Autore Giovanni De Luna
Titolo Cinema Italia
SottotitoloI film che hanno fatto gli italiani
EdizioneUtet, Milano, 2021 , pag. 336, ill., cop.rig.sov., dim. 15,5x23,2x2,8 cm , Isbn 978-88-511-8563-3
LettoreRiccardo Terzi, 2021
Classe cinema , storia sociale , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1900 , paesi: Italia: 2000












 

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Indice


    Introduzione. "Cinema Italia"                         9


    PRIMA PARTE. UNA PROPOSTA DI METODO                  21

 1. Una premessa: Terra e libertà, 1995                  23

 2. Le fiamme di un nuovo secolo: Cabiria, 1914          29

 3. La tempesta della decolonizzazione:
    La battaglia di Algeri, 1966                         39

 4. Raccontare "l'indicibile": La vita è bella, 1997     46


    SECONDA PARTE. FARE GLI ITALIANI                     55

 5. Le immagini per "fare gli italiani"                  57

 6. Gli italiani dei "telefoni bianchi"                  68

 7. Gli italiani in camicia nera                         77

 8. Pescatori e partigiani: tutti poveri, ma belli      107

 9. Il sorpasso dell'Italia                             137

10. Il '68 prima del '68                                145

11. Gli "anni '68"                                      161

12. Militanti, terroristi, poliziotti...
    e la febbre del sabato sera                         180

13. La Resistenza: i partigiani escono di scena         192

14. Da Gassman a Jerry Calà: l'Italia da bere           224


    Conclusione. La meglio gioventù, 2003               251


    Ringraziamenti                                      267
    Note                                                269
    Filmografia                                         299
    Indice dei nomi e dei film                          325


 

 

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Pagina 9

Introduzione
"Cinema Italia"





1.


Noi credevamo è un film di Mario Martone, del 2010, che racconta il nostro Risorgimento. La sua tesi storiografica è esplicita: nella lotta per l'indipendenza italiana c'era stato un confronto aspro e divisivo, con un'idea repubblicana nemica giurata dell'opzione monarchica e un progetto di democrazia radicale sconfitto dalla soluzione dinastica imposta da Cavour e da Vittorio Emanuele II. A sancire, anche sul piano simbolico, la vittoria dei Savoia restavano le immagini di Mazzini morente, clandestino in patria, nel 1872, quando l'unità d'Italia era stata raggiunta da più di dieci anni e Roma era già la capitale del regno. E ai repubblicani, «ai repubblicani con le loro diverse anime», Martone dedica il suo film. Questa tesi viene sviluppata in una narrazione il più possibile ancorata ai documenti dell'epoca: i dialoghi di Giuseppe Mazzini o di Cristina di Belgiojoso sono presi di peso dai loro scritti, e altrettanto "reali" sono molti degli episodi che scorrono nel film (l'insurrezione dei fratelli Capozzoli in Cilento, i moti del 1834 in Savoia, l'attentato di Felice Orsini contro Napoleone III eccetera). È quindi un sincero tributo pagato da Martone alla "lezione" di Roberto Rossellini: il cinema deve mettere in scena la storia attraverso le sue fonti, senza appesantirla con rielaborazioni forzate.

Raccontare il passato in modo anche filologicamente ineccepibile rende quindi Noi credevamo un film compiutamente "storico". Pure, in una scelta iconografica rigorosamente ottocentesca, nutrita di continui riferimenti alle illustrazioni e ai dipinti del tempo, a disorientare gli spettatori irrompono di colpo squarci della più stretta attualità (un garage, fili elettrici, i pilastri di un viadotto, il cemento di una fortezza carceraria), la cui presenza è stata subito rivendicata dal regista: «Volevo che si sentisse che eravamo qui, oggi. Volevo che provassimo a portare alla luce l'Ottocento nascosto nel nostro presente piuttosto che ricostruirne uno posticcio».

