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| << | < | > | >> |IndicePrima parte (1784-1805) Capitolo I 9 [...] Seconda parte (1806-1836) Capitolo X 177 [...] Terza parte (1837-1860) Capitolo XXI 405 [...] Post scriptum 481 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Sant'Anastasìa, 3 gennaio 1805 Cielo e terra sembravano confondersi nella bassa nuvolaglia mentre, alle spalle del Vesuvio, l'alba era ancora soltanto una vaga promessa di luce. Il bagliore livido del fulmine rischiarava a tratti le ombre cupe del paesaggio, illuminando le nuvole basse che, sulle falde del monte, sospinte dal vento, sembravano impigliarsi nelle cime degli alberi o negli speroni neri della lava, formando turbini di mutevoli figure che, a tratti, avresti detto essere fatui fantasmi o guizzanti diavolacci scaturiti da quell'inferno di fuoco che il monte racchiude e dalle mille favole che da bambino potevi aver udito raccontare dai vecchi mentre, seduti accanto al fuoco, s'aspettava a sera l'ora del desinare. Nelle ultime frange del buio, il cupo brontolio del tuono, rimbalzando per chiostri e cortili e rotolando tra vicoli e palazzi, attraversava con un vibrare d'imposte i muri delle case, interrompendo il sonno dei giusti o accrescendo l'inquietudine di chi era già in veglia e in attesa del giorno che stava nascendo. La voce di Dio annunciava così un altro giorno di pioggia in quel gelido inverno di quel 1805 ancora neonato. Berardino De Luca, però, pensava ad un altro bambino e quel pensiero, che lo tormentava ormai da mesi, non gli aveva dato tregua quella notte. Non avrebbe saputo dire se gli era riuscito davvero di addormentarsi, non sapendo più distinguere tra le angosce che gli dava la veglia e quelle che gli avevano portato i sogni, avendo le une e le altre prodotto in lui la medesima frustrazione per quella svolta tanto definitiva quanto prematura che di lì a poco sarebbe stato costretto a far prendere alla sua vita. Aveva solo ventuno anni; anzi, non li aveva compiuti ancora. E benché molti dei suoi coetanei avessero a quell'età già preso moglie, egli non si sentiva ancora pronto per il matrimonio; e tanto meno per un matrimonio riparatore, come quello che, dopo qualche ora, avrebbe legato per sempre la sua vita a quella di Antonia.
Aveva fatto di tutto per sottrarsi a quel destino, che sentiva incombente
e odioso quanto il condannato che va al patibolo può sentire incombente e
odiosa la corda del boia. Quel matrimonio avrebbe segnato la fine di tutti i
suoi progetti e perciò si detestava ed imprecava in cuor suo per la sua smania
di correre dietro le sottane; e, sembrandogli di poter vedere, in ciò che
di lì a poco si sarebbe compiuto, il naufragio irreparabile della sua vita,
avrebbe desiderato, ora, perfino di morire, se questo avesse potuto cancellare
tutti gli errori che aveva commesso e che stavano travolgendo, oltre che
la sua, anche la vita di tante altre persone; e, in primo luogo, quella già così
poco fortunata di Antonia.
Antonia Esposito aveva la sua stessa età; anzi, per essere esatti, aveva un paio di mesi più di lui. Ma la ragazza non avrebbe saputo precisare la data della sua nascita perché, come dice comunemente la gente di quelli i cui genitori sono ignoti, lei era "figlia della Madonna". Infatti, nella notte della vigilia di Natale del 1783 qualcuno aveva bussato alla porta dei frati minori del convento di San Bernardino, sito nella parte alta del paese, ed aveva lasciato sulla soglia un involto di panni, dileguandosi nel buio prima che qualcuno andasse ad aprire. I tre colpi di martello, vibrati con forza a quell'ora tarda di quella Notte Santa, avevano bruscamente risvegliato l'anziano frate portinaio che, nel ristretto della propria cella, tra il biascicar monotono delle preghiere, s'era lasciato vincere dalla stanchezza e dall'età. Nel risvegliarsi, il frate ebbe un sussulto ed il suo primo pensiero fu quello di rammaricarsi per essersi addormentato proprio in quella notte in cui avrebbe dovuto dedicarsi al ringraziamento e alla preghiera. Si tirò su a fatica, vacillò e ristette un attimo sulle gambe che sembravano rifiutarsi di reggerlo e, sospirando, rivolse il pensiero a Dio per ricordargli che, quando gli fosse piaciuto, egli era pronto a lasciare quell'inutile involucro. Poi, frugò nell'unica tasca del saio per prendere l'orologio. Era un orologio di metallo argentato, ricordo di suo padre. Quell'oggetto era la sua unica ricchezza ed anche il suo peccato più grande, perché la regola proibiva il possesso di qualsiasi bene; ma, quel peccato lì, ne era sicuro, Iddio glielo avrebbe perdonato. Guardò l'ora e se ne sorprese. La funzione solenne era ormai terminata da un pezzo ed i lumi della chiesa erano stati spenti al termine della messa. I pochi devoti che erano saliti fino al convento per partecipare alla funzione di mezzanotte erano da tempo ridiscesi in paese. Chi poteva dunque mai bussare a quell'ora?, si chiedeva il frate, chi poteva mai essere? Chi cercava soccorso per un moribondo si rivolgeva di solito alla chiesa parrocchiale di Santa Maria la Nova che, trovandosi nel centro del paese, era raggiungibile da tutti con minor fatica. Fu dunque con una certa inquietudine che il frate si recò alla porticina che dall'esterno immetteva nell' anticamera del parlatorio. Quando vi fu vicino, chiese, schiarendosi la voce, chi fosse all'uscio, ma non ebbe risposta. «Chi è là?», ripeté a voce più alta. Nessuno. «Chi è?!», chiese di nuovo con voce più stridula. Ancora nessuno. S'accostò di più alla porta, tese l'orecchio e, non sentendo altro rumore che il sibilar del vento tra i rami del grande carrubo che dominava il piazzale antistante l'ingresso, si decise ad aprire con prudenza lo spioncino. Uno sbuffo di aria gelida lo colpì in pieno viso scompigliandogli i radi e bianchi capelli e costringendolo a socchiudere gli occhi. Spinse di nuovo il viso nell'apertura, guardò da tutte le parti e fin dove gli riusciva, ma non vide nulla. «Chi è là?», chiese ancora, facendo in modo questa volta che la bocca stesse sullo spioncino. Nessuna risposta. S'udiva solo la voce del vento e il gemere dei rami del vecchio albero che la suggestione della notte trasformava, anche nella mente di quella pia persona, in lamento di anime prave o nel vagito dei tanti bambini che non erano riusciti a nascere. La sua schiena fu percorsa allora da un brivido; richiuse d'un colpo lo sportellino ed il rumore echeggiò forte nel grande atrio. Borbottò qualcosa, si fece il segno della croce e si girò per ritornare alla sua cella, quando un suono indistinto, che sembrava il verso di un animale o, forse, un mugolio soffocato, gli giunse d'improvviso all'orecchio. Si fermò di botto, come folgorato, e rimase col fiato sospeso, con l'orecchio ed i muscoli tesi, a vedere se il suono si ripetesse. Sentiva le vene pulsare ed il cuore battergli più forte e disordinatamente nel petto. La solitudine del luogo, a quell'ora, tra quei suoni indefiniti e minacciosi, gli fece improvvisamente sentire tutta la fragilità della sua persona; un indicibile senso di paura gli torse le budella e per lo sgomento in un sussurro esclamò: «Gesù!...». | << | < | > | >> |Pagina 30Antonia lui l'aveva incontrata per la prima volta l'anno prima, esattamente il giovedì 16 febbraio 1804. Non avrebbe potuto dimenticare quella data perché in quel giorno egli aveva compiuto vent'anni. Quella sera, Berardino aveva smesso di lavorare con un po' di anticipo, aveva chiuso la bottega e, dopo essersi cambiato d'abito, si era recato all'imbrunire nella chiesa di Santa Maria la Nova per fare due chiacchiere, come faceva spesso, con Pasquale Capodrise; o, meglio, con don Pasquale, giacché questi, oltre ad essere il suo amico del cuore, era anche uno dei curati della parrocchia. Quella sera, per di più, Berardino, per festeggiare il suo compleanno, aveva in animo di invitare Pasquale a cena e di portarlo con un calesse preso a nolo su a San Sebastiano, dove c'era un'osteria detta "A taverna d' 'o fuoco" per via d'una corrente lavica che l'aveva proprio lambita, nota per il bel panorama, per l'aria buona e per l'ottima cucina.Berardino era un giovane di bell'aspetto, dal bel portamento e molto curato nella persona. Nessuno, vedendolo, avrebbe detto che era solo un calzolaio. Anche perché, spendendovi buona parte dei suoi guadagni, amava vestirsi bene, con abiti ben confezionati e di buon gusto. Quello che indossava quella sera se l'era fatto fare addirittura da Biagino Romano, un sarto della capitale, con bottega in via Toledo, al quale si rivolgeva la ricca borghesia della città. Così, don Pasquale Capodrise quella sera se lo vide comparire dinanzi vestito come un dandy e con quel suo solito sorriso spavaldo sulle labbra. Benché litigassero spesso, i due si stimavano e si volevano un gran bene. Berardino apprezzava in Pasquale la comprovata rettitudine, il fervore della fede e l'apertura mentale dell'uomo che, pur essendo un prete, non era un bigotto. E poi, ancora di più, ne ammirava la cultura. Come il faro rischiara le tenebre e fa da richiamo al navigante nella notte indicandogli il porto, così quel prete era per lui la luce che rendeva meno fitte le ombre della sua ignoranza. Già, perché Berardino non sapeva né leggere, né scrivere e, benché l'analfabetismo fosse condizione endemica a quel tempo, egli intimamente ne soffriva. Infatti, fin da piccolo, avrebbe voluto che il papà gli desse una istruzione, ma quegli, purtroppo, non aveva mai avuto abbastanza denaro per pagargliela. Al padre, Francesco, era dispiaciuto non poter accontentare quel suo figliolo che, più degli altri, aveva dato prova di sensibilità e d'intelligenza, ma le quattordici once che guadagnava in un