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| << | < | > | >> |Pagina 7Peppe Brandi interpretò quel volo di poiane, così insolitamente mattiniero, come un cattivo presagio. S'era alzato poco prima dell'alba, e una ventina di minuti dopo era già fuori di casa con la doppietta in spalla. Una volta varcato l'uscio si fermò a contemplare la sinuosa dorsale dei Sibillini: ancora racchiusi nell'ombra, i monti si stagliavano all'orizzonte come incisi in un cammeo rosa pallido. Fu allora che udì il loro garrito lamentoso. Si voltò verso ponente e ne contò tre, in un cielo di porcellana blu. Mai viste poiane a quest'ora, si disse. Poi, incamminandosi dietro a Giubba, la giovane labrador con cui da un paio d'anni intratteneva un rapporto che i biologi non avrebbero esitato a definire simbiotico, imputò al cambio del clima quello, a suo parere ben più infausto, delle abitudini degli animali. In realtà, poco gli importava che le poiane avessero deciso di svegliarsi prima del solito. Erano altri gli uccelli che lo preoccupavano: le beccacce, che dalle sue parti, vuoi per il cosiddetto surriscaldamento del pianeta vuoi perché troppo impallinate nelle stagioni precedenti, s'andavano facendo sempre più scaltre. E Peppe lo sapeva bene, giacché da vent'anni non cacciava altro, da quando, dopo aver mancato una lepre, per stizza sparò a una merla. Stella, la sua cagna dell'epoca, gli riportò un fagottino di piume ormai senza vita e lui, davanti a quell'inutile trofeo, fece un fioretto. D'ora in poi, giurò, solo beccacce. Restringendo il bersaglio delle sue schioppettate a quei nobili uccelli, Peppe s'era anche illuso di conferire nuova dignità all'arte della caccia, che da tempo gli sembrava divenuta un'attività non troppo dissimile dal tiro al piccione. Persino nelle sue aspre e ormai disabitate montagne i cacciatori dovevano rinsanguare la poca selvaggina sopravvissuta a decenni di stragi, con starne, fagiani, quaglie e lepri nati in cattività. Una volta adulti, questi animali erano rilasciati in natura allo scopo di simulare un Eden brulicante di vita selvatica, dove l'uomo poteva ancora uccidere senza poi provar rimorso per quel gesto ancestrale. C'era tuttavia un dettaglio che infastidiva Peppe. Una volta rimesse in libertà, molte di quelle bestiole si rivelavano incapaci di ambientarsi nella macchia, non riuscendo né a procacciarsi cibo né a costruire un nido o una tana sicuri. Dopo qualche giorno, sempre che non fossero già finite tra le fauci di volpi e faine o nel tegame di chi le aveva amorevolmente accudite per poi accopparle, capitava di vederle vagare tra le stoppie, smagrite e allucinate, come profughi in un mondo sconosciuto e ostile. Ma con la beccaccia era diverso. A differenza di quei pennuti cresciuti come pollastri di batteria o di quelle lepri allevate come porcellini d'India, lei aveva attraversato i cieli di un intero continente prima di riposarsi al riparo d'un corniolo, sul soffice muschio del sottobosco umbro. Prima di arrivare in Italia, aveva già sfidato centinaia di doppiette e popolose mute di cani da penna, e ne era uscita eroicamente indenne. Della beccaccia a Peppe piacevano i colori autunnali, la forma allungata del becco che le conferiva un aspetto vagamente esotico e la velocità con cui s'alzava in volo grazie ai prodigiosi muscoli che le fasciavano il petto. Per via di quell'ossessione venatoria, nell'alta valle di Cammoro lo chiamavano "il beccacciaro". Anzi, per essere precisi, "lu beccacciaru", soprannome di cui andava fiero come di un titolo nobiliare. A intervalli regolari, le poiane continuavano a cantare, o meglio a fischiare, emettendo quel suono stonato e fastidioso che a Peppe ricordava il sibilo di un bollitore. Volavano alte, sulla verticale di un'ampia radura dove fino alla metà del secolo scorso qualche testardo contadino aveva faticosamente coltivato orzo o farro o lenticchia, e che era stata ormai colonizzata da grassi arbusti di ginepro. Nel frattempo, senza mai perdere d'occhio il cacciatore, la cagna trotterellava dietro all'infinità di profumi che si presentavano al suo fiuto straordinario. Di colpo, con il suo acutissimo, quasi prensile olfatto Giubba ne intercettò uno che li sovrastò tutti. Annusò