si sa che fine ha fatto.

Gracie disse: — Potresti rintracciare la bambina e poi avvertire fra Mike?

— 'Sta ragazzina qua è veloce.

Piccolo mormorio di consenso.

— Corre come una pazza, 'sta ragazzina qui.

Risatine, brevi.

— Perché sua madre se n'è andata?

— Θ una tossica. 'Sta gente qui non è che puoi, come si dice, prevedere quello che fa.

Se mi permetti di insegnarti a non infilare un «come si dice» in ogni frase, pensò Edgar, ti avrò salvato la vita.

Ismael disse: — Forse la madre prima o poi torna. Si sente divorata dal rimorso. Bisogna pensare positivo.

— Θ vero, — disse Gracie. — Sempre.

— Ma la verità è che certi ragazzini stanno molto meglio senza i genitori. Perché sono i genitori stessi a minacciare la loro sicurezza.

Gracie disse: — Se qualcuno vede Esmeralda la porti da fra Mike o la trattenga, trattenetela, sul serio, finché non arrivo io, cosí le posso parlare. Θ troppo piccola per stare da sola e anche per vivere insieme alla gang. Fra Mike ha detto che ha dodici anni.

— A dodici anni mica è tanto piccola, — disse Ismael. — Uno dei miei migliori writer, uno che fa il wildstyle, lui c'ha esattamente dodici anni, piú o meno. Juano. Lo faccio calare con la corda per fare le lettere complicate.

— Quando potremo avere i nostri soldi? — disse Gracie.

— La prossima volta di sicuro. Con questi rottami io ci faccio poco e niente. Il mio margine è piccolissimo. Sto cercando di allargarmi al di fuori di Brooklyn. Vendere le mie auto a uno di questi paesi emergenti che stanno facendo la bomba.

— Facendo cosa? Non credo che quei paesi lí siano alla ricerca di auto sfasciate, — disse Gracie. — Credo che cerchino uranio da utilizzare per le armi.

— I giapponesi ci hanno costruito una flotta con la soprelevata della Sesta Avenue. La sapevate questa storia? Oggi è metallo di scarto, domani diventa un aereo che decolla dal ponte di una nave. Ehi, non stupitevi se i miei rottami vanno a finire in Corea, cioè tipo, del Nord.

Edgar notò il sorrisino sul volto di Gracie. Lei invece non sorrideva. Era un argomento che non riusciva proprio a prendere alla leggera. Edgar era una suora della guerra fredda che anni addietro aveva rivestito le pareti della sua camera con fogli di alluminio come scudo contro il fallout nucleare delle bombe comuniste. Non che escludesse l'idea che una guerra potesse essere un'esperienza elettrizzante. Sognava a occhi aperti lampi come cupole nel cielo che si riflettevano sulla sua pelle, in quel preciso momento cercava di evocare l'esplosione, con l'URSS sbriciolata alfabeticamente, quelle enormi lettere rovesciate come un gruppo scultoreo in caratteri cirillici.

Tornarono al furgone, le suore e tre ragazzi, e unitisi ai due ragazzi che già erano in strada cominciarono a distribuire il cibo, partendo dalle persone piú malmesse delle case popolari.

Salirono negli ascensori e percorsero i lunghi corridoi. Dietro ogni porta un insieme di vite inimmaginabili, con storie e ricordi, pesciolini che nuotavano nelle loro vaschette polverose. Edgar faceva da battistrada, i cinque ragazzini in fila dietro di lei, ciascuno con due buste di roba da mangiare, e Gracie fanalino di coda, che portava il cibo e diceva ad alta voce il numero di casa delle persone sulla lista.

Parlarono con una donna anziana che viveva da sola, una diabetica con una gamba amputata.

Videro un uomo epilettico.

Parlarono con due donne cieche che abitavano insieme e condividevano un cane guida.

Videro una donna sulla sedia a rotelle, che aveva una maglietta con su scritto FUCK NEW YORK. Gracie ipotizzò che quella donna avrebbe barattato il cibo per una dose di eroina, e della peggior specie, per giunta. I membri della gang guardavano, con aria cupa. Gracie serrò la mascella, socchiuse gli occhi chiari e continuò a distribuire le cose da mangiare. Parlarono di questa faccenda, non solo le suore ma anche la gang. Suor Grace contro tutti. Nemmeno la donna sulla sedia a rotelle pensava di dover ricevere il cibo.

Videro un uomo malato di cancro che cercò di baciare le mani di suor Edgar inguantate nel lattice.

Videro cinque bambini piccoli raggruppati su un letto affidati alle cure di un bambino di dieci anni.