anno bastavano appena per le necessità della famiglia e non avrebbe potuto pagare neppure un soldo per un istitutore. Berardino un giorno, da bambino, mentre aiutava il padre nella sua bottega a servire i clienti, aveva visto passare per strada don Tullio Sacco, un abatino di Somma che faceva da precettore ai rampolli della nobile famiglia dei Tomacelli. «Vedi, papà?», aveva esclamato. «Quello lì insegna a leggere al signorino Andrea...». Poi, ricordando che il padre già altre volte gli aveva detto che non poteva permettersi di pagargli un maestro, si sentì salire un nodo alla gola e tacque; abbassò lo sguardo sulla cesta del pane e chiuse gli occhi per trattenere le lacrime. Il padre lo guardò, diede il resto ad un cliente e, quando furono soli, cercò di spiegargli perché avrebbe dovuto fare a meno di un'istruzione; ma, mortificato per non poter esaudire il desiderio del figlio, andò in cerca di motivazioni che parvero poco convincenti a lui stesso. «Insomma, figlio mio», gli disse infine, «a gente come noi serve ben poco saper leggere e scrivere. E poi, tu che ti credi? Perché t'è venuta tutta 'sta smania 'e te 'mparà letterato?». «Papà... ma il signorino Andrea...». «Ma il signorino Andreal...», esclamò allora il fornaio spazientito, «...il signorino Andrea tiene il padre barone, che si può permettere di pagare un prete che ci fa da maestro al figlio; e io nun so' barone!... Ma non lo vedi come mi rompo la schiena per far campare voi, per guadagnare quello che serve per la famiglia?... 'O barone Tomacelli, invece, non lavora; il barone tiene le terre, tiene le case, se ne va in giro in carrozza con un servo che ci corre avanti e due che ci corrono dietro; il barone mangia tutti i giorni il pane bianco che io gli faccio e che tu gli porti ancora caldo fino a casa... e poi, che ti credi?, che nei libri ci sta scritto comme se fa pp' addiventà... pp' addiventà... ma che vuo' addiventà, tu?». Il ragazzo deglutì. Faticava a frenare il pianto e avrebbe voluto spiegare al padre il suo pensiero; ma quello s'era arrabbiato. Avrebbe voluto dirgli che, qualche giorno prima, nel portare il pane a casa del barone, lo avevano fatto entrare dalla porta padronale, perché a quella della servitù ci stava lavorando il fabbro. Avrebbe voluto dirgli che gli avevano fatto attraversare tutta la casa; e che casa!... una casa con tante stanze, che pareva che non finissero mai. E, in una di quelle stanze, come se fossero la tappezzeria delle pareti, ci stavano tanti libri; libri da tutte le parti, grandi e piccoli e di tanti colori; e proprio li, seduto dietro a un tavolo grande grande, in mezzo a un gran mucchio di libri e che a stento si vedeva, ci stava il signorino Andrea che leggeva a voce alta in presenza di don Tullio e del barone, che ascoltava con una faccia tutta contenta. Lui, con la sporta del pane addosso, s'era fermato un momento per sentire, ma non aveva capito neppure una parola perché quello parlava come il prete in chiesa quando dice la messa. Per curiosità, allungando un poco il collo, aveva dato un'occhiata ad un libro che stava lì, aperto, sull'orlo del tavolo e sembrava che quasi cadesse. Ma don Tullio, non appena l'aveva visto, gli aveva fatto segno con la mano di andar via. Quel gesto aveva attirato l'attenzione del barone che, nello scorgere il ragazzetto, aveva avuto un moto di fastidio; aveva preso il campanellino che stava sul tavolo e aveva imperiosamente suonato. Il servo che accompagnava il garzone, e lo precedeva per fargli strada, non s'era accorto che quegli s'era fermato; al trillo del campanello, voltatosi e ritrovatosi solo, era tornato indietro di corsa. Il barone, irritato, lo investì con un richiamo: «E comme, Ferdinà, tu mi lasci questa gente per casa!?», disse, indicando il fanciullo con un'espressione che rimarcava disgusto. «Un garzone di panettiere?!...». «Eccellenza, quello, 'o guaglione... io... scusate, scusate...», rispose il cameriere confuso. «Portalo in cucina!» «Sissignore, subito, subito...». E arretrando, inchinandosi al suo padrone, nel riguadagnare l'uscio, trascinò sgarbatamente con sé il ragazzo. «E cammina!...», gli sibilò a denti stretti, facendogli intendere, con lo strattone che gli diede, tutte le contumelie che avrebbe voluto dirgli. E lui, mentre il servo lo trascinava via, aveva sentito il barone dire con aria infastidita a don Tullio: «Ma so' ccose 'e pazz'! Ma come osa quel piccolo plebeo disturbare la lezione di mio figlio?!». «Res sacra miser...», s'avviava a rispondergli il prete. «Dice il filosofo che...». Ma il barone gli troncò la parola in bocca: «Neh, don Tu'! E ch'è, me vulisseve fa 'a prereca in casa mia? Eh no! No, caro il mio don Tullio: ccà, si nun ce stamm' accorti, coi tempi che corrono, questi cafoni analfabeti 'nce avotano sott'e 'n coppe! Ognuno ha da stare al posto suo, comm'ha voluto Iddio!». Plebeo, Berardino non sapeva bene cosa volesse significare; ma cafone e analfabeta sì, e si era sentito come se quello gli avesse sputato in faccia. Plebeo, cafone, analfabeta. Il ragazzo si era sentito avvampare tutto a quelle parole che, adesso, gli giravano e rigiravano nel cervello bruciandogli come il sale su una ferita; e, se ci pensava, sentiva ancora come se qualcosa gli si agitasse dentro fino a farlo star male. Questo avrebbe voluto dire a suo padre; ma le parole vennero meno e proruppe in lacrime: «Io nun voglio essere nu plebbeo analfabeta!», singhiozzò. Quel grido, quella protesta, quel pianto, colpirono profondamente il fornaio: dunque, suo figlio si vergognava della sua condizione, della sua famiglia, di suo padre, giacché anche lui era un plebeo analfabeta. E con ciò? Non era forse giusto? Non era giusto, forse, che suo figlio desiderasse diventare un uomo? Un uomo, cioè, una persona; un uomo di quelli ai quali tu non puoi dire: «Tu? Chi sei tu, verme della terra?». E non desiderava egli stesso, se non più per sé, almeno per i suoi figli, un futuro da uomini in mezzo agli uomini? E quel futuro era forse nascosto nell'inchiostro dei calamai e tra le pagine stampate dei libri? Lui non lo sapeva. Sapeva però che se, occasionalmente a quei tempi, l'istruzione poteva risolvere in meglio la vita di qualcuno che non stesse già bene di suo, certamente il saper leggere e il saper scrivere non sarebbero bastati a risolvere in meglio la vita di una così gran moltitudine di oppressi e diseredati. Il panettiere s'intenerì al pianto del figlio. Gli mise una mano sotto il mento, gli sollevò dolcemente il capo e guardandolo in volto gli disse: «Nun chiagnere, Berardì, non piangere... piccirì, tutto quello che ti può dare papà tuo è l'esempio d'una vita onesta; e, per quella poca esperienza che ho della vita più di te, posso darti pure qualche buon consiglio. E, proprio perché ho capito qualche cosa di questa schifezza di mondo in cui viviamo, ti devo dire, credimi, che non bastano i libri a cambiare la sorte della povera gente». «E allora, papà, che cosa può farlo?», aveva chiesto il piccolo. L'uomo esitò un attimo. Guardò in giro nella bottega come se le parole della risposta stessero sparse intorno, nascoste tra le pagnotte ammucchiate nella cesta, tessute nel canovaccio dei sacchi di farina o covassero come brace sotto la cenere dei mille e mille fuochi che egli aveva acceso e consumato nel suo forno. «Non lo so, figlio mio, non lo so. Forse potrebbe farlo il coraggio; o forse la disperazione; o, chissà?, il senso della dignità; o l'ambizione; o tutte queste cose insieme. Non lo so... Sarebbe necessario, però, che questi sentimenti li provassero tutti. Voglio dire che la gente, la gente che passa per la strada, tutta quanta provasse lo stesso sentimento. Ed è proprio per questo che io penso che sarà difficile che le cose potranno cambiare. Tu ti devi fare capace che il nostro è un popolo di indifferenti, di tira a campare, di lazzaroni... ma, soprattutto, è un popolo di servitori: guarda, guarda nella strada», gli disse, scostando la tendina dai vetri, «e dimmi se non vedi altro che serve, lavandaie, lacchè, stallieri, cocchieri, sguatteri... guarda e dimmi: chi li smuove questi dalla vita che fanno? Questa è tutta gente abituata a servire; ma chi devono servire, e come, de chesto nun le passa manco pa' 'a capa. Servono... e tutti, uomini e femmine, s'accontentano della minestra o del tozzo di pane che gli passa il padrone, del saccone per dormire, del vestito da servo che quello gli dà. E, con queste poche cose, il padrone copre la loro nudità, sfama le loro bocche, mette a tacere la loro coscienza e la loro dignità. E, così facendo, si comportano tutti come il cane che, finché ci ha un padrone che ci getta un osso, gli dà un ricovero, nce fa na carezza e ogne tanto ci dà pure lo zuccherino, difficilmente quello, il cane, troverà il motivo e il coraggio per farsi lupo... Guagliò, guarda quella gente e dimmi: chi la smuove dalla vita da cane che conduce? Chi la toglie dalla sua cuccia?». Berardino guardava e sentiva che con quella gente non voleva avere niente a che fare. S'asciugò gli occhi. «Io non voglio essere così, padre», disse con fierezza. «Io sarò diverso». Intenerito, l'uomo se l'accostò e, tenendogli le mani sulle spalle, rispose: «E come, figliolo, come? Non credi che se tuo padre sapesse indicarti il modo...». Fu interrotto da un uomo che entrava. Era mastro Nicola, un anziano falegname che aveva bottega all'altro capo della strada. «Francé, bongiorno!», disse quegli, senza togliersi la pipa da bocca. «Bella giornata, eh? E questo giovanotto che dice, che dice, eh? Ma... uèh! E che d'è 'sta faccia? Che è successo?». «Eh, e che è successo... niente. Ch'ha da succedere? Ha visto don Tullio che andava dai Tomacelli e gli è venuta voglia di studiare». «Ah, e