Copertina
Autore Erri De Luca
Titolo Il giorno prima della felicità
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2009, I Narratori , pag. 134, cop.fle., dim. 14,3x22x1 cm , Isbn 978-88-07-01773-5
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Scoprii il nascondiglio perché c'era finito il pallone. Dietro la nicchia della statua, nel cortile del palazzo, c'era una botola coperta da due tavolette di legno. Mi accorsi che si muovevano quando ci misi i piedi sopra. Mi prese paura, recuperai la palla e sgusciai fuori tra le gambe della statua.

Solo un bambino smilzo e contorsionista come me poteva infilare la testa e il corpo tra le gambe poco divaricate del re guerriero, dopo aver aggirato la spada piantata giusto davanti ai piedi. La palla era finita lì dietro, dopo un rimbalzo di sponda tra la spada e la gamba.

La spinsi in fuori, gli altri ripresero il gioco, mentre mi attorcigliavo per uscire. Le trappole sono facili a entrare ma per uscire c'è da sudare. Avevo pure una fretta di paura. Ripresi il mio posto in porta. Mi facevano giocare con loro perché recuperavo la palla dovunque finiva. Una destinazione abituale era il balcone del primo piano, una casa abbandonata. La voce era che ci abitava un fantasma. I vecchi palazzi contenevano botole murate, passaggi segreti, delitti e amori. I vecchi palazzi erano nidi di fantasmi.


Andò così la prima volta che salii al balcone. Dal finestrino a pianoterra del cortile dove abitavo, il pomeriggio guardavo il gioco dei più grandi. Il pallone calciato male schizzò in alto e finì sul terrazzino di quel primo piano. Era perduto, un superflex paravinil un po' sgonfio per l'uso. Mentre che bisticciavano sul guaio mi affacciai e chiesi se mi facevano giocare con loro. Sì, se ci compri un altro pallone. No, con quello, risposi. Incuriositi accettarono. Mi arrampicai lungo un tubo dell'acqua, discendente, che passava accanto al terrazzino e proseguiva in cima. Era piccolo e fissato al muro del cortile con dei morsetti arrugginiti. Cominciai a salire, il tubo era coperto da polvere, la presa era meno sicura di quello che mi ero immaginato. Mi ero impegnato, ormai. Guardai in su: dietro i vetri di una finestra del terzo piano c'era lei, la bambina che cercavo di sbirciare. Era al suo posto, la testa appoggiata sulle mani. Di solito guardava il cielo, in quel momento no, guardava giù.


Dovevo continuare e continuai. Per un bambino cinque metri sono un precipizio. Scalai il tubo puntando i piedi sui morsetti fino all'altezza del terrazzino. Sotto di me si erano azzittiti i commenti. Allungai la mano sinistra per arrivare alla ringhiera di ferro, mi mancava un palmo. In quel punto dovevo fidarmi dei piedi e stendere il braccio che teneva il tubo. Decisi di farlo di slancio e ci arrivai con la sinistra. Ora dovevo portarci la destra. Strinsi forte la presa sul ferro del terrazzo e buttai la destra ad afferrare. Persi l'appoggio dei piedi: le mani ressero per un momento il corpo nel vuoto, poi subito un ginocchio, poi due piedi e scavalcai. Com'è che non avevo avuto paura? Capii che la mia paura era timida, per uscire allo scoperto aveva bisogno di stare da sola. Lì invece c'erano gli occhi dei bambini sotto e quelli di lei sopra. La mia paura si vergognava di uscire. Si sarebbe vendicata dopo, la sera al buio nel letto, col fruscio dei fantasmi nel vuoto.