Attraversarono corridoi. I ragazzini tornarono a prendere altra roba da mangiare dal furgone e ripercorsero i corridoi in fila indiana nella luce slavata.

Parlarono con una donna incinta che guardava una telenovela in spagnolo. Edgar le disse che se un bambino muore dopo essere stato battezzato va dritto in paradiso. La donna rimase colpita. Se un bambino era in pericolo e non c'erano preti in giro, le disse Edgar, lei stessa avrebbe potuto somministrare il battesimo. Come? Versando della normalissima acqua sulla fronte del bambino e dicendo: «Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». La donna ripeté le parole in spagnolo e in inglese e tutti furono piú contenti.

Attraversarono i corridoi superando cento porte chiuse ed Edgar pensò a tutti i bambini nel limbo, non battezzati, bambini in quella specie di oltretomba, circondati dall'inferno, e ai non bambini abortiti, una nuvola cosmica di feti unticci che galleggiavano negli anelli di Saturno, bambini nati senza difese immunitarie, bambini in camere sterili allevati dai computer, o bambini nati con delle dipendenze - le capitava spesso di vederne, neonati con la testa oblunga dipendenti dal crack, sembravano usciti da racconti del folklore contadino.

Sentirono la spazzatura che scendeva giú per gli scivoli degli inceneritori, camminavano uno dietro l'altro, tre maschi e due femmine, formando un solo corpo con le suore, una singola figura dal dorso ondeggiante composta da varie parti mobili. Scesero in ascensore e finirono le consegne in un gruppo di caseggiati dove i portoni, al posto dei vetri rotti, avevano assi di legno.

Gracie fece scendere la gang alla Riserva mentre un autobus si accostava al marciapiede. Che roba è, ci crederesti? Un autobus turistico tutto addobbato a festa e un cartello sopra il parabrezza con su scritto SOUTH BRONX SURREAL. Gracie respirava forte. Una trentina di turisti europei con le macchine fotografiche a tracolla salirono timidamente sul marciapiede davanti ai negozi sbarrati e alle fabbriche chiuse e guardarono dall'altra parte della strada il caseggiato abbandonato, poco lontano da loro.

Gracie era furibonda, e infilando la testa fuori dal finestrino urlò: - Ma che surreale. Θ tutto reale, qui, è tutto reale. Siete voi che rendete questo posto surreale, venendoci. Il vostro autobus è surreale. Voi siete surreali.

Passò un frate su una bicicletta sgangherata. I turisti lo guardarono pedalare. Ascoltarono quello che Gracie gridava. Videro arrivare un uomo che vendeva girandole che funzionavano a batteria, banderuole colorate fissate a un bastoncino, ne teneva in mano una decina e altre gli spuntavano fuori dalle tasche e da sotto le ascelle: era completamente circondato da palette di plastica che giravano, un signore anziano di colore con uno zuccotto giallo in testa. Videro quest'uomo. Videro la giungla di ailanti e l'ammasso sfasciato di macchine umiliate e guardarono il lastrone di sei piani con gli angeli dipinti e i festoni che sventolavano sopra le loro teste di cherubini.

Gracie intanto urlava: - Θ reale, è reale -. Urlava: - Bruxelles è surreale. Milano è surreale. Questa è l'unica cosa reale. Il Bronx è reale.

Un turista comprò una girandola e tornò sull'autobus. Gracie si allontanò borbottando. In Europa le suore indossano dei copricapi che sembrano case a sbalzo sulla spiaggia. Questo è surreale, disse. Non lontano dalla Riserva si era formato un ingorgo stradale. Le due donne erano sedute nel furgone con i pensieri che vagavano per conto loro. Edgar guardava i bambini che tornavano a casa a piedi da scuola, che respiravano l'aria che saliva dagli oceani e che arrivava in quella via ai margini del continente trasportata dai venti. Guai al bambino con le unghie sporche. Dava bacchettate col righello sulle nocche dei suoi alunni di quinta che non avevano le mani lucide come monete nuove di zecca.

Un clamore crescente intorno a loro, clacson stanchi e sirene della polizia e il grande rombo da dinosauro delle sirene delle autopompe.

- Sorella, a volte mi chiedo perché ti sobbarchi tutto questo, - disse Gracie. - Ti sei guadagnata un po' di pace e tranquillità. Potresti andartene a vivere in una cittadina a nord dello stato a lavorare per l'ordine. Quanto mi piacerebbe starmene seduta nel roseto con un bel giallo e il vecchio Pepper accoccolato ai miei piedi -. Pepper era il vecchio gatto della casa madre che si trovava nell'interno dello stato di New York. - Andare a fare un bel picnic al laghetto.