vabbuò, nun ve pigliate collera. Quelle sono cose da ragazzi. Quello poi gli passa...». «No, no...», replicò il fornaio. «Io comprendo e apprezzo il suo desiderio; e lo rispetto. Ma, se vi devo dire le cose come stanno, soldi per queste cose non ne tengo; e Dio sa se me ne rincresce. Però, oltre a questo, vorrei fargli capire che, di questi tempi, forse è meglio non averla un'istruzione...». «E certo! e come no, anzi... è forse addirittura pericoloso!», convenne il falegname. «Vi ricordate di quei giovanotti di buona famiglia, l'anno passato?... Vi ricordate quel... comme se chiammava?... ah!: De Deo! Quello! Con quei suoi amici... chilli ca vulevano fà li giacubbini? ve ricurdate? Se dicette ch'avevano cospirato contro lo re, ca pirciò li facette giustizziare». «Ma quale cospirazione, quale giustizia, masto Nicò? Quello è stato un vero e proprio delitto, un assassinio di Stato, ecco! E questo lo dovrebbero sapere tutti quanti. Invece il popolo, lo vedete?, o pensa solo alla pancia, o ha paura, o se ne fotte; o tutt'e tre queste cose insieme; solo così si spiega perché tutta questa gente applaude sempre chi comanda, chiunque sia. Masto Nicò, qua, per cambiare le cose, bisognerebbe anche istruirla questa gente; ma prima bisogna darle una coscienza. Perché, che vi credete?... sono tutti analfabeti come voi e me, ma, se anche sapessero leggere e scrivere, voi pensate che questi abbandonerebbero l'osso che gli getta il padrone?... sarebbero capaci di andarsi a cercare o di crearsi qualcosa d'altro?... e che cosa, poi, se il potere, l'istruzione, le terre, le case, tutto!, tutto sta nelle mani dei nobili, dei blasonati, dell'aristocrazia?...». «E quindi? Lo vedete? Che cosa si potrebbe fare? Che cosa fareste, voi?». «Da solo, masto Nicò, che volete che faccia? Nun me pozzo mettere a fa llo Masaniello. Ma, se il popolo capisse che tutte queste cose dovrebbero essere divise in parti uguali, tra tutti quanti, nu poco per uno... Se il popolo capisse che a questi signori che ci affamano e ci rendono schiavi sarebbe ora di tagliargli la testa, come si sente dire che stanno facendo in Francia...». «Shhh!», lo zittì il falegname, guardandosi intorno circospetto. «Site 'mpazzuto, Francé?... Fare questi discorsi... 'a vulisseve perdere vuie 'a capa?». «Nun c'è pericolo, masto Nicò: perdere la testa è privilegio di chi tiene un blasone; e poi, siamo tra di noi... Comunque, credetemi, se non fosse per queste creature», aggiunse, poggiando la mano sul capo del fanciullo, «quello che ho detto a voi lo andrei a gridare in mezzo alla piazza, accussì, 'n miezo a tutta 'sta gente addurmentata, qualcheduno forse se scetarria...». «Sentite a me, che sono vecchio: 'o popolo è comm'a na belva, e perciò è meglio ca dorme. Pecché, si 'o popolo se sceta, ccà scorre sangue pe' tutt'e parte!... I frangesi, voi dite? Ma non avete sentito che bestie, che animali? In nome dell'uguaglianza e della fratellanza stanno commettendo le più feroci atrocità; e facitem' 'o piacere!... Due anni fa, tagliarono la testa a Luigi, il re loro; poi, alla povera Mariantunietta, infelice sorella della reggina nostra... e con quali risultati?... Vi chiedo: quali risultati?... Bah!... qua i risultati li abbiamo visti: il re ha fatto alleanza con gli inglesi; ha fatt'accidere chilli poveri guagliuni per dare l'esempio a tutti li giacobbini del Regno; mo, uno deve stare attento a quello che dice e a quello che fa e viviamo tutti nel sospetto e nella paura. E che vita è questa? In che schifo di mondo viviamo? ccà nun se capisce chiù niente!... Ah! avete sentito di Medici, il principe di Ottaviano?... quello che era il capo della polizia?... quello che aveva messo in giro tante spie, tanti sbirri?... ve lo ricordate?... beh, mo sta 'n galera pure lui!». «Amico mio, datemi retta», replicò il fornaio. «I giacobini che teniamo qua saranno tanti quante le dita di una mano; forse di due. E non è gente del popolo: so' allitterati. È gente che vorrebbe fare la rivoluzione a tavolino; gente che trova le idee sopra i libri e crede di poterle trasformare in ideali. Ma poi, fessi fessi, quelle idee le vanno a scrivere sopra ai giornali, che però sanno leggere solo loro e chi non li dovrebbe leggere. Vorrebbero smuovere il popolo... Seh! Prima o poi, dovranno accorgersi che purtroppo sono in pochi. E quando perderanno la testa in mezzo al mercato (perché la perderanno) il popolo si farà pure una grande risata. In Francia, invece, pure se si stanno scannando tra di loro, si sono almeno liberati di quel servaggio che fa ancora schiavi noi. Stanno bagnando il loro Paese di sangue, voi dite? È vero, ma almeno hanno dimostrato che nelle vene avevano del sangue. Noi, invece... eccoci qua!», disse indicando nuovamente le persone che passavano per strada, «ecco cosa siamo, noi: servi che si adagiano nel loro stato e si accontentano del poco che hanno. Questi, li vedete?, non solleveranno mai la testa dalla scodella che gli mette innanzi il padrone, per paura di perdere questa e quella: il popolo deve soddisfare bisogni, non idee; e i letterati non hanno capito che la rivoluzione non si fa nei salotti, ma con il popolo. Perciò, se qualcuno sarà tanto pazzo da tentare la rivoluzione senza questi qui... dovrà pagarla cara. E pure... i "nobili", questi affamatori di popolo, questi parassiti blasonati dal sangue blu, bisognerebbe schiacciarli come i pidocchi che infestano le loro parrucche incipriate; e poi anche questi, pure i preti», aggiunse, vedendone transitare uno per strada, «pure questi scarafaggi neri bisognerebbe schiacciare; questi, che dal pulpito predicano la povertà e poi, con i soldi delle elemosine, accumulano ricchezze nei loro materassi e in quelli delle loro concubine». «Concubine, padre?...», aveva chiesto il ragazzo al quale quella parola era ancora sconosciuta. | << | < | > | >> |Pagina 157Il lunedì in Albis è consuetudine per i cittadini di Sant'Anastasìa e del suo vasto circondario di recarsi alla basilica della Madonna dell'Arco. Questa chiesa accoglie, o per meglio dire racchiude, un affresco di autore ignoto e di epoca imprecisabile, raffigurante la Madonna col Bambino. L'immagine ha un modestissimo valore pittorico, ma ne ha uno religioso grandissimo, perché miracolosa. I miracoli, innumerevoli, sono documentati dagli ex voto che tappezzano letteralmente le pareti della chiesa e dei locali annessi e sono costituiti, la maggior parte, da piccoli e ingenui dipinti nei quali si rappresenta il miracolato, la circostanza del miracolo e la Vergine con il Bambino in braccio. Oltre alle tavolette dipinte, si raccolgono nella chiesa anche gli ex voto più usuali, come stampelle, apparecchi ortopedici, organi vari riprodotti in bassorilievo su sfoglie di metallo più o meno prezioso, oggetti di valore e non, offerti in pegno d'una pena alleviata o d'un pericolo scampato. Ma, fra tutti, inusuale e raccapricciante, è una gabbietta di ferro all'interno della quale sono custoditi i piedi incartapecoriti di Aurelia Del Prete. Era costei, alla fine del '500, una nota peccatrice e bestemmiatrice che, per aver inveito contro l'immagine sacra, venne punita dalla Vergine con il distacco spontaneo delle estremità.Dinanzi a quella macabra testimonianza, conservata in sagrestia, Antonia rabbrividì e volle tornare in chiesa. Qui la ressa delle persone era incredibile. Tutti si accalcavano e spingevano per poter assistere all'arrivo dei "fujenti". Questi sono dei fedeli che, nella ricorrenza della Pasqua, percorrono a piedi scalzi e di corsa le strade della provincia di Napoli per raccogliere oboli per la chiesa della Madonna dell'Arco. I più esaltati indossano cilici e si producono ferite a mezzo di fustigazioni. La loro corsa si conclude sulla soglia della basilica nella quale i più entrano procedendo in ginocchio o bocconi, lambendo con la lingua il pavimento fino ai piedi dell'immagine sacra. È uno spettacolo terribile e commovente che non manca di coinvolgere in manifestazioni di isterica devozione soprattutto le donnette del popolo. A quei tempi, dinanzi la chiesa, c'era un grande spiazzo nel quale la gente si riversava dopo la funzione e vi si tratteneva, variamente attirata da ambulanti e saltimbanchi. C'era il cantastorie che, innanzi ad un telo dipinto e diviso in riquadri, narrava con una nenia cantata e recitata le circostanze del primo miracolo, per passare poi, cambiando telo, a storie più popolari e scollacciate. C'era Giruzzo d' 'e gguarattelle, il burattinaio, che nel suo trespolo di tela e legno, dal quale si affacciava Pulcinella inseguito dal diavolo o dai gendarmi, donava per un soldo il sorriso a grandi e piccini. Su quei sorrisi si soffermava l'attenzione del tiramole, il dentista ante litteram. C'era il tarallaro o venditore di taralli; c'era il franfelliccaro, che tra l'ammirazione e l'impazienza di piccoli clienti, plasmava a mani nude una gran massa di zucchero fuso e, con magica abilità, lo trasformava in bastoncini colorati o in bomboloni, antesignani dei moderni lecca lecca. C'era un dottore, che vendeva balsami e unguenti miracolosi, buoni per malanni d'ogni genere. C'era il venditore di belletti, che proponeva essenze al bergamotto o alla lavanda e un profumo di Parigi, miracoloso per la seduzione esercitata sulle persone amate. Così, tra miracoli sacri e profani, mischiati tra la folla, anche i Coppola e i De Luca trascorsero una buona parte della mattinata tra curiosità, piccoli acquisti e sfizi, come il sorbetto di limone che vendeva Totonno 'a neve, l'acquaiolo ambulante. Quando la combriccola decise di partire per la scampagnata di rito, la giornata era bella e rallegrata dal profumo della primavera, dal sole già caldo, dall'aroma di vaniglia e di cannella