Buttai il pallone di sotto, ripresero a giocare senza badare a me. La discesa era più facile, potevo stendere la mano verso il tubo contando su due buoni appoggi per i piedi sul bordo del terrazzino. Prima di allungarmi verso il tubo guardai veloce al terzo piano. Mi ero offerto all'impresa per desiderio che si accorgesse di me, minuscolo scopettino da cortile. Era lì con gli occhi sbarrati, prima che potessi azzardare un sorriso era scomparsa. Stupido a guardare se lei stava guardando. Bisognava crederci senza controllare, come si fa con gli angeli custodi. Mi arrabbiai con me buttandomi lungo il tubo in discesa per togliermi da quel palcoscenico. Sotto mi aspettava il premio, l'ammissione al gioco. Mi misero in porta e fu così deciso il mio ruolo, sarei diventato portiere.


Da quel giorno mi chiamarono "'a scigna", la scimmia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 16

Le nostre partite a carte erano interrotte dalle persone che passavano davanti alla portineria, chiedevano qualcosa, lasciavano, pigliavano. A don Gaetano non sfuggiva niente. Era un palazzo vecchio con diverse scale, lui conosceva i fatti di tutti quanti. Qualcuno veniva a chiedere consiglio. Allora don Gaetano mi diceva di badare alla portineria, e si appartavano. Al ritorno ripigliava le carte e la conversazione al punto giusto.

"È stato là sotto fino all'arrivo degli americani e fino all'ultimo giorno ha creduto che lo potevo vendere ai tedeschi. Il suo portiere l'aveva fatto, lui era riuscito a scappare dal tetto infilandosi giusto un paio di pantaloni e la camicia, senza scarpe. Teneva a portata di mano un pacchetto coi libri e se li è portati dietro. Gli ebrei sono allenati a scappare, come noi che teniamo il terremoto sotto i piedi e il vulcano pronto. Noi però non scappiamo di casa coi libri."

"Io sì, don Gaetano, io me li porto dietro i libri di scuola, se devo scappare per il terremoto."

"Arrivò da me di notte sotto un bombardamento aereo. Tenevo aperto il portone e lui si è infilato. Si era scippato dal petto la stella che dovevano portare cucita, pendevano i fili dal bavero. L'ho portato là sotto, c'è rimasto un mese, il peggiore della guerra. Quando è stato il punto dell'insurrezione gli ho portato un paio di scarpe sfilate a un soldato tedesco. Con quelle è uscito incontro alla città liberata. Mi chiese perché non l'avevo venduto."

"E che gli avete risposto?"

"E che potevo rispondere? Aveva passato un mese là sotto a contare i minuti, se si salvava o no. Ogni grazie che mi diceva era avvelenato dal sospetto. La guerra stava per finire, gli americani erano arrivati a Capri. Era più arrabbiato il pensiero di essere arrestato a pochi giorni dalla libertà. Era un settembre che era una fornace. I tedeschi mettevano bombe lungo la marina contro uno sbarco degli americani, facevano esplodere pezzi di città e intanto i bombardamenti continuavano dal cielo. Il mare all'improvviso si riempì di centinaia di navi americane. Si accumulava fuoco da tutte le parti. Per noi si trattava di scippare la libertà, per lui si trattava della vita. E la teneva appesa a uno che lo poteva tradire o che poteva essere arrestato, ammazzato e non tornare a portargli qualcosa da mangiare. Quando mi sentiva scendere le scale non sapeva se ero io o la fine."

"Che gli rispondeste, perché non l'avevate venduto?"

"Perché non vendo carne umana. Perché in guerra la gente tira fuori il peggio e pure il meglio. Perché era venuto scalzo, chi lo sa perché. Non mi ricordo cosa gli ho risposto, può essere che non gli ho risposto. In quel punto la storia era finita e non importavano i perché. Sentivo i suoi pensieri e rispondevo, ma lui non poteva sentire i miei. Coi pensieri degli altri non si può parlare, sono sordi."

"Allora è vero, don Gaetano, quello che dicono di voi, che voi sentite i pensieri in testa alle persone?"

"È vero e non è vero, certe volte sì e certe no. Meglio così perché la gente fa brutti pensieri."