Edgar aveva un sorriso senza gioia che le galleggiava nei pressi del palato. Non aveva un gran desiderio di andare a vivere all'interno. La verità del mondo era li, proprio lí in quel posto, la casa della sua anima, lei stessa, vide se stessa, la bimba fifona che doveva affrontare il vero terrore delle strade per curare la distruzione dentro di lei. Dove altro poteva svolgere il suo lavoro se non sotto il muro folle e coraggioso di Ismael Muρoz?

Gracie scese dal furgone. Si era tolta la cintura, era scesa dal veicolo e si era messa a correre per strada. La portiera era rimasta aperta. Edgar capí all'istante. Si voltò e vide la ragazzina, Esmeralda, mezzo isolato davanti, e Gracie che correva verso la Riserva. Gracie si muoveva tra le auto con le goffe scarpe e la gonna sciatta. Segui la ragazzina oltre un angolo, nel punto dove l'autobus turistico era piantato in mezzo al traffico. I turisti guardavano quelle due figure che correvano. Edgar vedeva le loro teste che si voltarono all'unisono, girandole che vorticavano ai finestrini.

Tutti i suoni si raccolsero nel cielo che si scuriva.

Le parve di capire quei turisti. Si viaggia non per vedere musei e tramonti, ma per ammirare le rovine, terreni devastati, per i ricordi di torture e di guerre ricoperti di muschio. Intanto, a circa un isolato e mezzo di distanza, si accalcavano vari veicoli d'emergenza. Edgar vide degli operai che sollevavano le grate della metropolitana in mezzo a volute di fumo pallido e recitò una veloce preghiera, un gesto di speranza, un'indulgenza di tre anni. Poi cominciarono a emergere teste e torsi, indistintamente, persone che uscivano all'aria aperta con le mascelle storte, rantolavano sconvolte. Un cortocircuito, un incendio nella metropolitana. Nello specchietto retrovisore vide i turisti che scendevano dall'autobus e procedevano lungo la strada, in bilico per scattare le foto. E gli scolari che passavano, quasi disinteressati: in tv tanto avevano modo di vedere le immagini di gente che moriva sul serio. Ma che ne poteva sapere lei che era solo una vecchia che mangiava pesce di venerdí e sentiva la mancanza della messa in latino? Era molto meno degna di suor Grace. Gracie era un soldato, una che combatteva per la dignità dell'uomo. Edgar fondamentalmente era una piccola poliziotta, a guardia di una serie di leggi e divieti. Sentí il lamento delle auto della polizia nel traffico bloccato e vide un centinaio di passeggeri della metropolitana uscire dalle gallerie accompagnati da operai con i giubbini catarifrangenti, vide i turisti che scattavano le foto e ripensò al viaggio che aveva fatto a Roma molti anni prima, un viaggio di studio e rinnovamento spirituale, aveva fluttuato sotto le grandi cupole e si era aggirata per catacombe e seminterrati delle varie chiese e le tornò in mente, vedendo i viaggiatori che risalivano in strada, quando si trovava in una cappella sotterranea in una chiesa dei cappuccini e non riusciva a staccare gli occhi dagli scheletri accatastati, e pensava ai monaci la cui carne un tempo aveva decorato quei metatarsi, quei femori, quei teschi, un sacco di teschi ammucchiati in nicchie e angoletti, e ricordò di aver pensato con spirito vendicativo che quei morti sarebbero usciti dalla terra per sferzare e bastonare i vivi, per punire i peccati dei vivi - la morte, sí, trionfante - ma aveva ancora voglia di credere a quelle cose?

Gracie si mise a sedere sul sedile del guidatore, infelice e rossa in viso.

- Non l'ho raggiunta per un soffio. Eravamo arrivate nella parte piú fitta e poi mi sono distratta, mi sono spaventata a morte, a dire il vero, perché i pipistrelli, non ci potevo credere, proprio dei pipistrelli, cioè gli unici mammiferi volanti della terra, capito? - fece uno scherzoso movimento di ali con le dita, - sono usciti vorticando da un cratere pieno di rifiuti medici. Bende macchiate di secrezioni corporee.

- Risparmiami i particolari, - disse Edgar.

- Ho visto un tale numero di siringhe usate da soddisfare il desiderio di morte di intere città. Centinaia e centinaia di topi bianchi morti, tutti rigidi e appiattiti. Si potevano rivoltare come le figurine del baseball. Edgar stirò le dita dentro i guanti color latte.