che il venditore ambulante di zeppole e panzarotti abbandonava alla mite brezza, insieme con l'odore acre dell'olio fritto. La comitiva andò verso Caserta. La mole smisurata e superba della reggia dominava tutto il paesaggio della Terra di Lavoro. Passando sotto l'enorme costruzione, Berardino pensò, forse con un pizzico d'invidia, alla favoleggiata bellezza del giardino inglese, in cui i componenti della famiglia reale, gitanti di professione, potevano trascorrere il loro tempo all'aperto; mentre loro, gitanti d'occasione, avevano a disposizione solo la rustica bellezza della campagna. Decisero di fermarsi a Triflisco, all'osteria della Zoccola, nei pressi d'una sorgente. Mangiarono e bevvero in allegria. La vita ad Antonia sembrò, quella mattina, fresca e spumeggiante come l'acqua minerale della sorgente che con le sue bollicine le aveva fatto venire il pizzicorino al naso. Nell'aia dell'osteria si ballava una tarantella e, per quell'ebbrezza nuova che provava, fatta di felicità, la ragazza si lasciò prendere dal ritmo della danza: il martellare delle tammorre, il vibrare greve dei putipù, l'isterico tinnito degli scetavajasse, sembravano insinuarsi sotto la sua pelle e nel suo cervello, possedendola totalmente e spingendola a trascinare anche il riluttante ragazzo in quella danza pagana, orgiastica nei suoni degli strumenti e nelle voci dei partecipanti. D'un tratto il tempo mutò. Il cielo si fece nero e un immane scroscio d'acqua si rovesciò sulla terra. Ognuno corse verso il ricovero più vicino. I due giovani fuggirono verso il fienile dove si ritrovarono soli, separati dal mondo da un impenetrabile muro d'acqua. | << | < | > | >> |Pagina 187Tenendolo per il braccio con amichevole prepotenza, Sabatino costrinse l'amico ad entrare nel caffè. Il locale, uno dei due padiglioni vanvitelliani costruiti all'ingresso della villa reale, era affollato, pieno di fumo e di vapore che condensava sui vetri. In un angolo alcuni avventori lasciarono libero un tavolo e i due vi si sedettero. Berardino accese un sigaro. Aveva accettato quell'invito solo per cortesia. Lo impacciavano i pacchi che portava sotto braccio e, ancora di più, quello che aveva in mano, che era il più grande, con la bambola per la figlioletta. Era infreddolito, stanco per la levata all'alba e per il viaggio in città. Aveva girato tanto. E poi, nel corso della mattinata, con clienti e fornitori, di caffè ne aveva già bevuti sei e non tutti volentieri. Inoltre, la sua mente era occupata dal pensiero di quanto gli era accaduto qualche ora prima; un pensiero con il quale combatteva la necessità del ritorno a casa, dove avrebbe goduto delle attenzioni di Antonia e dei sorrisi vezzosi della sua bambina, dell'espressione meravigliata e ridente dei suoi occhi alla vista dei doni che lui le portava. Al termine dei suoi giri, stava appunto tornando sui suoi passi quando, nell'imboccare il Chiatamone, s'era sentito chiamare. Ora era li, in quel caffè, e di caffè non aveva alcuna voglia. Perciò, quando Sabatino ne ordinò due, lui corresse l'ordinazione chiedendo un grog. Era quello che gli ci voleva.Aveva tergiversato prima e recalcitrato poi, per sottrarsi all'insistente invito dell'amico a bere qualcosa; ma ogni pretesto era stato inutile. Anche se Sabatino gli era simpatico, quell'invadenza lo aveva un po' seccato. Poi, si accorse che stare lì, al caldo, gli permetteva di far rifluire il sangue alle orecchie, che erano il suo punto debole, e si rassegnò. «E allora? Che cos'è che devi dirmi con tanta urgenza?», chiese stropicciandosi un lobo che gli doleva per i geloni. Non vedeva l'amico da due o tre mesi. Il pittore stava lavorando al restauro di alcuni dipinti in un palazzo nobiliare della città. C'era tanto rumore e tanta confusione nel locale, ma Sabatino si preoccupò ugualmente che qualcuno potesse sentire quello che avrebbe detto e, per precauzione, si spinse verso l'amico che gli sedeva di fronte e a bassa voce cominciò: «Ferdinando è partito; e questo l'hai visto. Giuseppe Bonaparte sarà il nuovo re; e questo lo sappiamo. Ma quando il fratello di Napoleone siederà sul trono di Napoli, cosa succederà?». «E a me lo chiedi?... Sabati, se sapevo che mi dovevi fare una domanda così fessa!... Io non faccio l'indovino e non ho più tempo per la politica; e poi», aggiunse, accennando a prendere cappello e bastone, «ho fretta di tornare a...». «Aspetta! Calma... Ma come? sei tu? sei proprio tu "quel" Berardino, l'amico, il compagno di tante battaglie?... Ah, non ti riconosco! Da quando ti sei sposato non fai altro che pensare al lavoro, alla famiglia... Berardì...», proseguì, abbassando ancora di più la voce e accostandoglisi ancora di più, «...qui si stanno preparando cose... cose grandi, cose nuove!... Il mondo cambia, va avanti, e noi non possiamo restare immobili a guardare. In tutto il Regno c'è malcontento; dappertutto ci sono nuove idee che fermentano, ci sono movimenti sotterranei... sì, sì, ti dico!... ci sono persone che aspettano di vedere cosa succederà domani, ma c'è pure chi studia, chi si dà da fare e di nascosto prepara, educa gli uomini, in attesa di poter venire allo scoperto. I tempi cambiano; la gente cambia. Insomma, ora è come quando sotto i carboni cova la brace e, sotto la brace, il fuoco... Il vento dei tempi nuovi sta spirando dalla parte giusta; dobbiamo farlo spirare dalla parte giusta, così che la brace diventi fiamma e la fiamma incendio. Ci sono uomini, uomini veri, che nutrono sincero il sentimento della libertà ed è come se celassero in loro un fuoco sacro. E quegli uomini devono unirsi e cooperare, devono adoprarsi affinché quel fuoco non muoia ed anzi cresca e avvampi al momento opportuno. E tu che fai?... Non sei più tu uno di quelli? Vuoi startene, forse, in pantofole a guardare?... Eh no, perbacco!, non puoi, non devi! Se mai ci sarà un mondo nuovo, dovrà essere quello che avremo scelto di fare noi, noi tutti. Ma per avere un mondo nuovo, bisogna prima bruciare quello vecchio. Il fuoco della libertà, dell'uguaglianza sociale, per la quale anche tu hai combattuto, ha bisogno di chi lo alimenti e insegni agli altri ad alimentarlo. Ha bisogno...», proseguì, abbassando ancor più la voce, «...ha bisogno di bravi "carbonari"... di quelli che sappiano fare del buon "carbone", asciutto e schietto, che bruci bene e al momento giusto...». Si interruppe. Sabatino attese che il cameriere posasse sul tavolo le bevande fumanti. Poi, studiata un attimo l'espressione dell'amico, aggiunse: «Ci sono delle persone alle quali ho parlato di te e che vorrebbero conoscerti». Berardino ci pensò un po', restando rigido per qualche istante. Quelle parole, quelle frasi a metà, allusive, dette lì, tra quella confusione... non tutto era chiaro, né poteva esserlo. Di Carboneria in quei giorni non se ne parlava ancora. Quel movimento settario, nato con ogni logica probabilità da uno scisma della massoneria, nell'arco di tre lustri sarebbe dilagato ampiamente tra la popolazione e avrebbe condotto a nuovi moti rivoluzionari il Regno. Ma, in quel momento, era una società segreta sconosciuta finanche ai servizi di polizia e nota solo ad un numero ancor limitato di adepti che sotterraneamente e alacremente lavoravano alla diffusione di ideologie nuove. Come capita ancor oggi, sulla stessa radice ideologica sarebbero col tempo germogliate varie correnti, varie sette dai nomi fantasiosi che, pur differendo tra loro nei modi e nei mezzi per raggiungerlo, si prefiggevano come obiettivo comune e prioritario la concessione della Costituzione al popolo. L'accenno fatto fin troppo scopertamente da Sabatino a segrete cospirazioni, a complotti contro la tirannia dei governi e in favore della eguaglianza sociale, della libertà dei popoli, se fatto solo poche ore prima, quando il ragazzo era in condizioni di spirito diverse, non avrebbe mancato di agitare in lui nuove tempeste che avrebbero sicuramente disperso la cenere sotto la quale Berardino, in quel primo anno di matrimonio, si era sforzato di soffocare l'antica fiamma. Egli, però, si manteneva tiepido per due motivi: primo, perché Napoleone aveva ampiamente tradito gli ideali della rivoluzione (e quindi non comprendeva né l'entusiasmo né l'ottimismo dell'amico); secondo, perché un'altra fiamma, d'altro genere ed ugualmente inestinguibile, proprio quella mattina, era stata fatalmente riaccesa dall'incontro con Amalia, avvenuto per caso in via Santa Brigida, sulla soglia d'un negozio di giocattoli dove Berardino si accingeva ad entrare per comprare una bambola. Essa ne usciva accompagnata da una camerierina, che teneva in braccio una graziosissima bimbetta di circa un anno, e da una dama dall'aspetto severo, forse una governante, alla quale la donna si rivolse un paio di volte in inglese. In strada, il gruppetto era atteso da una carrozza con lacchè e cameriere in polpe. Si erano salutati, sorpresi e non senza imbarazzo. Lei però, cancellata in un istante un'espressione dolce, innegabilmente di tenerezza, s'era mostrata fredda, sfuggente. Si erano scambiati poche parole, frasi impacciate, esitanti, falsamente indifferenti, diverse in tutto da ciò che pensavano e che avrebbero voluto dirsi. Lui, stordito dall'inatteso incontro, dalla bellezza di lei, ancor più splendente nell'elegante abito grigio che indossava, aveva capito solo che Amalia stava facendo gli ultimi frettolosi acquisti prima di imbarcarsi, in mattinata, per Palermo. Il marito, funzionario di Corte, seguiva il re in Sicilia. Quanti e quali ricordi si fossero d'un tratto risvegliati nei due è superfluo dirlo. Quando erano giunti al momento di salutarsi, infatti, vi era stata da parte di entrambi una certa esitazione, quasi che ognuno avesse voluto trattenere