"Se penso una cosa voi la indovinate?"

"No, guaglio', a me arrivano i pensieri che passano al volo in testa alle persone, quelli che uno neanche sa di avere pensato. Se ti metti a studiare un fatto tuo, quello sta con te. Ma i pensieri sono come gli starnuti, scappano fuori all'improvviso e io li sento."

Perciò sapeva i fatti di tutti quanti, perciò teneva una tristezza pronta al peggio e un mezzo sorriso per buttarla via. Ai lati degli occhi si aprivano le rughe e da lì scolava la malinconia.

"L'ebreo pensava molto?"

"Pensava, sì. Quando leggeva no, però nel resto del tempo sì, alla terra santa, a una nave per andarci. L'Europa è persa per noi, qua non c'è vita. Faceva l'esempio di una cintura. Noi, pensava, siamo una cintura intorno alla vita del mondo. Con il libro sacro siamo la striscia di cuoio che gli regge i pantaloni da quando Adamo si accorse di essere nudo. Il mondo ha avuto voglia molte volte di togliersi la cintura e buttarla via. Se la sente stretta.

Me lo ricordo tale e quale quel pensiero, lo faceva spesso. Quando uscì all'aria aperta non si reggeva in piedi. Andò a casa, ma gliel'avevano occupata. Una famiglia si era piazzata da lui, avevano pure cambiato la serratura. Ci sono andato a parlare e se ne sono usciti, ma prima gli hanno svuotato la casa, pure il filo elettrico hanno staccato dai muri."

"Come li avete convinti?"

"Tenevamo le armi, avevamo combattuto contro i tedeschi. Ci sono andato di notte, ho sparato contro la serratura, sono entrato e gli ho detto che tornavo a mezzogiorno e dovevo trovare la casa vuota. Così è stato. È rientrato in casa, poi in pochi mesi ha venduto e se n'è andato all'estero, in Israele. Passò in portineria per un saluto. La città era ancora scassata di macerie. `Porto con me una pietra di Napoli. La vado a mettere nel muro della casa che avrò in Israele. Là noi costruiremo con i sassi che ci hanno tirato addosso."


Ascoltavo, giocavo a scopa, perdevo. Di sera mi appuntavo le notizie di don Gaetano. Era scuola, pure la città. Mi dispiaceva quando finivano le lezioni d'estate. Gli studenti erano contenti, io no. Mi consolavo coi libri di don Raimondo, carta ingiallita che recuperava quando qualcuno si voleva sbarazzare dei libri.

"Una persona ci mette una vita a riempire gli scaffali e un figlio non vede l'ora di vuotarli e buttare via tutto. Che ci mettono sugli scaffali vuoti, i caciocavallo? Basta che me li levate di torno, mi dicono. E là ci sta la vita di una persona, i suoi sfizi, le spese, le rinunce, la soddisfazione di vedere crescere la propria cultura a centimetri come una pianta."

"Don Raimondo, non mi posso sdebitare con voi, che mi fate lèggere senza pagare."

"È cosa di niente, tu me li riporti spolverati. Quando sarai uomo verrai a comprarli da me."

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 49

Portavo a tavola un po' di pesce rastrellato col retino. Don Gaetano apprezzava e sapeva cucinarlo. Mi prendeva in giro: "Pure oggi si mangia pesce sfortunato, che ha avuto la disgrazia di farsi una passeggiata proprio all'ora tua". Pensò che mi serviva un'esperienza in mare. Conosceva un pescatore di Mergellina che si era trasferito a Ischia. Organizzò per me un'uscita con lui. Salii sull'ultimo battello del giorno. Dal molo accanto partivano gli emigranti, io me ne andavo in gita. Ero spaesato, con le mani in grembo, che non sapevo dove appoggiarle. La traversata mi confuse i sensi, il fumaiolo buttava il nero di seppia contro il sole calante, le vibrazioni del motore facevano il solletico alla pelle, i morsi dati a una pizza fritta con la ricotta dentro mi staccavano per la prima volta dalla città. Salutavo con gli occhi la distanza che mi allontanava. C'era un addio in quel paio di ore di traversata, non capivo se triste o felice.