- Ed Esmeralda è da qualche parte in mezzo a quegli arbusti e quelle auto sfasciate. Scommetto quello che vuoi che vive in una macchina, - disse Gracie. - Cosa è successo qui? Un incendio in metropolitana, a quanto pare.

- Eh già.

- Morti?

- Non credo.

- Peccato che non sono riuscita a prenderla

- Vedrai che se la caverà, - disse Edgar.

- Ma nemmeno per sogno.

- Sa badare a se stessa. Conosce il territorio. Θ intelligente.

- Prima o poi, - disse Gracie.

- Θ al sicuro. Θ intelligente. Se la caverà.

E quella notte, sotto il primo livello di sonno raffazzonato, Edgar rivide i passeggeri della metropolitana, maschi adulti, femmine in età fertile, tutti, estratti dalle gallerie piene di fumo, che procedevano a tentoni su passerelle, guidati su per la scala che portava in strada - padri e madri, genitori persi, ritrovati e riuniti, afferrati per le camicie e tirati su di peso, guidati verso la superficie da piccole figure senza volto con ali fosforescenti.

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Falce e martello


Attraversammo il ponte dell'autostrada, eravamo in trentanove, in tuta e scarpe da tennis, guardie davanti, dietro e di fianco, sei in tutto. Sotto di noi le macchine sfrecciavano, senza sosta, a una velocità amplificata dalla nostra vicinanza e dal rumore che facevano passando sotto il basso ponte. Non esiste una parola per descriverlo, quel suono, urgenza allo stato puro, prolungato, incessante, in direzione nord, in direzione sud, e ogni volta che attraversavamo il cavalcavia io mi chiedevo, immancabilmente, chi fossero quelle persone, i guidatori e i passeggeri, tutte quelle macchine, la velocità alla quale sfrecciavano, le vite che contenevano.

Io avevo il tempo di notare queste cose, il tempo per riflettere. Θ un lavoro massacrante, riflettere, anche in un regime di custodia attenuata, con distrazioni, aperture verso il mondo di un tempo. La partita di calcio dei detenuti nel campetto abbandonato del liceo al di là dell'autostrada era un distacco brioso dal pigia pigia delle file per il cibo, i conteggi, i regolamenti, le riflessioni di tutti i giorni. I giocatori viaggiavano su un pullman, gli spettatori andavano a piedi, le macchine rombavano sotto il ponte.

Io camminavo al fianco di un uomo che si chiamava Sylvan Telfair, alto, calvo, grondante pathos, un banchiere internazionale che si occupava degli strumenti esclusivi della finanza offshore.

— Segui il calcio?

— Non seguo nulla, — rispose lui.

— Ma, date le circostanze, vale la pena guardarlo, no? Ed è proprio il motivo per cui lo faccio.

— Non seguo nulla, — disse.

— Piacere, mi chiamo Jerold.

— Molto bene, — disse lui.

Il campo non era circondato da mura di pietra né da volute di filo spinato. L'unica recinzione perimetrale era una costruzione ormai pittoresca, una serie di vecchi paletti di legno che sorreggevano le rotaie cadenti. C'erano quattro dormitori, camere minuscole con letti a castello, bagni e docce. C'erano diverse strutture per l'orientamento dei detenuti, i pasti, le cure mediche, la tv, la palestra, le visite dei parenti e altre persone. C'erano ore di incontri coniugali per quelli accoppiati.

— Puoi chiamarmi Jerry, — dissi.

Sapevo che Sylvan Telfair non aveva ottenuto una stanza speciale con sistemi audiovisivi, bagno privato, permessi speciali per il fumo e un fornetto tostapane. C'erano solo quattro stanze di questo tipo in tutto il campo e quell'uomo che se ne stava per conto suo, emotivamente distante, con quel suo dolore discreto, sembrava meritevole di una considerazione speciale. Bloccato nei dormitori, pensai. Doveva sembrargli una condanna all'ergastolo che si aggiungeva ai nove anni che si portava dietro dalla Svizzera, dal Liechtenstein o dalle isole Cayman.

Volevo sapere qualcosa sul metodo di quell'uomo, la portata dei suoi crimini, ma ero riluttante a chiedere e senz'altro lui non mi avrebbe risposto. Io ero lí soltanto da due mesi e ancora cercavo di capire chi volevo essere in un posto come quello, come dovevo stare in piedi, come dovevo sedermi, camminare, parlare. Sylvan Telfair lo sapeva, chi era. Era un uomo che avanzava ad ampie falcate con una tuta ben stirata e scarpe da ginnastica bianche immacolate, i lacci annodati stranamente dietro le caviglie, un uomo formalmente assente da ogni sua parola e da ogni suo gesto.