l'altro attardandosi a ripetere frasi banali, del tipo: «Allora, stai bene?...» «Io?... Sì... Sì, sto bene... E tu?». Fu per quello che poi Berardino si recò ad assistere all'imbarco. Sperava di rivederla e di poterle parlare ancora, ma non la vide. Il pensiero di lei, che per tanto tempo aveva nascosto a se stesso, era improvvisamente riemerso nel suo cervello e ora ne occupava ogni spazio, sì da rendergli persino difficile seguire le parole di Sabatino, che in quel momento gli chiedeva: «...E allora?...». "Allora che?", pensò lui, che si era perso l'oggetto della domanda. Bofonchiò qualcosa: «Carboni... carbonari... fuoco... libertà... Parole, Sabatì, solo parole: poesie!... Poco più d'un mese fa io sono stato bussolato, lo sai. E se non sono stato arruolato è proprio perché ho famiglia. Ho famiglia, Sabatì: fa-mi-glia!...». Assaporò il grog, i cui vapori alcolici gli fecero pizzicare le narici. Sabatino lo guardò senza replicare. Poi, sollevando con fare scettico un sopracciglio, riprese: «Tu non me la conti giusta... C'è solo una cosa che per te può contare più della politica: una donna! E non dirmi che è tua moglie o tua figlia perché non ti credo». Il modo profondo in cui l'amico mostrava di conoscerlo e il bisogno di lenire la dolorosa ferita riapertasi in lui quella mattina lo spinsero a confidarsi con il pittore e a raccontargli la pena di non essere riuscito a dimenticare Amalia. Aveva cercato per un anno di tener lontano il mondo, ma quello gli era ricaduto addosso all'improvviso. Parlarono di donne, dell'amore, del destino. Sabatino raccontò che stava per l'appunto lavorando a ravvivare i colori di un affresco di modesta fattura nel quale era raffigurato il Fato, tenebrosa e oscura divinità generata dalla Notte, in compagnia delle tre Moirai, sue collaboratrici; e cioè: Cloto, la filatrice, alacremente intenta a filare l'invisibile ordito che lega gli uomini al loro destino; Lachesi, l'equità, che dà ad ognuno ciò che gli tocca in sorte; Atropo, l'immutabile, che taglia inflessibile lo stame della vita. L'ignoto autore del dipinto, però, forse maltrattato dalla sorte, aveva voluto rappresentare Lachesi addormentata, mentre un vento impetuoso disperdeva a caso i fili tessuti da Cloto. Quel pittore, forse, non aveva tutti i torti. Infatti, se il Fato fosse equo, se Lachesi non passasse troppo tempo a dormire, Berardino quella mattina non avrebbe dovuto incontrare Amalia, né Sabatino, che continuava a parlargli di trame e cospirazioni. Come vorrebbe una consolidata morale, egli avrebbe dovuto far ritorno a casa, al suo lavoro, e riabbracciare Antonia e la sua bambina. Invece, come non bastasse, dopo che uno dei fili tessuti da Cloto era giunto a mettergli di nuovo in subbuglio il cuore, un altro gli sarebbe caduto addosso di lì a qualche istante. «...e quell'idea è stata diffusa, spiegata», proseguiva l'amico, che aveva ripreso con enfasi il suo tentativo di adescamento politico, «...la gente sta cominciando a capire, a sperare; e in tutta Napoli, in tutto il circondario, in tutte le provincie del Regno, al di qua e al di là del Faro, prima o poi si sentirà levare dal popolo un grido, uno solo, che farà vacillare i troni di tutta l'Europa: "Costituzione!"». | << | < | > | >> |Pagina 221Le onde del mare erano enormi e si rompevano spumeggiando sulla scogliera, fatta di massi con spuntoni aguzzi come pugnali. Era esausto e non ce la faceva più a nuotare. Sentiva che questa volta non sarebbe riuscito a venirne fuori. Era da tanto che lottava per salvarsi, ma la risacca si faceva più forte, sempre più forte, e tra non molto l'avrebbe risucchiato, travolto, e lo avrebbe sbattuto su quelle rocce acuminate. Stava per morire. Fu preso dall'angoscia: morire? così, per nulla? lontano da casa, perso nell'immensità dell'oceano che stava per inghiottirlo e per rigurgitarlo chissà dove, chissà quando, restituendo alla terra non più un uomo ma un fantoccio gonfio, fetido, putrefatto, scomposto, osceno. Non avrebbe più rivisto la sua terra, né la sua casa, né la sua donna o la sua bambina. Di lui avrebbero saputo solo che forse era morto; anzi, sicuramente era morto, perché non era più tornato. Morto dove? morto quando? e come? e perché? Nessuno sarebbe andato a cercarlo; e, quand'anche, dove mai l'avrebbero potuto trovare? Morire. Ne provava, forse, anche il desiderio. Lo lusingava l'idea di lasciarsi andare, di smettere di lottare, d'acquietarsi, infine, in un sonno senza sogni, senza chimere, senza sparatorie, senza morti ammazzati; un sonno dove non ci sarebbero stati più re, né regine, né regni da riconquistare, né costituzioni da reclamare. La libertà, quella vera e irrevocabile, gli si offriva tra quegli scogli, lì, dinanzi a lui; ed egli vi resisteva. Nel cielo plumbeo, uno squarcio tra le nubi lasciò filtrare un raggio di sole che illuminò la scogliera. In quella luce, tra il biancore della spuma, essa apparve più orrida e nera: più grande, per la risacca che la discopriva dal profondo; più minacciosa, per il sordo mugghio del mare; più ostile, per le aguzze e lucenti asperità della roccia contro le quali si schiantavano i cavalloni e contro le quali lo avrebbe schiantato quell'onda immane che lo stava sollevando; e quella spinta verso l'alto non finiva mai, e lui saliva, saliva sempre più su. Quando fu giunto all'apice, vide sulla scogliera un uomo. Era ben vestito, il volto nascosto dal mantello che un vento furioso gli rivoltava addosso. Lo sconosciuto gli faceva dei segnali con una lanterna accesa che reggeva in una mano e che, sotto la furia del turbine, sembrava a tratti spegnersi per poi tornare a brillare. Con l'altra mano stringeva una strana catena d'orologio che gli pendeva da un lato all'altro del gilè e che al ragazzo sembrava di avere già visto. Cercò di guardarla meglio, ma uno spruzzo d'acqua l'accecò, riempiendogli anche la bocca. Annaspò, cercò di gridare aiuto, ma gli entrò altra acqua in gola; e intanto, mentre ricominciava a scivolare verso il basso, quello dalla scogliera gli faceva segno di no. "No che cosa? No che cosa?", avrebbe voluto chiedergli. Ma ormai l'onda, con un cupo frastuono, lo stava riportando giù. Ecco, la scogliera era lì ad attenderlo. C'era in quel flutto una forza indicibile; c'era in esso un'energia sovrumana: infernale? divina?... chissà... ma, di certo, egli ne sentì tutta la potenzialità distruttiva e creativa insieme, ne avvertì l'intensità e comprese l'inutilità di resistervi. Così si lasciò andare e l'onda lo trascinò via con forza. Fu un rotolio convulso, che durò qualche secondo; poi, urtò contro qualcosa di aguzzo che gli trapassò il polpaccio. E allora Berardino gridò forte, rinvenendo.
«Tenetelo! Tenetelo forte!», ordinò il chirurgo che lo stava operando.
«Se necessario, storditelo con...». Ma non ce ne fu bisogno, perché il ragazzo
perse nuovamente i sensi.
Quando tornò in sé era ancora nel mare: un mare di sudore. Si guardò intorno. Dove si trovava? Che cos'era successo? Dinanzi a lui il volto bello e un po' selvaggio d'una giovane donna che, mentre gli tamponava il viso con una pezzuola umida, ripeteva, sorridendogli, ringraziamenti alla Madonna. «Chi sei?... dove mi trovo?...». «Shh, shh... nun parlà, nun te sfurzà. Statte tranquillo, nun t'hai da agità...», rispose la ragazza, carezzandolo e asciugandogli la fronte madida. «Stai meglio, stai meglio, ringrazziann'a Dio». «Chi sei?». «Maria; me chiammo Maria... nun te preoccupà, statte quieto. Qua so' tutt'amice; tutta brava gente. Nun t'aggità...». «La gamba...». «Si' stato operato... lu patrone de casa, lu dottore Valiante, è nu chirurgo bravissimo; t'ha fatt'isso l'operazione, duje juorni fa. Mo stai meglio; stai meglio, ringrazziann'a Dio...». «Due... giorni fa?...». «Eh, sì! Ma mo ripòsate, nun te sfurzà. Lo dottore ha ditto ca si' troppo debbole...». Berardino la guardò meglio. La ragazza doveva avere sedici o diciassette anni. Capelli nerissimi, lunghi, ricci; occhi anch'essi neri e profondi, sotto due sopraccigli pieni. Il viso abbronzato, dai lineamenti aggraziati. Indossava una lunga camiciola di tela bianca, dalla quale trasparivano due seni turgidi che, quando si calava in avanti per asciugargli il viso, sembravano voler tracimare dalla scollatura. La stanza, sobriamente arredata, era rischiarata da un lume che stava sul comodino, la cui fiamma accendeva nelle pupille della ragazza due stelline rosse e faceva luccicare la sua pelle come fosse di seta. Dove si trovava? Chi era quella ragazza? Chi era quel dottor Valiante che lo aveva operato? Avrebbe voluto chiederlo, ma la spossatezza che avvertiva, la percezione ancora ovattata dei suoni e delle cose, come se appartenessero ad un altro mondo, e il senso di rassicurante dolcezza che gli veniva dalle attenzioni della ragazza, dalla comodità che avvertiva nel trovarsi finalmente in un letto, lo indussero a rimandare quelle domande. Guardò verso la finestra, che era aperta, dalla quale proveniva una brezza fresca e profumata. Nel cielo notturno brillavano, come gemme purissime, milioni di luminosissime stelle mentre altre, più piccole e più in basso, accendevano le loro luci mobili contro la nera sagoma degli alberi. Nello scorgere quelle fiammelle, Berardino si agitò. Gli era sembrato, tra quei minuscoli fuochi notturni, di veder brillare per un attimo il lume dell'uomo che aveva visto sulla scogliera e se ne spaventò. Non distingueva ancora la realtà dal sogno; ed era debole, troppo debole e stanco per rendersi conto che quelle erano solo lucciole. «Shh... buono... buono...», gli disse Maria, carezzandolo. «Nun t'aggità, ca te fa male... dormi... dormi, ca si' ancora stanco...».
Ed era stanco davvero, sì, tanto stanco. E, infatti, si riaddormentò.