l'aria spalancando le froge del tartufetto imperlato di rugiada e subito guardò Peppe. I cinghiali, pensò lui. Nella radura. Con la mano fece un cenno alla labrabor che s'immobilizzò all'istante, acquisendo la postura d'una sfinge. Lui proseguì per qualche metro, fino a nascondersi dietro al tronco di una vecchia quercia. Cavò dalla tasca del giaccone un piccolo binocolo e guardò oltre la macchia. Sì, erano proprio cinghiali. Una mezza dozzina. Proprio sotto le poiane. Grufolavano tutti assieme, nello stesso punto, mostrando terga possenti che il loro ridicolo codino spazzava come un tergicristallo sfilacciato. Peppe immaginò che stessero banchettando con la carcassa di un giovane capriolo. Ma scrofe e magroni erano disposti una accanto all'altro, doveva quindi trattarsi di una preda più voluminosa. Era magari un vitello fuggito nella notte da una stalla o, chissà, il mulo di un tagliaboschi che la sera prima aveva smarrito il sentiero di casa e s'era sciaguratamente imbattuto in un branco di lupi. Incuriosito, il cacciatore volle sparare un colpo per allontanarli. Ma mentre infilava la cartuccia in canna, il più massiccio del gruppo girò il testone verso di lui. Aveva sentito l'uomo. E il cane. Un attimo dopo erano fuggiti tutti.
Peppe prese di nuovo il binocolo e mise a fuoco su quel che
restava del loro pasto. Per prima cosa vide una massa di capelli
biondo cenere. Poi, il sangue. Fischiò a Giubba, e col cuore in
gola s'incamminò verso la radura. Sorrette dalle correnti ascensionali, le
poiane continuavano a veleggiare disegnando cerchi
concentrici e compiendo quella figura che gli ornitologi chiamano poeticamente
lo "spirito santo". Il cacciatore ebbe voglia
d'infrangere il suo fioretto. Maledette poiane!, inveì contro gli
incolpevoli rapaci, preparandosi ad affrontare l'orrendo spettacolo che di lì a
pochi istanti gli si sarebbe presentato davanti.
Era il cadavere di una giovane donna. O ciò che ne rimaneva. In quell'abominio di carni sbocconcellate erano rimasti intatti soltanto le gambe, una spalla e parte di un viso angelico, con il nasino all'insù e gli occhi spalancati verso il cielo che sembravano implorare la divina provvidenza come fanno certe Madonne spagnole del Seicento. I cinghiali avevano pasteggiato con il resto. Erano state strappate perfino ciocche della capigliatura, creando sul cranio rossastre chiazze di calvizie. All'appetito dei cinghiali era sfuggito anche un seno della ragazza. Bianchissimo, sembrava inturgidito dal freddo: aveva la forma di una pera, o di un piccolo obice, con il capezzolo largo e roseo. A un paio di metri, parallelo al corpo della giovane donna, giaceva un lupo. Era morto anche lui, ma la sua carcassa appariva intatta. Un filo di bava biancastra gli sporcava le ganasce spalancate, tra le quali svolazzava un paio di assonnati mosconi. Gli occhi erano come appannati da un velo azzurrognolo. Il cacciatore accese il cellulare. Chiamò prima il maresciallo dei carabinieri Nicola Santini a Sellano, poi i suoi amici Agostino Gatti a Spoleto e Raniero Ranieri a Marrakech. | << | < | > | >> |Pagina 61Tornarono al casale alle due del pomeriggio, dove li aspettava Benedetta pronta a rifocillarli con manicaretti da lei sapientemente preparati. Negli anni trascorsi in montagna accanto al cacciatore, cucinare era diventato il suo passatempo preferito. S'era convinta che fossero stati i lunghi pomeriggi passati a spentolare ad aver ammorbidito l'arrogante bellezza della sua prima gioventù, quand'era corteggiata da tutti i vardasci di Spoleto. A quarant'anni era ancora una donna avvenente, di un'avvenenza che cresceva man mano che la si frequentava, come alcuni brani musicali il cui piacere che procurano all'orecchio è proporzionale al numero di volte che si ascoltano. Oltre che bella, Benedetta era anche generosa, colta e spiritosa. Ovviamente, come tutti noi, anche lei aveva i suoi difetti. Il primo, a sentire Gatti, era la sua loquacità. «È logorroica, peggio d'una cicala», diceva di lei il professore. Raniero, invece, mal sopportava «il suo altruismo, a volte così eccessivo da sembrare di maniera». Soltanto per Peppe era una donna perfetta, anche se la sua fede animalista le impediva di accompagnarlo a caccia.