Quando raggiungemmo il bordo del campo il rumore del traffico era un alito sulle cime degli alberi.


Da adolescente una volta mi capitò di leggere la parola spettro. Che parola fantastica, pensai, volevo essere spettrale, una persona che entra ed esce silenziosamente dalla realtà fisica. E ora eccomi qui, un fluttuante sogno febbrile, ma dov'è tutto il resto, l'atmosfera densa, pesante? C'è un uomo qua dentro che aspira a essere un biblista. Ha la testa piegata tutta da un lato, quasi appoggiata sulla spalla sinistra, per una qualche malattia senza nome. Io ammiro quest'uomo, mi piacerebbe rivolgergli la parola, inclinando un po' la testa da un lato, al sicuro nelle profondità della sua erudizione, delle lingue, le culture, i documenti, i rituali. Esiste forse qualcosa di piú reale di quella testa?

C'è un altro uomo che corre dappertutto, il Corridore Pazzo lo chiamano: il suo comportamento ha qualcosa di ossessivo e reale, al di fuori dei confini dei nostri obblighi quotidiani. Il cuore gli batte, il polso è accelerato. E poi i giocatori d'azzardo, uomini che scommettono di nascosto sulle partite di football, che per tutta la settimana parlano di differenze di punti, da un letto a castello all'altro, da un pasto all'altro, gli Eagles meno quattro, i Rams che salgono di otto e mezzo. Cosa puntano, denaro virtuale? A stargli vicino quando parlano si capisce che è reale, tangibile, come loro, che gesticolano in modo esagerato, numeri che lanciano fasci di luce al neon nell'aria.


Guardavamo la tv in una delle sale comuni. C'era un grande schermo piatto, a parete, con alcuni canali bloccati, i programmi venivano selezionati da uno dei detenuti veterani, che cambiava ogni mese. Quel giorno erano occupate solo cinque delle ottanta e passa sedie pieghevoli nelle file coperte da archi. Io ero andato per vedere un programma ben preciso, un notiziario pomeridiano, di quindici minuti su un canale per bambini. C'era una rubrica dedicata al mercato azionario. Due bambine, due appassionate dilettanti, leggevano le notizie del giorno sull'andamento dei mercati.

Io ero l'unico a guardare quel programma. Gli altri detenuti se ne stavano seduti lí mezzi storditi a testa bassa. Era l'ora del giorno, il periodo dell'anno, il crepuscolo che incombeva, lo spettro deprimente dell'ultima luce che si muoveva sulle finestre oblunghe in alto su una parete. Gli uomini sedevano distanziati gli uni dagli altri, volevano starsene per conto proprio. Era la chiamata all'autoesame, il senno di poi di una vita perduta, non meno impellente della chiamata del credente alla preghiera.

Io guardavo e ascoltavo. Le bambine erano le mie figlie, Laurie e Kate, di dieci e dodici anni. La madre mi aveva comunicato sbrigativamente, per telefono, il fatto che fossero state scelte per fare quel programma. Al momento non ci sono informazioni disponibili, mi aveva detto, come se lei stessa fosse in uno studio durante un fuori onda pieno di tensione.

Ero seduto in seconda fila, da solo, ed eccole lí, dietro la stessa scrivania, che parlavano di stime per il quarto trimestre, prima una bambina, poi l'altra, un paio di frasi ciascuna, qualità del credito, domanda di credito, settore tecnologico, deficit di bilancio. L'immagine aveva la qualità dei video caricati on line dagli utenti. Provavo a essere distaccato, a vedere le bambine come lontani riferimenti alle mie figlie in quel tremolante bianco e nero. Le studiavo. Le osservavo. Leggevano su fogli di carta che tenevano in mano, alzando gli occhi dalla pagina quando cedevano la parola all'altra.

Che idea assurda: un notiziario economico per bambini? Quel bollettino non aveva nulla di grazioso. Le bambine non stavano giocando a fare le adulte. Erano zelanti e ogni tanto, fra una notizia e l'altra, ci infilavano qualche definizione, qualche spiegazione. A un certo punto Laurie ebbe un momento di panico quando lesse dell'indice Nasdaq Composite — una parola monca, una frase saltata. Capii che quella era una rubrica sperimentale di una trasmissione ignorata dai piú su un oscuro canale via cavo. Era comunque meno assurdo della maggior parte dei programmi televisivi, ma tanto, chi la guardava?


Il mio compagno di cella andava a letto coi calzini. Si infilava le gambe del pigiama nei calzini e si stendeva, con le ginocchia piegate e le mani dietro la testa.