Era ormai la fine di agosto. Berardino zoppicava ancora un poco, ma poteva già muoversi senza fare uso del bastone. La guarigione completa era vicina e quella sua condizione di ospite in casa del dottore cominciava a pesargli. Di più ancora gli pesava l'attaccamento morboso che Maria gli mostrava. Andare via non sarebbe stato semplice, anche perché la ragazza gli aveva salvato la vita. Ma non poteva più restare lì. Subito dopo che lui, febbricitante, imbracciando il fucile, era svenuto, sulla strada di Cassano s'era scatenato l'inferno. Gli svizzeri avevano preso a sparare su quella gente inerme che, credendoli inglesi, era accorsa a salutarli. A quello scellerato massacro contribuì la fanteria francese che li seguiva. Pochi sfuggirono all'eccidio. La ragazza gli raccontò che, per fortuna, lui aveva perso i sensi prima di riuscire a premere il grilletto e che, quando i soldati si erano dati a rastrellare il bosco per prendere quelli che vi si erano gettati nel tentativo di fuggire, lei lo aveva nascosto, trascinandolo sotto una cengia terrosa. Era rimasta con lui fino all'imbrunire, disperandosi nel non vederlo rinvenire e struggendosi per il padre, di cui non conosceva la sorte. Finalmente, al calare delle prime ombre, quando tutto ormai era finito, dopo aver vagato in cerca del genitore ed averlo trovato morto, la ragazza, che non aveva più nessuno al mondo, aveva deciso di tornare a Vallo, nel Cilento, dove faceva la domestica in casa del dottore Ottavio Valiante. Lì avrebbe trovato ricovero per sé e per quel ragazzo ferito. A Cassano, nella sua casa, non ci poteva andare più. Vi era tornata, richiamata dal padre, due giorni prima, giusto in tempo per raccogliere l'ultimo respiro della madre. No, non ci poteva tornare in quella casa; e, inoltre, chiedere soccorso per il ferito, in paese, dove c'erano ancora i soldati, equivaleva a farlo ammazzare. Perciò, facendolo passare per suo marito (e rideva sempre quando lo raccontava), Maria caricò Berardino sul carro d'un ambulante che andava verso Salerno e che, per le condizioni del ferito, pietosamente aveva accondisceso a dar loro un passaggio fino a Teggiano. Il viaggio era proseguito, prima, sulla carrozzella di un abate e, poi, su quella d'un cerusico che, troppo sbrigativamente, nel constatare le condizioni generali dell'uomo, aveva dichiarato che non c'era più nulla da fare. La ragazza, allora, aveva urlato come una matta che non era vero e, servendosi dei ferri del chirurgo, aveva praticato un'incisione nel polpaccio del ragazzo facendone uscire il pus; poi, aveva fatto colare nella ferita il succo di alcune erbe che, per la pratica che le veniva dall'aver aiutato il suo padrone nella preparazione dei medicamenti, sapeva che avevano proprietà antisettiche. L'ultimo tratto del viaggio, durato tutta la notte e tutto un giorno, l'avevano fatto sulla carretta di un ortolano. Giunti a Vallo, l'operazione fatta dal dottor Valiante aveva restituito la vita al ferito. «Siete un miracolato, ragazzo mio!», gli aveva detto il medico, visitandolo dopo l'intervento. «È stato necessario pulire la ferita raschiando fino all'osso. E se non avete perso la gamba o, peggio ancora, la vita, lo dovete a questa brava giovine». I giorni della convalescenza furono giorni di dolce far niente, angustiati dal pensiero della famiglia e dei suoi compagni, di cui non conosceva il destino, ma consolati dalle cure di Maria, che una sera gli si andò a mettere nel letto. Dopo aver fatto all'amore, lui le confessò che era già sposato. «Lu ssapìa già...», rispose lei, con un velo di malinconia nella voce. «Quanno tenivi la freva, hai parlato... ma nun face niente, nun te preoccupà». E poi, ridendo, gli raccontò di come aveva detto a tutti che era suo marito. Quindi, poggiò la testa sulla sua spalla e vi rimase accoccolata finché un batter d'ali non la fece trasalire. Sul davanzale della finestra aperta s'era posata una civetta. La bestia scrutò nel buio della stanza con i suoi occhi gialli. Berardino fece appena in tempo a vederla, prima che quell'uccello del malaugurio volasse via per evitare la zoccolata che la ragazza, spaventatissima, gli aveva tirato. «Calmati», disse lui scherzando. «Forse è venuta per me». «No, no!», protestò lei, tappandogli la bocca con una mano. «Nunn 'o dicere manco pe' pazzià! no!...». Poi, come constatando una cosa certa ed inevitabile, alla quale non c'è rimedio, aggiunse: «È benuta pe' mme». E non disse più nulla. Quali fossero i pensieri di lei, intenta a carezzargli il petto, Berardino non lo seppe mai. Lui, invece, si ricordò del racconto che gli aveva fatto suo padre poco prima di morire: in un momento di lucidità, durante la sua agonia, il suo papà gli aveva detto di aver visto, qualche giorno prima, una civetta che, posatasi su un ramo innanzi alla sua finestra, s'era messa a guardarlo. Quell'uccello, che era rimasto a lungo immobile a fissarlo, lo aveva atterrito. Il genitore gli aveva spiegato quella sua paura raccontandogli che la stessa cosa era capitata a suo padre, e al padre di suo padre, pochi giorni prima che morissero. E lui, fanciullo, per tranquillizzarlo, non aveva saputo rispondergli altro che si trattava solo di superstizioni. "Già, superstizioni... solo superstizioni", pensò il ragazzo. E, ripensando a quell'episodio, si sorprese di come il padre, che lo aveva educato insegnandogli il rifiuto di ogni superstizione, si fosse lasciato suggestionare da quell'innocua bestiola.
Nel buio della camera, si avvertivano solo il
cri-cri
dei grilli, che veniva dalla campagna, ed il respiro di Maria, che si era
assopita. Gran rumore vi facevano, invece, i tarli che così spesso scavano nei
nostri pensieri. E Berardino, per zittirli, si ripeté ancora una volta che erano
solo superstizioni. Poi, malgrado il caldo, prima di addormentarsi a sua volta,
chiuse la finestra.
«Oh, voi, figliolo!», esclamò il dottore interrompendo la propria lettura. «Venite, venite pure avanti. Accomodatevi. Come va la gamba? Meglio, vero?». Berardino entrò. Il medico sedeva dietro una scrivania sommersa di libri. Le pareti dello studio erano celate da un'alta libreria, zeppa di volumi. Nella stanza c'era odore di legno antico, di muffa e di polverose carte, proprio come nella sagrestia di Santa Maria la Nova, al suo paese, e il ragazzo non poté fare a meno di pensare a Pasquale, ad Antonia, a casa sua. Sentì forte come una puntura la nostalgia della sua famiglia; e questo gli accrebbe l'imbarazzo per l'incidente accaduto quel mattino; incidente che lo portava ora in quello studio per scusarsi col padrone di casa. «La gamba?... bene, grazie... Ecco, dottore, io le devo delle scuse per...». «Scusarvi? Oh, via!», interruppe sorridendo il medico. «Ma sono io che dovrei scusarmi. Sono io che ho sbagliato. Ecco, vedete? Leggo, studio, sono vecchio... e alla fine che cosa ho imparato? Poco, poco; ve lo dico io. Sono entrato nella vostra camera perché volevo consegnarvi di persona questa lettera, giunta all'alba con il postale. E poiché la vecchiaia, ahimè, spesso è fatta d'impazienze come la giovinezza, senza riflettere, sono entrato in camera vostra senza bussare...». «Non vorrei, dottore, che voi pensaste ch'io sia un ingrato. Io non intendevo mancare di rispetto a questa casa, né a voi, cui devo la vita. Io... Maria...». «Ragazzo mio», lo interruppe nuovamente il medico, «la vita voi la dovete alla vostra buona stella. Quanto a me, sono vecchio, è vero, ma non pensate ch'io abbia dimenticato cosa vuol dire essere giovani. Quello che voi avete fatto è, né più né meno, quello che avrei fatto io stesso se fossi stato al vostro posto. Ecco... possiamo dire che... avete giustamente goduto del riposo del guerriero. E poi, in fondo, voi siete ancora in quella fase della vita che io definisco "età animale"». «Età animale?...». «Oh, non risentitevi, vi prego. Ci sono passato anch'io nell'età animale e... talvolta, dubito di esserne del tutto uscito. Ecco, vedete, io divido la vita dell'uomo sostanzialmente in tre fasi: la prima, la giovinezza, è per l'appunto l'età animale. È quella fase della vita in cui l'istinto e le passioni prevalgono sui sentimenti e sull'intelletto; è l'età dominata dai sensi, nella quale si deve avere assolutamente ciò che si desidera; è l'età in cui la percezione del valore delle cose è spesso distorta; e, infine, è quell'età in cui la parola domani non ha senso e la morte non esiste... Perciò, voi due, avete fatto solo ciò che è nell'ordine naturale delle cose. Maria vi ama; è venuta a dirmelo piangendo poco fa. Temo, amico mio, che soffrirà molto quando partirete». «Da parte mia non le ho mai nascosto...».
«Ne sono sicuro. Questa lettera credo che vi giunga in risposta a quella
che mi chiedeste di scrivere a vostra moglie. Volete che ve la legga?».