Sbarcai sull'isola di sera. Mi aspettava al molo un uomo basso e massiccio con un basco in testa. Mi fece sorridere dicendo: "Quanto si' luongo, vicini facimmo 'a miccia e 'a bbomba".

Andammo alla marina, spingemmo la sua barca e guadagnammo il mare con i remi. Era una sera che allargava i pori, dove giravo gli occhi mi meravigliavo. Niente luna, bastavano le stelle alla vista lontana. Le luci dell'isola si persero dietro di noi. Davanti e sopra il cielo traboccava di galassie. Dal cortile del palazzo non si poteva vedere quanto ammasso c'era. Studiato a scuola, l'universo era una tavola imbandita per ospiti con il telescopio. Invece stava steso a occhio nudo e somigliava a una mimosa di marzo, fiorita a grappoli, stracarica di punti scombinati, gettati alla rinfusa nella chioma, così fitti da nascondere il tronco.

Scendevano fino al bordo della barca, li vedevo tra i remi e sopra il basco ben calcato in testa. Quell'uomo, il pescatore, non ci faceva caso. Davvero poteva un uomo abituarsi a quello? Stare in mezzo alle stelle e neanche scrollarsele di dosso? Grazie, grazie, grazie dicevano gli occhi per essere lì.

Al largo disse: "Fai tu" e mi dette i remi. Lunghi, da spingere stando all'impiedi, faccia a prua. Mi disse di puntare un promontorio. Lui si mise a innescare un filo lungo dal quale partiva ogni pochi metri una lenza e un amo.

Gli avevo visto fare con i remi e ripetevo. Non era sforzo di braccia, ma di tutto lo scheletro che andava avanti e indietro a sollevare i remi e ad affondarli avanti. Senza attrito di onde la barca se ne andava da sola sotto i piedi. Quand'è così sembra in discesa il mare. "Cuóncio, nun t'allenta", piano, non ti stancare, mi diceva.


Remai due ore nell'acqua ferma della notte. Il rumore dei remi erano due sillabe, la prima con l'accento quando entravano in acqua, la seconda più lunga finché uscivano. An-na, An-na, tra le due sillabe il fiato pronunciava un nome di donna. Dopo due ore si mise lui ai remi e io a calare in mare lentamente il filo con le cento esche. Quando finimmo cominciava il giorno.

Intorno a noi sopra la superficie del mare, passò un brivido, le alici minacciate dal tonno salivano a pallone e saltavano fuori, l'acqua s'increspava del loro sciame in fuga. Ci stavamo in mezzo, il pescatore afferrò il retino e lo calò a casaccio in mezzo al mucchio. Ne tirò fuori una manciata viva che rovesciò in un secchio. Quello era rubare.

Spuntò il sole strisciando, un rumore di gas che prende fuoco, il fornelletto acceso, e ci posò una macchinetta da caffè stinta e ammaccata. Si bagnò la testa e si rimise il basco, feci pur'io la mossa. Il caffè fischiò aria nel becco come un gallo. Sollevò la tazza verso il sole per saluto al giorno che saliva. Bevemmo tirando nel naso il suo odore di terra in mezzo al largo, a miglia dalla costa.