— Mi mancano le mie pareti, — disse.

Occupava il letto di sotto. Era una questione di non poco conto lí al campo, sopra o sotto, chi ottiene cosa, come capita in qualsiasi film ambientato in prigione che ci sia mai capitato di vedere. Norman era un veterano rispetto a me per età, esperienza, ego e tempo trascorso in carcere e io non avevo motivo di lamentarmi.

Pensai di rispondergli che tutti noi sentiamo la mancanza delle nostre pareti, dei nostri pavimenti e dei nostri soffitti. Ma rimasi lí in attesa che lui continuasse.

— Un tempo stavo seduto e guardavo. Una parete, poi un'altra. Dopo un po' mi alzavo e facevo un giro per casa, camminavo lentamente, guardavo, una parete, poi l'altra. Stavo seduto e guardavo, ero in piedi e guardavo.

Sembrava vittima di un incantesimo, come se raccontasse una favola che aveva sentito da bambino.

— Tu eri un collezionista d'arte, vero?

— Ecco bravo, al passato, ero. Roba di qualità notevole, pezzi da museo.

— Non l'avevi mai detto, — dissi.

— Da quanto tempo sei qui? Ora sono le pareti di qualcun altro. L'arte è sparsa in giro.

— Avevi consulenti, esperti del mercato dell'arte.

— La gente veniva a guardare le mie pareti. Europa, Los Angeles, un tizio giapponese di una qualche fondazione giapponese.

Rimase in silenzio per un po', perso nei ricordi. Mi accorsi che anch'io mi stavo perdendo nei miei pensieri. Il giapponese cominciava ad assumere caratteristiche facciali, una certa stazza, una certa forma, corpulento, probabilmente, completo chiaro, cravatta scura.

— Collezionisti, conservatori, studenti. Venivano a guardare, — disse.

— Chi ti consigliava?

— C'era una donna sulla Cinquantasettesima Strada. C'era un tizio a Londra, Colin, che sapeva tutto sui postimpressionisti. Un uomo tanto garbato.

— Non mi sembri convinto.

— Sono frasi fatte. Una di quelle espressioni che sembra che le stia pronunciando qualcun altro, quando le dici. Un uomo tanto garbato.

— Moglie e madre amorevole.

— Ero felice che venissero a guardare. Tutti quanti, — disse. — Guardavo insieme a loro. Andavamo da un quadro all'altro, da una stanza all'altra. Avevo una casa nella valle dell'Hudson, con altri quadri, alcune sculture. Andavo lí per godermi i colori dell'autunno. Ma quasi mai guardavo fuori dalle finestre.

— Avevi le pareti.

— Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle pareti.

— E poi hai dovuto vendere.

— Tutto, fino all'ultimo pezzo. Per pagare le multe, i debiti, le parcelle degli avvocati, sostenere la mia famiglia. Ho regalato un'incisione a mia figlia. Una notte di neve in Norvegia.

Norman sentiva la mancanza delle sue pareti, ma qui non stava poi tanto male. Era contenuto, diceva, scollato, slegato, lontano. Era libero dai bisogni gonfiati e dalle richieste altrui, ma soprattutto si era svincolato dalle sue pulsioni personali, dalla sua avidità, quell'obbligo di accumulare, ampliare, costruire se stesso, comprare una catena di alberghi, farsi un nome. Qui era tranquillo, diceva.

Ero sdraiato sul letto di sopra, con gli occhi chiusi, e ascoltavo. Lí dentro, ovunque, gli uomini nelle loro celle, uno parlava, uno ascoltava, tutti e due in silenzio, chi dormiva, evasori, gente che non aveva pagato gli alimenti, insider trader, spergiuri, imbrogli con gli hedge fund, frodi postali, frodi ipotecarie, frodi di titoli, frodi contabili, ostacolo alla giustizia.


La voce cominciò a diffondersi. Il terzo giorno gran parte delle sedie della sala comune erano occupate e io dovetti accontentarmi di un posto verso la fine della quinta fila. In tv le bambine parlavano di una situazione in rapido sviluppo negli Emirati Arabi.

— La parola è Dubai.

— Questa è la parola che attraversa i continenti e gli oceani alla sconvolgente velocità della luce.

— I mercati stanno affondando rapidamente.

— Parigi, Francoforte, Londra.

— Dubai ha il peggior debito pro capite al mondo, — diceva Kate. — Ora il boom edilizio è crollato e Dubai non riesce a pagare i debiti che ha con le banche.

— Che ammontano a cinquantotto miliardi di dollari, — disse Laurie.