La lettera diceva che Antonia e la bambina stavano bene. Pasquale, che l'aveva scritta, gli raccomandava caldamente di lasciare qualsiasi partecipazione alla resistenza e di rientrare al più presto. Ormai, non c'erano più eserciti regolari impegnati in quella lotta e tutti i fuorusciti sarebbero stati considerati briganti dal nuovo governo. Berardino annunciò al dottore che sarebbe partito col primo postale, due giorni dopo. Dopo pranzo, i due uscirono insieme per una passeggiata. Il medico volle mostrare al suo ospite il sito della Civitella, nei pressi di Moio. Un calessino tirato da un pony li portò fino ai piedi di una collinetta ombreggiata da antichi castagni. E di lì proseguirono a piedi. Nell'assolata terra del Cilento, settembre ha giorni luminosi e miti. Sulle colline, poi, che contornano il monte Gelbison, l'aria si fa più fresca e leggera e i molti paesi, tra cui Moio della Civitella, che su di esse si adagiano, godono in quel periodo di una vera e propria grazia divina. Nel paesaggio, tra giganteschi olivi secolari, d'oro sono le stoppie, d'oro la luce del sole, d'oro i muri non intonacati delle case. Berardino, ormai, poteva camminare con scioltezza, tanto che era costretto a misurare il passo per uniformarlo a quello del suo accompagnatore. L'anziano medico procedeva senza fretta, facendo attenzione alle asperità del terreno e soffermandosi, di tanto in tanto, ad indicare al giovane questo o quel sasso. Man mano che salivano, il ragazzo sentiva nascere in sé una strana sensazione. Era forse la magica atmosfera del luogo, l'arcana suggestione di quei ruderi, la dolcezza dell'aria, gli odori del bosco, eppure mai egli si era sentito così bene. Contribuiva di certo a quel senso di appagamento il fatto che aveva pienamente riacquistato l'uso delle sue membra; contribuiva il tono sereno della sua guida, che gli andava narrando con chiara dottrina la storia di quelle antiche pietre, parlandogli di uomini e di cose del passato come se parlasse di uomini e cose di casa sua. Perciò la visita di quei luoghi, mai visti prima, gli dava la sensazione di qualcosa di già conosciuto, di familiare. Lo disse al dottore. «Capisco cosa intendete dire», replicò il medico fermandosi. «Vengo qui spesso, figlio mio. Ci vengo tutte le volte che ho bisogno di acquietare l'ingrato ospite che mi si agita qui dentro», disse, picchiandosi leggermente la tempia con un dito. «Ci vengo perché anche io ricevo da questi luoghi una sensazione di quiete, come quella che può provare chi, dopo mille vicissitudini, torna infine a casa. Mi sembra quasi... di approdare ad una vita nuova, in un mondo privo di affanni, dove già tutto è compiuto...». Sospirò; e il sospiro sembrò un gemito. Si sedette su una grossa pietra e Berardino fece altrettanto. «Vedi», riprese il medico, «qui il tempo non esiste. Qui non c'è più il prima e il dopo. Qui c'è solo l'idea assoluta della vita; c'è soltanto quello che resta quando ciò che noi crediamo esistere nel tempo è già del tutto trasformato, già consumato, già filtrato; e quel che resta è solo l'essenza più intima delle cose... Queste pietre corrose dai secoli, che pur si consumano e si consumeranno fino a ridiventare polvere, e la polvere fango, e il fango roccia; questo continuo trasformarsi delle cose in qualcosa di nuovo, ma già antico; questo stormire di foglie al vento, foglie che tra un po' cadranno e si consumeranno, e che, anzi, sono già consunte e ridiventate terra. E questi versi degli animali, queste loro voci, che si fanno voce del bosco; voce di qualcosa che ora è qui, ma già non è più qui... e, infine, questo mio parlare, e i miei pensieri, e i vostri; questa mia vecchiezza, la vostra gioventù, il vostro amoreggiare con Maria... tutto, tutto è già compiuto. Che cosa resterà, che cosa resta già ora, di questo momento che sentiamo e crediamo fermamente come vero, come vivo, come parte autentica della nostra vita, se non il fatto che non ne resterà nulla? Ed è in questo nulla in cui ci agitiamo, in questo nostro immaginare di essere, mentre non si è già più, in questo non essere mai stati, poiché anche il passato non esiste, in questa negazione dell'esistere, amico mio, è la realtà della vita...». Berardino rimase in silenzio, incerto per qualche istante. Aveva percepito in quelle parole un dolore profondo. Esercitato, per le frequenti discussioni con il suo amico prete, alla trattazione di quelle tematiche, gli sfuggivano nella loro articolazione le dottrine filosofiche alla base di quei pensieri, ma non il senso di quelle affermazioni. «Mi sembra un concetto pessimistico della vita», commentò. «Lei dunque non crede...». «In Dio?», lo prevenne il dottore. «Già!... Dio...». Il vecchio si alzò. Dal sito dove si erano fermati lo sguardo poteva spaziare fino al mare. «Vedi?», chiese, indicando il paesaggio. «Anche questa è una parte del Creato. Gran lavoro!... eh, sì, bello! bello davvero, non c'è che dire: la terra, il mare, il cielo, il sole, le stelle, l'universo... già! gran lavoro, gran lavoro... Peccato, però, peccato...». «Peccato?... peccato per cosa?». «Peccato che il Padreterno abbia creato anche l'uomo. Ma tu pensa: tutto ciò che Lui ha fatto sarebbe stato perfetto, se solo non avesse creato anche l'uomo. Ogni cosa, ogni creatura, ogni particella ancorché trascurabile dell'universo avrebbe testimoniato la Sua assoluta perfezione, se...». «L'uomo? L'uomo un errore?». «Un errore, certo!, un errore. Forse l'unico dell'intera opera di Dio, ma fuor d'ogni dubbio un errore. Tant'è vero, e ce lo dicono anche le Sacre Scritture, che l'uomo fu l'unica creatura che non riuscì ad inserirsi, ad armonizzare con il Creato; al punto che, quando l'Eterno se ne accorse, lo emarginò, relegandolo su questo sperduto granello di polvere del Cosmo... L'uomo è l'unica creatura che ha l'obbligo di purificarsi per rendersi gradita all'Onnipotente Iddio... Ma forse con questi discorsi vi sto annoiando. «Al contrario, al contrario, anzi... vi pregherei di chiarire: perché un errore?». Il medico si passò una mano sul viso, massaggiando due o tre volte il mento mal rasato. «Ebbene... come vi dicevo questa mattina, io ritengo che la vita dell'uomo sia composta da tre fasi. Della prima, l'età animale, vi ho già parlato. Ecco: se l'uomo fosse rimasto per sempre nell'età animale, allora sarebbe stato perfetto. Perfetto, come un airone, come un cervo, come un leone; perfetto, come un cespuglio, come un albero, come un sasso; oppure come l'acqua, come l'aria o il fuoco... perfetto, cioè, come tutte le cose che esistono, che esistono e basta, e che non si chiedono mai il perché; cose!... solo cose... senza memoria, senza rimpianti, senza rimorsi, senza il pensiero del domani, senza gioia e senza dolore. E invece... poiché l'uomo è stato dotato di intelletto, all'età animale succede quella della ragione. C'è la maturità, arriva il momento della riflessione. Pur non attenuandosi le passioni, e divenendo talvolta queste più forti, si comincia a percepire il fluire del tempo, mentre ci coglie, travolgendoci, il senso pragmatico della vita; si pensa al futuro e si crede di poter preparare il domani. Si scoprono sentimenti più profondi, più veri; nascono in noi quegli affetti che pian piano, inavvertitamente, ci trasformano da assassini in vittime. Vittime! Ed è qui l'assurdo, il patetico: vittime, non già degli altri, come la preda del predatore, come il fringuello del nibbio; ma vittime di noi stessi, dei nostri sentimenti, dei nostri stessi pensieri... e questo, ragazzo mio, quello di vittima, è un ruolo che dura finché, guardandoci alle spalle, non vedremo altro che un mucchio di giorni già spesi e farsi esiguo il mucchio di quelli dell'avvenire. Inizia così la terza fase della vita, quella che io definisco "l'età dello spirito"...». «L'età... dello spirito?». «Sì, il tempo cioè in cui l'uomo inventa l'anima. Siete mai stato in chiesa al vespro?... Beh, se vi capiterà di andarci, non vi troverete che vecchi, intenti a recitare rosari e litanie, a battersi il petto abbarbicati ai confessionali, timorosi di perdere l'anima nelle fiamme dell'inferno. La vecchiaia... è una brutta bestia, ve lo dico io: all'approssimarsi della soglia fatale, ti prende una gran paura; non ci si rassegna a sparire per sempre, riconsegnando al nulla la nostra effimera essenza. Perciò, ci si convince di avere un'anima e... la nostra mente, smarrita, inventa Dio...». «La mente inventa Dio?... dunque, lei non crede...». «Figlio mio, è molto più probabile che l'uomo abbia creato Dio che non Dio l'uomo. Ma, nonostante ciò, e quello che posso avervi lasciato intendere, io credo in Dio. Non però in un Dio al disopra o al di fuori delle cose, bensì in un Dio immanente, un Dio intimamente compreso in esse...». Quella conversazione, anzi, quella confessione del vecchio, era per Berardino come un invito a nozze. Molte volte egli aveva sostenuto quegli stessi argomenti con Pasquale. Le speculazioni filosofiche del dottore gli sembravano collimare con quelle sue riflessioni teologiche che così spesso aveva dibattuto con il prete. Gli interessava perciò approfondirle e, sperando nella dimostrazione logica di quelle affermazioni, incoraggiava il medico a proseguire. «E l'errore, dunque?...», insisté il giovine. Il vecchio indicò un punto lontano del paesaggio, verso il mare. «Lì, ragazzo mio, in prossimità della foce del fiume che dà il nome a questa terra, c'è l'antica città di Elea. Città greca, come la vostra Napoli e come tante città del Regno, dalla Sicilia fino a Cuma. In fondo, nelle vostre vene come nelle mie scorre una buona dose di sangue greco. Ma nelle mie, come in quelle di tutti i cilentani, ce n'è sicuramente un po' di più. Questa è una terra praticamente isolata dal resto del mondo; le strade che conducono qui sono poche e disagevoli; ed è per questo che l'indole degli abitanti di questa regione ha conservato il fatalismo atavico dei suoi colonizzatori; ed anche la lingua, sapete? Sono ancora molte le parole greche in uso nel nostro dialetto...». Il medico parlò a lungo. Raccontò di Parmenide, di Zenone, della scuola di medicina che l'antica Elea ospitò nel periodo del suo massimo splendore. Parlò della filosofia di Eraclito e la mescolò con quella di Cartesio. L'essere, il non essere, il divenire, il "penso, dunque esisto". Tutta la conoscenza filosofica del dottore fu trasferita nella mente del ragazzo. Tutte le convinzioni del vecchio, le sue esperienze, i suoi ragionamenti e le prove logiche degli stessi, tutto fluì con parole piane nell'animo di Berardino che così apprese, e per un pezzo tenne per vera, la dimostrazione della mutevolezza delle nostre sensazioni, la mendacità del mondo sensibile, l'impossibilità di distinguere i sogni dalla realtà. «Ergo», concluse il dottore, «tutto ciò che possiamo affermare con sicurezza è che pensiamo e, dunque, esistiamo. Ed ecco, come appare evidente, che l'errore di Dio è proprio in questo cogitare, in questa capacità di pensare di cui ha munito la sua creatura, in questo dono perverso, che nulla gli permette di sapere e di conoscere con certezza. Sì, se l'uomo fosse stato come il sasso, come il mare, il vento, le stelle; se l'uomo fosse stato come il lupo