Su suo segno puntai alla secca, un campo in mezzo al mare da riconoscere attraverso traguardi: doveva spuntare intera la sagoma del promontorio di Sant'Angelo e l'isola di Vivara doveva prendere la forma della foglia d'alloro. In quel braccio di mare si stava sopra la secca. Il sole già splendeva di sudore in faccia. Dacci oggi il pane azzurro attaccato all'uncino dell'amo, c'era nelle sue mosse lente la preghiera, non la pretesa. Il mare, così richiesto, si faceva raccogliere. Calammo le lenze innescate a pezzetti di totano. Primo salì dal fondo il bianco scintillante dell'ombrina, poi lo scorfano rosso, scatenato. Il mare sotto l'attrito del sole cominciò ad andare, onde lente spostavano la barca fuori campo. Correggevo ai remi la deriva. Era l'ora di attesa prima di andare a ritirare il filo lasciato appeso a due galleggianti. Andammo a recuperarli. A bracciate lente, regolari rimetteva il filo nelle ceste. Dopo cinquanta metri salì sotto bordo una murena. La alzò con un retino, le tolse di bocca il morso inghiottito e la gettò in una tinozza. Seguì una cernia piccola, una media e il sarago glorioso, orgoglio di chi torna dalla pesca.


Un paio di volte s'indurì il filo, incastrato in qualche punto del fondale. Mi comandò di remare in una direzione, indovinando il verso da cui liberare. Finimmo e dividemmo il turno ai remi. Si andava a verso di corrente, ogni bracciata si appoggiava a una spinta di poppa. Arrivammo alla spiaggia di partenza che le campane chiamavano messa a mezzogiorno. Mi offrì la cernia piccola e mi strinse la mano. Mi sanguinava, per mancanza di pratica di remi. Avevamo scambiato dieci parole nei momenti giusti.

Sul battello di ritorno mi stesi a dormire sui sedili di legno profumati di vernice e sale. Mi svegliò un marinaio, che eravamo arrivati. Era già città intorno, non l'avevo sentita avvicinare. Per un po' fui stordito senza capire dove dovevo andare, fare cosa. Mi rianimò il bruciore delle mani.

A sera don Gaetano cucinò al pomodoro la più buona cernia del mondo, spolpata fino a lasciare la lisca prosciugata.

Era estate e mi tornava spesso il gonfiore ai pantaloni. Don Gaetano mi insegnò qualche lavoro semplice di elettricità e di idraulica, per mandarmi a fare qualche riparazione al posto suo. Prendevo qualche mancia. Un pomeriggio alla solita chiamata della vedova disse che salivo io. Mi presentai con la cassetta dei ferri, mi fece entrare. Pure in casa portava un cappellino con la veletta nera. Le persiane erano chiuse, una penombra fresca. Mi fece strada in bagno a riparare lo scarico del lavandino. Mi abbassai per svitare il sifone, lei rimase vicina, le ginocchia nude mi stavano all'altezza degli occhi. Mentre forzavo il pezzo con la chiave inglese le sue ginocchia cominciarono a urtarmi con piccole spinte. Mi venne saliva in bocca da buttare giù. La sua mano entrò nei miei capelli a smuoverli, smisi il lavoro, restai fermo. Me li strinse e cominciò a tirarli verso l'alto. Lasciai la chiave inglese, le obbedii. Spense la luce e spinse il ventre contro il mio. Le sue braccia mi salirono al collo e lo strinsero spingendolo piano incontro alla sua faccia. Mi aprì la bocca con due dita e poi con le sue labbra. Alzai le mani per una risposta, me le prese e se le mise dietro la schiena. Poi mi cercò il sesso. Ero di schiena al lavandino, spinse contro di me e il sesso le entrò in corpo. Mi muoveva. Era più bello che dentro la nuvola. Mi alzò le mani sopra il petto e cominciò a soffiare, in crescita, fino a una spinta che mi portò via tutto il sangue che avevo. Era successa una trasfusione da me a lei. Doveva essere questo il facimm'ammore che si dicono gli uomini e le donne.

Ero sudato, le mutande ai piedi, la schiena indurita per aver sostenuto le sue spinte senza appoggiarmi al lavandino. Si staccò da me, accese la luce e si lavò tra le gambe. Mi disse di fare lo stesso. Poi raccolsi i ferri. "Se ho bisogno ti chiamo." "Sì signora." E questa fu la mia prima riparazione.

| << |  <  |