— Miliardo piú miliardo meno.

— L'indice Dax in Germania.

— Giú di oltre il tre percento.

— La Royal Bank of Scotland.

— Giú di oltre il quattro percento.

— La parola è Dubai.

— Questa città—stato piena di debiti sta chiedendo alle banche di concederle sei mesi di libertà dalla morsa dei debiti.

— Dubai, — disse Laurie.

— Il costo per assicurare il debito di Dubai contro il default è aumentato di una, due, tre, quattro volte.

— Sappiamo che cosa significa?

— Significa che il Dow Jones Industrial Average va giú, giú, giú.

— Deutsche Bank.

— Giú.

— Londra: l'indice Ftse 100.

— Giú.

— Amsterdam: Ing Group.

— Giú.

— L'Hang Seng di Hong Kong.

— Petrolio greggio. Bond islamici.

— Giú, giú, giú.

— La parola è Dubai.

— Ripeti un po'.

— Dubai, — disse Kate.


La vecchia vita si riscrive ogni minuto. Fra quattro anni io sarò ancora qui, a sguazzare in questo orribile acquitrino nero. Θ difficile immaginare il futuro da liberi. Faccio già abbastanza fatica a tracciare la forma del passato conoscibile. Questo non è un elemento costante, nessuna fede nessuna verità, tranne per quanto riguarda le bambine, che sono nate, crescono, vivono.

Dov'ero quando accadevano queste cose? Prendevo lauree senza senso, tenevo un corso sulle dinamiche dei reality televisivi per le matricole. Cambiavo la grafia del mio nome in Jerold. Usavo l'indice e il medio per chiudere tra virgolette certi miei commenti ironici, a volte soltanto gli indici, aprendo una virgoletta all'interno di altre virgolette. Era quel tipo di vita lí, una parodia di se stessa, e né il matrimonio né l'azienda che ho gestito per breve tempo sembrano essere accaduti secondo un corrispettivo stabilito. Ho trentanove anni, una generazione di differenza con molti dei detenuti, e non ricordo perché ho fatto quello che ho fatto per ritrovarmi qui. Un tempo il diritto inglese prevedeva che il trasgressore fosse punito con la rimozione di una parte del corpo. Potrebbe servire ora da incentivo alla memoria moderna?

Mi immagino di essere qui per sempre — è già per sempre — a consumare l'ennesimo pasto con il consulente politico che si lecca il pollice per raccogliere le briciole di pane cadute fuori dal piatto per poi starsene lí a fissarle, o in fila dietro il banchiere di una banca d'affari che parla da solo ad alta voce in cinese mandarino per principianti. Penso ai soldi. Cosa ne sapevo, quanti me ne servivano, cosa ci avrei fatto, una volta ottenuti? Poi penso a Sylvan Telfair, il suo desiderio solitario, il miliardo di euro di profitto separabile dalle cose che ha acquistato, il denaro come impulso codificato, ideativo, una sorta di erezione discreta conoscibile solo dall'uomo che ha il fuoco nei pantaloni.

[...]


Ok, eravamo adulti, non bambini con gli occhioni spalancati e insegne tribali, e quello non era una clinica per disintossicarsi da Internet. Vivevamo nello spazio reale, senza assuefazioni, liberi da dipendenze letali. Ma eravamo sperduti. Eravamo flaccidi come polpi, accasciati. Era una cosa di cui raramente parlavamo, una cosa difficile da scrollarci di dosso. Nei vari piccoli momenti di inattività capivamo benissimo che cosa ci mancava. Andavamo in bagno, una volta fatto tiravamo l'acqua, e ci fissavamo le mani vuote.


Volevo andare nella sala della tv per guardare il telegiornale economico, nei giorni feriali, alle quattro del pomeriggio, ma non sempre ci riuscivo. Facevo parte di un gruppo di lavoro che nei giorni designati veniva portato col pullman nell'adiacente base dell'aeronautica militare, dove levigavamo, dipingevamo, ci occupavamo della manutenzione generale, portavamo via la spazzatura e, a volte, ci fermavamo a guardare un caccia che rombava sulla pista e si alzava in volo verso il sole basso. Era una cosa bella da vedere, gli aerei che salivano, con le ruote in aria, le ali spinte all'indietro, la luce, il cielo striato, tre o quattro di noi, non una parola. Era quello il momento in cui, piú di mille altri, la misura della nostra rovina raggiungeva il massimo della certezza?


— Tutta l'Europa guarda a sud. E cosa vede?

— Vede la Grecia.

— Vede l'instabilità fiscale, l'enorme peso del debito, un possibile default.