o il gheppio, tutto sarebbe stato perfetto; tutto sarebbe esistito davvero, anche se solo nella mente dell'Onnipotente. Ma l'uomo pensa, e sa che di nulla può essere certo. Vedi? Tu dovresti dubitare perfino di me. Io potrei non essere altro che un parto della tua mente, una creazione della tua fantasia. Questo nostro conversare, la tua ferita alla gamba, il tuo amoreggiare con Maria, questo bosco... tutto potrebbe essere solo un capriccio della tua immaginazione. Di niente, figlio mio, di niente possiamo essere certi... E se alla fine nulla esiste, nulla, se non questi nostri pensieri; e se di null'altro possiamo essere sicuri se non di esistere, ecco che tutto il resto, compreso Iddio, ha la sua realtà solo nel nostro cogitare. E alla fine, ove mai fosse stato davvero Egli a crearci, vedi da te, ragazzo mio, che l'Eterno, per trovare la sua affermazione, ha bisogno della nostra mente. Dove possiamo annullarlo quando vogliamo». | << | < | > | >> |Pagina 254Berardino rimase qualche istante senza rispondere. Era la prima volta che il prete lo invitava a pregare e, chissà, forse ne aveva davvero bisogno, perciò annuì. Si inginocchiarono accanto alla scrivania ed iniziarono entrambi una muta preghiera. Ma, mentre il prete pregò con riflessioni di fede, il ragazzo si perse in pensieri che gli venivano ad occupare con prepotenza la mente. Le cannonate e il fragore della battaglia avevano forse lasciato in lui un segno; ma, probabilmente, ne avevano lasciato uno pure Elvira e Maria. Già, Maria... chissà dove se n'era andata quella ragazza, così dolce, così innamorata. Pensò a lei, forse, per l'ultima volta. Guardò fuori dei vetri, nel paesaggio che gli si apriva dinnanzi; e, non lontano, di fronte a lui, nella luce del crepuscolo, s'ergeva possente il Vesuvio. «Che colore ha?», gli aveva chiesto la ragazza. "Già, che colore ha?", pensò lui e si attardò a guardarlo. Ma... quanti colori può avere il Vesuvio? Nessuno lo sa. Nessuno lo può sapere. Puoi trascorrere tutta una vita ad osservarlo, ma non saprai mai quanti colori esso abbia. Perché il Vesuvio è bianco, come le sue nevi, quelle che d'inverno cingono fuggevolmente i fianchi del grande cono facendo sembrare più nere le lave dei suoi pendii; è bianco come i suoi fumi, come i vapori che soffia con rabbia verso il cielo fino ad oscurare il sole; è bianco come le zagare, che da giardini solivi abbandonano al vento profumi di conturbante carnalità. Ma il Vesuvio è anche rosso, come le sue pietraie di lava infiammate dalla luce del tramonto; rosso, come il mitico colore degli affreschi di Pompei, come gli anfratti di porfido antico nel quale sembra celarsi il riverbero e la minaccia di inestinguibili braci. Il Vesuvio è verde, come le sue pinete, stillanti perle di resine odorose; verde, come i bronzi ossidati di Ercolano; verde, come la speranza di vita che brulica alle sue falde e che, come l'Araba Fenice, torna a risorgere indistruttibile dalle sue ceneri. Il Vesuvio è giallo come i suoi zolfi, come le molli ginestre che in giugno ne indorano le balze lontane ed i clivi romiti; giallo, come i visi asfittici e corrosi di quelli morti per le sue esalazioni. Il Vesuvio è rosa, come le carni delle giovani donne nate da questa terra, donne che, nella luce dei loro occhi, nelle curve, dei loro fianchi, nella fecondità del ventre, nel loro essere madri e spose, esprimono in egual misura la tenerezza e la violenza, l'amore e l'odio, la vita e la morte. Il Vesuvio è lilla, come i fiori del glicine che adornano i terrazzi assolati ed azzurro, come il velo della Vergine sugli altari. Il Vesuvio, poi, è grigio come le sue ceneri, con le quali gelosamente nasconde, come segreti, le sue sommarie giustizie o, meglio, le ferali vendette periodicamente attuate su quegli uomini e su quelle cose che, con sconsiderata arroganza, abbiano osato invadere i suoi fianchi, disdegnando la sua natura terribile e divina. Il Vesuvio, infine, è nero, come i suoi fiumi di basalto che con onde pietrificate fluiscono verso il mare e alla fine vi affondano; e in esso, con le pomici che vi galleggiano sparse, afferma la sua multiforme natura, fatta di immani pesi e di incommensurabili leggerezze.Quanti colori ha il Vesuvio? Nessuno lo sa. Nessuno lo può sapere. Ma, di certo, chi non ha mai visto il Vesuvio non potrà mai capire cosa sia l'Infinito; cosa sia il tutto e il suo contrario. Perché chi non ha mai visto il Vesuvio non ha mai visto Dio. | << | < | > | >> |Pagina 299«Tre bocal de bira a la Madona, due de vin bianco al Santissimo e quattro de Recioto in sagrestia!», gridò l'oste al garzone che serviva ai tavoli. Ordini come questi, tra il ridicolo e il blasfemo, che facevano riferimento all'antica toponomastica dell'ambiente, riecheggiavano tra le volte della chiesa sconsacrata di Santa Marina, trasformata in osteria.Molte altre chiese (ben settantadue!), in città e in laguna, quasi tutte antichissime e ricche d'opere d'arte, erano state demolite o sconsacrate. Ancora oggi, Santa Margherita è un cinematografo, San Filippo e Giacomo un laboratorio di merletti, Santa Marta un magazzino e San Leonardo serve da sala prove alla banda musicale municipale. Opere del Bellini, del Guardi, del Carpaccio, del Tiepolo e del Tintoretto, rimosse dai siti originari, andarono disperse o finirono preda di speculatori senza scrupoli. In un locale appartato, in quella che un tempo era stata la sagrestia, mentre don Alvise gli parlava, Berardino pensò che se mai Dio aveva creato l'uomo doveva averlo fatto perché, nell'infinita noia della Sua onniscienza, gli serviva qualcosa di assolutamente imprevedibile. Il ragazzo non si sarebbe mai aspettato, infatti, che dietro quell'aspetto dimesso e quell'atteggiamento infingardo del prete si celasse un uomo ricco ed un attivo quanto prudente patriota. Più audaci sembravano essere, invece, le altre due persone che sedevano al tavolo con loro e che, impazienti, erano rimaste in attesa che il nostro giovane si decidesse a rispondere. «Voi siete matti!», esclamò infine questi, dopo essersi chiesto se avesse ben capito ciò che gli stavano proponendo. «Voi vorreste che io?!... oh, andiamo!... assassinare l'imperatore!... Dunque», proseguì scaldandosi, mentre don Alvise gli faceva cenno d'abbassare la voce, «dunque è per questo che m'avete tenuto segregato sulla barena per più d'un mese!? Non volevate che fossi notato in giro. Avevate già il vostro piano: vi serviva uno mai visto, sconosciuto alla polizia; una specie di fantasma che facesse il lavoro di sbarazzarvi del tiranno!...». «No fasémo baruffe, per favòr, che de fora qualchedun te podaria sentir», disse il prete, vedendo che il giovane non accennava a calmarsi. «No ghesè motivo. E poi: nu te gavemo dito che no sarìa una faccenda da sbrigarse a gratis et amore Dei. E nianca per amor de 'sta cuginanza che, ne la carboneria, ce fa tuti parenti: ghesè mille zecchin de oro! mille!... minga una sbazzecoa!... Di' un po', Lorenzo, dighe quanto el sarìa in docà napoetàn...». «Non m'interessa», tagliò corto Berardino, che sapeva benissimo che mille ducati veneziani d'oro zecchino costituivano una cifra enorme. «Ma poi... tanto per curiosità... come fate a sapere che potete fidarvi di me? E tutto questo denaro da dove verrebbe fuori? E la faccenda... sì, insomma, la cosa... come s'avrebbe a fare?». I due personaggi che accompagnavano il prete e lo affiancavano nell'idea regicida, pensando che quella domanda potesse costituire una apertura verso un atteggiamento più collaborativo, illustrarono al ragazzo per sommi capi il piano studiato dai carbonari veneziani. Quei "buoni cugini" sapevano tutto di lui. Anche che era un abile tiratore. Come e dove si fossero informati era un mistero. I soldi erano quasi tutti del prete, che li aveva messi insieme, nel passato, con lasciti fatti alla chiesa e che dovevano servirgli per assicurarsi una vecchiaia senza problemi. Ma, poi, visto ciò che andava accadendo alla sua gente e alla sua città, aveva finito per giurare a se stesso che avrebbe dato anche la vita pur di sbarazzare Venezia dal giogo francese; e viveva così intensamente questo sentimento che era giunto ad anteporre la missione laica, che s'era data da sé, a quella dell'abito che portava, che, forse, gli aveva dato Iddio. Così, conoscendo i sentimenti politici di Berardino e sapendolo membro d'una società segreta, facendosi credere a sua volta carbonaro, si dichiarava ora disposto a, dargli tutti quei soldi, se avesse liberato San Marco dal tiranno còrso che, due giorni più tardi, sarebbe giunto in visita all'ex capitale. Nella città lagunare, così fitta di case, vicoli e canali, infiniti potevano essere i luoghi dell'agguato. Ogni finestra, ogni tetto, ogni abbaino poteva esser buono per portare a segno il progetto e garantire al "giustiziere" di farla franca, quasi con assoluta certezza. «Se la faccenda è così priva di rischi, come dite», obiettò Berardino, «allora... perché non lo fate voi?». «Nessuno di noi ha esperienza di armi», replicò Lorenzo, che forse non aveva più di vent'anni. «Ci stiamo allenando a sparare. Ci stiamo preparando ad ogni evenienza. Ma qui non è facile sparare archibugiate senza tirarsi addosso un battaglione di soldati. Nelle campagne è ancora peggio: i contadini nutrono antichi rancori nei confronti di Venezia; dei veneziani non gliene importa nulla e la città, se potessero, l'affonderebbero in laguna. E quindi, benché sperata, questa visita dell'imperatore ci coglie ancora impreparati... e quest'occasione, che attendevamo con impazienza, potrebbe non ripetersi più: non possiamo permetterci di fallire. Napoleone sa che qui, intorno a lui, tirerà aria di stiletto e sarà ben sorvegliato». «Ma voi», esclamò Berardino rivolto al prete, «come sapevate, come prevedevate che io, proprio io?...». «Non sapevo nulla, né posso preveder nulla. Ma ho pregato... ho pregato molto Iddio che quell'occasione in cui tanto speravo si verificasse al più presto. Ti ho trattenuto... forse, per un'ispirazione... ed ecco che il buon Dio, tra due giorni, ci darà questa possibilità...». «Reverendo, il "buon Dio" vuole forse un assassinio?».
«Assassinio?! No, figliolo, no: quell'uomo è un mostro, è un demonio,
che lascia dietro sé una scia di sangue: pensa alle centinaia di migliaia di
soldati e di civili che sono morti per lui; pensa a quella guerra senza fine che
combatte contro il mondo intero; pensa a tutte le nazioni affamate ed umiliate;
pensa al vile assassinio del duca d'Enghien... e alla tua patria, e alla
nostra... No, no, affidarti il compito di ucciderlo non sarebbe commissionarti
un assassinio, ma una missione di guerra; è un atto di legittima difesa,
un atto di giustizia. E questo gesto così giusto, così pio, così necessario, per
il quale saresti osannato nelle chiese e nelle piazze, per il quale sarebbe
glorificato il tuo nome, che correrebbe benedetto sulla bocca di quelle migliaia
di persone che tu stesso hai visto versare nella più assoluta indigenza, quel
gesto così nobile, così indispensabile, potresti essere tu a compierlo. Tu
potresti liberarci dal tiranno; tu potresti cambiare la storia di Venezia e
quella del mondo...».
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