Quando arrivò a Colleghianda, Benedetta s'accomodò in
quello che era stato il nido d'amore di un'altra femmina, come
avrebbe fatto una volpe in una tana scavata da altri: con spirito
d'adattamento. Il solo spazio che volle assolutamente trasformare fu la cucina.
Scelse antiche piastrelle di ceramica portoghese
per il muro sopra ai fornelli e al lavandino, acquistò un'ampia
credenza di noce per riporvi le sue marmellate, e appese alle
travi del soffitto ciuffi di profumata maggiorana accanto a trecce di cipolle
rosse e grosse teste d'aglio. A una parete sistemò le
sue belle pentole di rame e infine posò sul ripiano del camino
il ritratto di una sua bisnonna, dipinto da un celebre "macchiaiolo". Solo a
quel punto si sentì davvero a casa.
Giubba entrò in casa con il fiatone e, prima ancora di affondare il muso nella ciotola dell'acqua, andò a strusciarsi con foga contro le ginocchia di Benedetta, come se non l'avesse vista per mesi. Quando arrivarono anche loro, lei esordì con voce squillante: «Allora, ragazzi, trovato niente?». Senza dar loro il tempo di rispondere, aggiunse: «È pronto tra cinque minuti! Amore, dovresti grattugiare il formaggio. Agostino, mi vai a prendere un po' di legna? Tu, Raniero, stappa il vino». «Subito, ma fammi prima dare un'occhiata allo stagno», le rispose l'etologo, incamminandosi verso l'estremità settentrionale del giardino dove, contro il suo parere, Peppe aveva voluto creare un laghetto da giardino con ninfee, calle, iris, menta acquatica e papiri. Lo stagno, cosa di cui Gatti non riusciva a capacitarsi, aveva trovato a quell'altitudine un suo perfetto equilibrio naturale. Ad aprile, quando cominciava a sciogliersi lo strato di ghiaccio che d'inverno si formava in superficie, tutti i rospi del circondario vi si davano appuntamento per fornicare. Tra giugno e luglio, le sue acque cristalline placavano la sete di tutte le creature del luogo, dalle rondinelle ai caprioli. Ad agosto e settembre, invece, diventava il regno delle libellule, che con il loro volo isterico e sconclusionato ne pattugliavano l'intera metratura. Sul pelo dell'acqua Gatti vide un gerride pattinare sui suoi lunghi arti, e si chiese come mai il freddo notturno non l'avesse già ucciso. Scorse anche una coppia di timide gambusie, che erano quei piccoli pesci dagli occhi a palla introdotti da Peppe perché ghiotti di larve di zanzara, gli stessi con cui Mussolini bonificò l'Agro Pontino dalle febbri malariche. Erano invece scomparsi i feroci ditischi, grandi divoratori di girini, e le cavolaie, che fino a un mese prima ancora volteggiavano tra i cespi del papiro, il quale, pur essendo una specie sub-sahariana, da anni sopravviveva contro ogni logica al gelo degli inverni umbri. L'etologo riconobbe il richiamo di una tortora selvatica: nascosta nel sottobosco, aspettava probabilmente che lui se ne andasse per le sue pomeridiane abluzioni. Quel suono lo ridestò dalle divagazioni sulla biologia negli ambienti lacustri dell'Appennino. Era cruciale capire di chi fossero quelle feci, pensò. Poteva averle deposte Giubba, ovviamente. Ma anche un cane di Paolo l'eremita. O forse il lupo trovato morto accanto a Domitilla.
Andò a prendere due ciocchi nella legnaia e raggiunse gli amici.
