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| << | < | > | >> |Pagina 9Lo raccolsero sfinito sul bordo dell'accampamento. Da molti giorni disperavano di vederlo tornare. Si preparavano a smontare le tende, inutile cercarlo dove lui solo osava andare. Contava di farcela in un paio di giorni. Era allenato, rapido, il migliore a salire. Il piede umano è una macchina che vuole spingere in su. In lui la vocazione si era specializzata, dalla pianta del piede era risalita al resto del corpo. Era diventato uno scalatore, unico nel suo tempo. Qualche volta si era perfino arrampicato scalzo.
Scalava leggero, il corpo rispondeva teso e
schietto all'invito degli appigli, il fiato se ne stava compresso nei polmoni e
staccava sillabe di soffio seguendo il ritmo di una musica in testa.
Il vento gli arruffava i capelli e sgomberava i pensieri. Con l'ultimo passo di
salita toccava l'estremità dove la terra smette e inizia il cielo. Una
cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito
e l'immenso. Lì arrivava alla massima distanza
dal punto di partenza. Non è traguardo una cima, è sbarramento. Lì sperimentava
la vertigine, che in lui non era il risucchio del vuoto verso il basso ma
affacciarsi sul vuoto dell'insù. Lì
sulla cima percepiva la divinità che si accostava.
Lassù si avvolgeva di vento. Una sommità senza urto di masse d'aria addosso è
spaventosa. Perché l'immenso sta trattenendo il fiato.
Era felice al vento, lo accoglieva in ascolto. Era di quelli che afferrano una frase dove gli altri intendono solo un chiasso. Dalla gola tesa di un leone, dentro una raffica, in una valanga, in un tuono lui riconosceva una voce dire. E mentre l'ascoltava anche la leggeva, scritta e stesa. Chi vede un fiume guarda il verso in cui scorre, dove scende secondo la corrente. Ma il futuro di un fiume è alla sorgente. Lui guardava all'origine del vento. Il suo naso dritto divideva come una prua il soffio e le nuvole.
S'intendeva di vento: se si stava stropicciando
contro il suolo per caricare la miccia del fulmine, se veniva da sud secco e
assetato a pizzicare
il naso e dare frenesia ai profeti. Sapeva il vento
di est che porta la cenere e la polvere degli antenati. Allora al tornio del
vasaio insieme all'argilla si mescola l'ultima consistenza delle vite accadute.
Sapeva il vento dell'ovest che raccoglie acqua salata in mare e la trasforma in
dolce prima di rovesciarla nelle cisterne e i pozzi.
Tra le cime frantumate dai fulmini era lieto di offrire le sue gocce sudate al vento, che le aggiungeva al resto delle materie prime. Uno che va per monti è un vagabondo. Lui l'aveva imparato per mestiere, da servo pastore lontano dai recinti, nel campo aperto delle notti accese al fuoco degli sterpi, a vegliare il sonno delle bestie. Dormiva un po' di giorno all'ombra di una roccia. Aveva dentro gli occhi il callo dell'insonnía. Vedeva più lontano, fiutava e percepiva segni remoti, più di chiunque. Si accorgeva dove l'acqua scorreva segreta sotto terra. In lui si concentrava l'energia dell'ultimo, un riassunto di esistenze perdute. Andava solo, qualunque altro accanto gli avrebbe sparigliato la solitudine. Andava per desiderio di staccarsi dal campo, dalle voci, saliva per allontanamento. A chi gli chiedeva cosa aveva visto, sentito, se il cielo era per caso più vicino, rispondeva di no, ch'era più vuoto, senz'ali, senza polvere, né fumo. E com'era la terra da lassù? Era un palmo di mano spalancata. Dava poca soddisfazione a chi chiedeva.
In salita, incontrava alberi, fermava il passo accanto all'ultimo, che aveva
attecchito in disparte dagli altri, più esposto ai fulmini. Chi si accosta a un
albero sa di essere abbracciato dalla
sua ombra. Ricambiava una carezza al tronco.