— Crisi è una parola greca.

— La Grecia ha nascosto il suo debito pubblico?

— La crisi si sta diffondendo alla velocità della luce al resto della fascia meridionale, all'eurozona in genere, ai mercati emergenti in tutto il mondo?

— La Grecia ha bisogno di una manovra per essere salvata?

— La Grecia uscirà dall'euro?

— La Grecia ha nascosto la natura del suo debito?

— Qual è il ruolo di Wall Street in questa delicata faccenda?

— Cos'è il credit default swap? Che cosa è l'insolvenza sovrana? Che cosa è una società di progetto?

— Non lo sappiamo. Voi lo sapete? Ve ne importa qualcosa?

— Cos'è Wall Street? Chi è Wall Street?

Risate tese da sacche del pubblico.

— Grecia, Portogallo, Spagna, Italia.

— Azioni che precipitano in tutto il mondo.

— Il Dow Jones, il Nasdaq, l'euro, la sterlina.

— Ma dove sono gli scioperi selvaggi, le serrate, le azioni sindacali?

— Guardate la Grecia. Guardate nelle strade.

— Disordini, scioperi, proteste, picchetti.

— Tutta l'Europa guarda la Grecia.

— Caos è una parola greca.

— Voli annullati, bandiere che bruciano, pietre che volano di qua, gas lacrimogeni che volano di là.

— I lavoratori sono arrabbiati. I lavoratori sono in marcia.

— La colpa del lavoratore. Seppelliamolo.

— Congeliamogli il salario. Aumentiamogli le tasse.

— Rubiamo al lavoratore. Fottiamo il lavoratore.

— Un giorno o l'altro, aspetta e vedrai.

— Nuove bandiere, nuovi vessilli.

— Falce e martello.

— Falce e martello.


La madre istruiva le bambine a leggere le battute con fluidità ed equilibrio, con un certo ritmo. Non si limitavano a leggere, recitavano, accompagnavano le parole con le espressioni del viso, si divertivano sul serio. Fottiamo il lavoratore, aveva detto Kate. Perlomeno la madre aveva assegnato la battuta volgare alla ragazzina piú grande.

Il notiziario economico stava forse diventando una performance?


Per tutto il giorno la storia girò per il campo, di edificio in edificio, da uomo a uomo. Si trattava di un detenuto nel braccio della morte in Texas o in Missouri o in Oklahoma e le ultime parole che aveva pronunciato prima che un impiegato dello stato gli iniettasse la sostanza letale o attivasse la corrente elettrica.

Le parole erano state: Accendete pure i motori, sto tornando a casa.

Alcuni di noi sentendo questa storia rabbrividirono. Ci vergognavamo? Pensavamo che quell'uomo sulla lama affilata del suo ultimo respiro fosse piú autentico di noi, un fuorilegge vero, degno dell'attenzione piú crudelmente scrupolosa dello stato? La sua fine era stata ufficialmente sancita, un atto accolto con soddisfazione da alcuni, contestato da altri. Se lui aveva trascorso metà della sua vita in cella, in isolamento e, infine, nel braccio della morte per uno, due o piú omicidi, noi allora dove eravamo e cosa avevamo fatto per trovarci in quel posto? Ricordavamo ancora i reati che avevamo commesso? Potevamo chiamarli reati? Erano espedienti, sotterfugi, misfatti abborracciati.

Alcuni di noi, meno in vena di autodenigrazioni, si limitarono ad annuire ascoltando la storia, esprimendo rispetto nei confronti di quell'uomo che era riuscito a conferire dignità al momento, la poesia rurale di quelle parole. La terza volta che sentii quella storia, o la captai di sfuggita, la prigione si trovava decisamente in Texas. Via tutti gli altri posti: l'uomo, la storia e la prigione non potevano che essere texani. Noi eravamo da qualche altra parte, a guardare un programma per bambini alla tv.


— Cos'è questa storia di falce e martello?

— Non significa niente. Parole e basta, — dissi. — Come Abu Dhabi.

— L'Hang Seng di Hong Kong.

— Esattamente.

— Le bambine si divertono a dirlo. Falce e martello.

— Falce e martello.

— Abu Dhabi.

— Abu Dhabi.

— Hang Seng.

— Hong Kong, — dissi.

Andammo avanti cosí per un po'. Norman stava ancora mormorando questi nomi quando io chiusi gli occhi e iniziai la lunga virata verso il sonno.

— Ma io credo che lei faccia sul serio. Secondo me è una cosa seria. Falce e martello, — disse. — Θ una donna seria che ha qualcosa da dire.

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