Zuppa di fave al lardo e piccioni al forno: questo il pranzo autunnale che Benedetta aveva imbandito per i tre amici. Ma con poco rispetto per l'ortodossia gastronomica umbra, il banchetto fu preceduto da un antipasto gentilmente offerto da Raniero e che consistette in due etti di caviale beluga. «È d'allevamento, ma del resto quello selvatico del Caspio è quasi estinto. Questo lo producono sulla Gironda, in Francia: me lo manda un amico. Non è malvagio. Lo mangerò così, à la petite cuillère», disse Raniero, portando alla bocca una cucchiaiata colma di perline cineree. «Meno male che doveva essere piccola!», commentò Agostino, sempre pronto a riprendere l'amico. «La grandezza di un caviale la riconosci dal suono», pontificò Raniero, senza reagire alla provocazione del professore. «Sì, il suono che senti quando ci affondi dentro il cucchiaino! Ecco, così. Senti che musica...». «Io, a dir il vero, non sento nessuna musichetta», sbuffò Agostino, per il quale mangiare era soltanto una necessità metabolica. Non che disprezzasse il cibo, al contrario. Spesso si nutriva in modo abnorme, quasi compulsivo, con la mentalità di chi non sa quando potrà ricapitargli di riempirsi lo stomaco. A Spoleto e dintorni, le sue scorpacciate pantagrueliche erano divenute leggendarie. Una volta, dopo aver trascorso otto ore all'addiaccio sul monte Coscerno, in attesa che un'aquila lasciasse il nido dove si erano appena schiuse le uova, inghiottì mezzo filone di pane con dentro undici salsicce crude. Ma tanto amava mangiare quanto detestava discettare di ricette e di piatti: odiava, in altre parole, la gastronomia, e ancor di più la gastrosofia. Perciò, di punto in bianco annunciò: «Quanto alla merda di cane che ho trovato vicino alla radura potrebbe rivelarsi un indizio essenziale». «Ma lo fai apposta, Agostino! Solo tu sei capace di parlare di escrementi mentre stiamo assaggiando beluga, sia pure d'acqua dolce...», protestò l'architetto. «Caro Raniero, ti ricordo, semmai l'avessi dimenticato, che siamo qui per scoprire che cosa è successo a quella ragazza. E che mentre il povero Peppe scopriva con Giubba un dito mozzato probabilmente dalle beccate di una cornacchia e io raccattavo feci, tu passeggiavi spensieratamente nel bosco, godendo della dolcezza del sole d'autunno e del profumo delle prime foglie morte», replicò seccamente il biologo. «È vero, ma ho raccolto anch'io un indizio». «Che cosa? Un mazzetto di ciclamini, forse?». «No, questo», rispose Raniero, tirando fuori un foulard di seta dal taschino della cacciatorina. Tenendolo nel palmo di una mano, con l'altra l'aprì come si sbuccia un fico. Quando l'ebbe interamente dispiegato, mostrò agli amici ciò che vi aveva preziosamente nascosto. La reliquia era un minuscolo brandello di stoffa color blu notte. «Vigogna, signori. Delicatissima lana di vigogna, usata una volta per tessere le vesti dei re degli incas, e oggigiorno per confezionare abiti ai damerini di Londra, Manhattan, Amburgo o Milano. Questi pochi fili erano rimasti impigliati sul ramo di un cespuglio, a pochi metri dal centro della radura», puntualizzò Raniero. «E solo adesso ce lo dici?», sbottò Peppe, che detestava il caviale e che non vedeva l'ora di passare a pietanze più casarecce. «Volevo farvi una sorpresa. È verosimile che una spina di smilace, come lo chiami tu, o di stracciabraghe, come la chiama il resto dell'umanità, l'abbia strappata dalla giacca dell'assassino mentre trascinava di forza la nostra Domitilla. Ce lo vedo, il nababbo del veliero, indossare un capetto di vigogna», aggiunse ingoiando un'altra mestolata di caviale. «E come glielo dico, adesso, al commissario Casali, che abbiamo raccolto anche questo indizio?», mugugnò il biologo. «Oddio, quanto sei noioso. Che ne so, diciamogli che...». «Ditegli che siete dovuti ritornare alla radura per cercare le chiavi di casa che uno di voi aveva smarrito», l'interruppe Benedetta. «E che solo allora avete trovato il pezzetto di stoffa». «Non ci crederà, ma non vedo altre soluzioni. Per tornare alla merda, se Raniero permette, non penso che Paolo l'eremita abbia mai sverminato i suoi cani né che gli abbia mai dato antiparassitari. Nel pomeriggio porterò il campione da un amico veterinario per farlo analizzare. E ne sapremo di più», spiegò Agostino. «Ognuno di