Era partito per la salita un giorno da starsene chiusi in tenda. Il cielo era sbarrato da un ammasso di nuvole, in piena mattina faceva luce di alba. Dalla montagna inzuppata rotolavano pietre. Andò lo stesso, per esperienza solamente sua sapeva che quando la nuvolaglia è bassa, sopra ci sta il sereno. Lo persero di vista dopo neanche cento metri dal campo. Quando si sale dentro una condensa di vapore si sta nel perfetto impasto di acqua e aria. C'è silenzio di grotta, vanno soffici i passi anche sulla breccia, il respiro è per metà un sorso, la pelle scambia íl sudore con l'acqua sospesa nel vapore. Scalare dentro una nuvola fa sentire il cielo come seconda pelle. Non si sta all'aperto ma in una tenda immensa. Nella nuvola stava in un vestibolo che dava accesso al sole. In alto, la luce s'infiltra insieme al vento, fino all'uscita sotto il cielo sgombro. C'è una felicità nel guadagnarsi il sole passo a passo, aprirsi un varco per raggiungerlo. Il sole asciuga in fretta il corpo e i panni.
Sotto di lui la terra era covata da una calotta bianca. Succedeva così nei
giorni di creazione. Sbucato da una nuvola vedeva il mondo com'era stato prima,
senza specie umana, tra il giorno primo e il quinto. Dalla cima tornava con la
lettera in bocca dell'inizio, la bi di bereshìt, in principio, che balbettava
allegro.
Lo raccolsero da terra, a sollevarlo pendeva
a corpo vuoto. Suo fratello se lo prese in braccio, lo depose al riparo, lo
lavò, gli forzò le labbra con un sorso. Erano chiuse, un solco arato
e secco. L'acqua filtrò seguita da un singhiozzo.
Nel suo respiro l'aria faceva per attrito il raschio
di una pialla. Il fratello gli bagnò le palpebre
serrate. L'acqua sciolse la polvere che il vento
aveva messo per coperchio. Mosse gli occhi forzando la fessura, la penombra
della tenda aiutò la schiusa, le pupille erano due pulcini ancora dentro l'uovo.
Erano occhi che non ricordavano niente. Le orbite frugavano intorno, mettevano a
fuoco la faccia del fratello, poi tornavano vuoti. "Chi sono?" disse con un
rumore di gola che mischiava il ringhio al miagolio. Il
fratello fece uno scatto indietro con la testa, per
reazione. Poi rispose il nome, il posto, l'ora del
tempo e cosa ci facevano li. Ascoltò con sforzo,
in quel punto la voce umana era per lui il rumore di un guasto. Ripeté: "Chi
sono?".
Dice la leggenda che un angelo cancella al neonato il ricordo di quello che ha saputo in grembo. C'è da svuotare il sacco prima di nascere. I bambini dentro la placenta sanno tutto il passato, le lingue, le avventure, pericoli e mestieri. Il loro scheletro è diventato pesce, rettile, uccello prima di fermarsi all'ultima stazione. Lo sforzo di espulsione dal corpo della madre serve a dimenticare. La rottura delle acque apre il varco che subito dietro si richiude, dopo il tuffo nel vuoto. Così è il mondo per chi viene da un grembo. Il salto nell'asciutto produce azzeramento di tutta la sapienza accumulata nel sacco di placenta. Si attecchisce meglio dimenticando da dove si proviene. A lui spiaceva dolorosamente non ricordare com'era stato al centro del corpo di una madre, tra le ossa del bacino, le vertebre, sotto il dondolo del respiro e i passi sulle scale del battito del cuore. Che perdita passare da sputo a carne umana, risalire le epoche del corpo e giunto al culmine, sull'orlo della soglia, dimenticare tutto.
Le cime scalate contenevano la centesima
parte di quel bordo, dove finiva il mondo e cominciava il tempo. Dalle cime
scendeva borbottando la lettera iniziale, la bi di bemidbàr,
dentro il deserto.