noi conosce Cosimo Rinaldi», disse allora Raniero. «Ma tu, Peppino, sei quello che l'ha frequentato con più assiduità. Dovresti andarlo a trovare e farti dire chi erano le amiche o gli amici di Domitilla a Roma. Ci sarà molto utile sapere con chi studiava sua figlia, con chi usciva la sera, con chi andava al cinema». «Non ci vediamo da tempo, ma ci andrò senz'altro», biascicò "lu beccacciaru", angosciato all'idea che avrebbe da li a poco incontrato i genitori di Domitilla, ripiombando così nell'ombra della sua atroce morte. | << | < | > | >> |Pagina 93Il commissario Casali arrivò in cima al monte Carpegna alle tre del pomeriggio. Durante l'ascesa, lungo un sentiero irto di pietre aguzze che da anni percorreva soltanto l'eremita, Casali rimpianse di non aver infilato quella mattina scarponcini da trekking. Portava invece le solite Duilio nere la cui suola, col tempo e per via della mole del poliziotto, s'era fatta sottile come un'ostia. Durante cinque stagioni consecutive, parecchi secoli prima, Casali aveva giocato come pilone nella squadra di rugby del Perugia. Di quei trascorsi gli erano rimaste gambe di ferro: con scarpe più adatte sarebbe salito fin lassù senza difficoltà. In vetta, i piedi martoriati dagli spunzoni del ripido sentiero trovarono finalmente sollievo sull'erba che da decenni nessuno falciava più. Appena videro spuntare il commissario, i cani dell'eremita rimasero interdetti. Si guardarono tra loro, come per stabilire chi dovesse aprire le ostilità. Ma l'indecisione non durò: dopo una frazione di secondo iniziarono ad abbaiare tutti assieme con il furore represso di chi passa la vita legato a una catena. Rotto a frequentazioni di animali ben più crudeli, quali assassini, stupratori, sadici e infanticide, il "Mastino" non li guardò neanche.
Giunto di fronte allo stazzo, urlò un paio di volte il nome
dell'eremita. S'avvicinò all'uscio. Chiamò nuovamente, ma
non rispose nessuno. Paolo stava cavando tartufi: in quei giorni, mentre finiva
la stagione dell'uncinato, variante appena più
profumata del mediocre scorzone estivo, cominciava a maturare il nero pregiato o
Tuber melanosporum,
che con la scorza verrucosa e la polpa marmorizzata è l'archetipo dei funghi
ipogei.
Il commissario vide che la porta era socchiusa. La spinse ed
entrò. A terra non c'erano vecchie mattonelle di cotto, come
da tempo in tutte le case dell'alta valle, ma paglia sparsa sul terriccio. In
fondo al camino ardeva pigramente un po' di brace.
L'unico arredo della stanza consisteva in un vecchio tavolo di
noce e un paio di sedie. Incassata nel muro e offuscata da un
dito di una polvere antica, una finestrella di quelle che in Umbria chiamano
"cecarola" illuminava fiocamente l'ambiente.
Dal soffitto pendeva una lampadina elettrica, anch'essa impolverata. Sulla
destra, oltre un ingresso senza porta, vide la camera
da letto. In quell'antro buio una branda di ferro su cui erano
affastellate coperte di lana militare fungeva da giaciglio. Casali
non vi trovò le foto di donne nude con il sesso scarabocchiato
di rosso di cui gli avevano parlato, ma solo pochi abiti appesi
a lunghi chiodi conficcati nella parete. Tornato nello stanzone,
s'accese una sigaretta e si mise ad aspettare il padrone di quel
tugurio.
Poco prima, al bar di Molini, il commissario s'era fatto raccontare la storia dell'eremita. Paolo era figlio di Valentino Guerrini, detto "Caruso" perché cantava dall'alba al tramonto. "Caruso", che era ricuttaro amato da tutti i valligiani, fu arrestato nel '44 durante un rastrellamento tedesco. Dopo giorni di estenuanti perlustrazioni a caccia di partigiani che in quelle montagne erano riusciti a dileguarsi, i nazisti dovettero accontentarsi di lui e di pochi altri contadini, che spedirono comunque a Mauthausen. Dal campo di concentramento, "Caruso" riuscì a scrivere ai suoi una lettera che i vecchi dell'alta valle ancora ricordavano. Invitava la moglie, che allora era incinta di Paolo, a curare con amore "le bestie e le bestiole", ossia le vacche, le pecore e i maiali ma anche i conigli e le galline, perché solo così avrebbe potuto sfamare la famiglia. Le diceva anche che lui ce l'avrebbe fatta, che sarebbe tornato a casa: sì, lo facevano lavorare duramente e faceva tanto freddo, ma lui al gelo e a fatica' com'n zomaru c'era abituato.
Così fu. Rientrò a Cammoro nel giugno del '46, senza fare
in tempo però a riabbracciare né la moglie né quattro dei suoi
cinque figli, uccisi due mesi prima da un'epidemia di scarlattina. Sopravvissuto
alla crudeltà del lager, il coriaceo "Caruso"
non resse a quei lutti: pochi mesi dopo si spense anche lui. Il
piccolo Paolo fu dunque affidato all'orfanotrofio di Cascia e
tornò nell'alta valle soltanto ventenne. Trovò distrutta la casa
dov'era nato, mentre i pochi ettari di terra che la circondavano
se li erano equamente spartiti i vicini per usucapione. La comunanza agraria,
più per evitare lungaggini processuali che per
la volontà di riparare un'ingiustizia, decise allora di indennizzarlo
affidandogli lo stazzo sul Carpegna. Paolo non chiedeva
di meglio e, dopo aver acquistato una trentina di capre e raccolto una mezza
dozzina di cani randagi, si trasferì in montagna, dove da allora viveva come un
Sant'Antonio nel deserto.
Ben presto, per via del panico che gli provocava la vicinanza di
una donna, si guadagnò l'ombrosa fama di squilibrato. Nel giro
di pochi anni, per tutti divenne l'"eremita".
Passarono un paio d'ore, che il commissario Casali trascorse fumando mezzo pacchetto di Camel. Finalmente udì Paolo bestemmiare contro i suoi cani, che da quando il "Mastino" era penetrato in casa non avevano mai smesso di abbaiare. Appena lo vide, Casali capì perché quell'uomo viveva lontano dal mondo. Già, l'eremita era un mostro, uno sgorbio, uno scherzo della natura. Aveva occhi minuscoli e vicinissimi, divisi però da un naso formidabile. La sua bocca era larga, priva di labbra. Dietro la fronte bombata s'allungava un cranio spelacchiato che pareva un melone giallo, ai lati del quale, come due abnormi escrescenze, anch'esse d'aspetto vegetale, giganteggiavano le orecchie. Era gobbo, questo Quasimodo dei monti, e grosso come un gorilla. Sembrava il gigante di un dipinto di Hieronymus Bosch. Ai tempi di Lombroso, pensò Casali, i giudici l'avrebbero condannato senza neanche processarlo. Tuttavia, nei lunghi anni trascorsi a dar la caccia ai criminali, il commissario aveva imparato che l'abito non fa il monaco. Non sempre, quanto meno. «Sono il commissario Casali, e sto indagando sulla morte della signorina Domitilla Rinaldi», esordì il poliziotto, prima che l'eremita si riavesse dalla sorpresa di trovare qualcuno nella sua tana. «E che vôle da me?», reagì stizzito Paolo, posando sul tavolaccio della stanza un sacco di iuta che sprigionava l'aroma pepato e dolciastro, ma anche fruttato e carnale, del nero pregiato. Aveva in mano un grosso bastone, lu turturu, come lo chiamava lui, buono per tutte le stagioni e per tutte le bestie pericolose, sia che camminino sia che striscino. Con quell'arnese, per esempio, teneva a bada i suoi cerberi più feroci e prima di chinarsi a raccogliere tartufi batteva il terreno per scacciare le serpi. L'eremita andava sempre solo per tartufaie, senza cani né maiali, perché sapeva riconoscere quelle piccole mosche, quasi trasparenti, che si posano là dove crescono, a meno di una decina di centimetri sotto il suolo, i preziosi funghi neri.
«Anzitutto posa quel bastone». Casali aveva alzato la voce e
scandiva le parole molto lentamente. «Prendi la sedia. E adesso
siediti. Bravo, così». Paolo obbedì, senza fiatare. «Ora, facciamo due
chiacchiere», proseguì Casali, continuando a fissare gli
occhietti porcini dell'eremita. «Se rispondi alle mie domande,
tra dieci minuti me ne vado. Ma se capisco che mi dici bugie
sarò costretto a portarti con me a Perugia. E quelli che lì ti
interrogheranno non saranno gentili come me. Per prima cosa,
toglimi una curiosità: dove hai nascosto le foto di quelle donnine nude su cui
avevi fatto dei disegni con il pennarello rosso?
Mi piacerebbe vederle».
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