In principio c'era stato un deserto, una strage di bambini nell'infanzia, per un morbo o una guerra o qualcos'altro. Lui era scampato, si concentra così, in un resto salvato, l'energia dei mancati. In lui si scatenava insieme a una tristezza che spingeva lontano. Il deserto, le cime, lì trovava campo e sfogo l'allegria negata ai suoi coetanei. Aveva ricevuto una procura a vivere per loro. Scalare, stare nei bivacchi notturni a spulciare le stelle, aggrappato a una parete al vento, salire a quattro zampe verso l'alto: tutto faceva parte del gioco a nascondino della folla dei bambini in lui. Tu sei l'unico a farlo, gli mandavano a dire.
L'ultimo, pensava lui, di una coda che si è
persa. Sono l'ultima vertebra, mossa dalle vostre invisibili.
Non ricordava, si toccava il corpo, le ossa che sporgevano dalla pelle vuota. A spingere col polpastrello rimaneva l'incavo. Con le dita percorreva il suo scheletro per risalire la traccia che l'aveva portato allo sfinimento. Il corpo ricorda più della testa e del suo ripostiglio di memoria. Quanto era rimasto sulla montagna tra tempeste e nebbie: cinque settimane, mancavano due giorni a farne sei, gli disse il fratello. La barba arrugginita, sbruciacchiata dal guizzo ravvicinato di qualche saetta, gli occhi che cercavano all'indietro un punto di sollevamento del ricordo: era spaventoso da vedere e suo fratello si faceva forza a stargli accanto, a dirsi che era lui. Intanto gli infilava in bocca a cucchiaini una farina sciolta, uno alla volta acini di uva passa. Li masticava a lungo, la mandibola si muoveva più da destra a sinistra che su e giù, al modo degli erbivori.
Un po' inghiottiva e un poco risputava. Migliorava, all'inizio respingeva il
cibo a rigurgiti.
"Chi sono?" Da qualche parte aveva già pronunciato la domanda. Non a suo fratello e non da smemorato: a qualcuno doveva averlo chiesto, a chi e perché? Chiedere a un altro la principale notizia su se stesso, titolo di una definizione e di un destino oppure solo il nome dell'identità. Ripeté "Chi sono?" per risentire nell'orecchio la domanda. Suo fratello capì, non gli rispose. Confondeva nel corpo la salita e la discesa, la magrezza era cima toccata o il fondo?
Il resto dell'accampamento aspettava la partenza, che lui fosse in grado di
mettersi in piedi. A lui importava invece ricordare. Disse a
suo fratello di partire lasciandogli qualche
provvista. Non poteva staccarsi dal monte senza ricordare. Cercava un'iniziale
intorno a sé, pure mentre masticava. "È pane," diceva il fratello, "è lèhem." E
lui sfogliava a mente il dizionario delle parole con la elle iniziale, la prima
era "lo", làmed àlef: "no".
L'acqua era "màim", la beveva, tra le due emme che aprivano e chiudevano la bocca, la tratteneva tra le due labiali prima di inghiottirla frugando nell'elenco di parole che iniziavano per mem, emme. Arrivato a "man", manna, si fermò. La ricerca lo stordiva.
Chi è stremato non ricorda, ha invece colpi
di visione. In una vide un potente getto d'acqua fredda uscire dalle viscere di
un monte. Vide senza saperlo il Monte Nebo, sulla cui cima
si sarebbe sdraiato per morire quarant'anni dopo. E quell'acqua alle falde si
sarebbe chiamata per sempre col suo nome. Vide il bordo dei
pozzi che aveva scavato nei deserti. Ritrovò nel
corpo un principio di gioia per la nascita di una
sorgente nuova, l'entusiasmo di aggiungere
una ricchezza al mondo.
Premio per l'acqua nuova era stato il sorriso di una donna. C'è un rapporto
tra le felicità, tra uno zampillo che si allarga a terra e una
bocca di donna che scopre i denti e sparge il
bianco intorno. C'era stato un incontro alla
fontana in mezzo al calpestio di pecore e di capre intorno all'abbeverata. Le
loro prime parole erano passate sotto le gutturali dei belati.
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