Era una scelta inequivocabile: un film "storico" ci dice molto di più sul presente in cui viene realizzato che sul passato che racconta. Per chi, per ragioni di studio, frequenta il rapporto tra cinema e storia si tratta di un approccio consolidato e chi leggerà questo libro vedrà che su questa base si regge l'intera struttura delle mie argomentazioni, occupandone tutta la prima parte che spazia da Terra e libertà di Ken Loach a Cabiria di Giovanni Pastrone, da La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo a La vita è bella di Roberto Benigni. Tuttavia la consapevolezza con cui Martone propone agli spettatori questo duplice viaggio nel tempo, attraverso un serrato ed esplicito "andata e ritorno" tra passato e presente, resta un dato di assoluto rilievo, reso ancora più interessante da una stazione intermedia nella quale lo spettatore viene sollecitato a sostare, gli anni settanta del Novecento, che non sono né il passato raccontato dal film né il presente in cui è stato girato.




2.


A stimolare le intenzioni del regista erano allora alcuni interrogativi che animavano il dibattito politico-culturale dei primi anni del XXI secolo, nel periodo successivo all'11 settembre 2001 e all'attentato alle Torri Gemelle di New York: esiste un terrorismo "virtuoso"? Si può uccidere nel segno di un ideale "umanitario" o per conquistare la libertà? La violenza terroristica è stata rilevante nel nostro Risorgimento? Il DNA del nostro stato ne è rimasto segnato per sempre?

Molte di queste domande non hanno ancora avuto risposte adeguate. Nemmeno l'ONU è stato in grado di distinguere tra "i combattenti per la libertà" e "i terroristi". Nessuno si autodefinisce terrorista. In un'assemblea indetta a New York il 10 settembre 2008, proprio l'ONU ha chiamato a raccolta una cinquantina di vittime di atti di violenza avvenuti in varie parti del mondo, dalla maestra della scuola di Beslan alla bambina figlia di una delle vittime delle Torri Gemelle. Lo scopo dell'incontro era di cominciare ad ascoltare la voce dei testimoni e dei sopravissuti per riuscire, in futuro, a trovare una definizione giuridicamente accettabile del terrorismo. La discussione si è arenata essenzialmente su due temi: come bisogna comportarsi quando gesti chiaramente terroristici vengono compiuti dagli stati sovrani e non da singoli individui; come definire le lotte dei combattenti per la libertà che, per imporre le proprie rivendicazioni, ricorrono apertamente alla violenza. Il problema è rimasto irrisolto sul piano di una definizione giuridica; si è infatti adottato un criterio pragmatico, indicando una lista di organizzazioni che potevano essere considerate terroristiche e varando una serie di misure di prevenzione che avevano come bersaglio un ipotetico nemico "giovane, maschio, studente, musulmano".

Queste discussioni hanno accompagnato l'intera elaborazione del film, obbligando il suo andirivieni nel tempo alla già citata sosta, necessariamente legata agli italiani anni settanta, quelli delle stragi e degli attentati. Fu allora che il terrorismo divenne infatti la questione cruciale del nostro sistema politico e che ci si interrogò sull'uso della violenza come risorsa strategica dei movimenti collettivi, confrontandosi con i "misteri" di uno stato, come quello italiano, che non aveva esitato a varcare con sfrontatezza la soglia dell'illegalità. Così, nell'adombrare il sospetto che il misterioso attentatore coinvolto nelle bombe lanciate da Felice Orsini contro Napoleone III fosse Francesco Crispi («nell'attentato, la sbarra orizzontale del cancello gli copre il volto. L'ho fatto pensando alle fascette omissis apposte dai servizi segreti»), Martone suggeriva nell'esperienza di un possibile dinamitardo assurto ai vertici delle istituzioni un paradosso con cui la nostra storia deve continuamente misurarsi. Non solo. Anche il senso di amarezza che nel film accompagna la sconfitta dell'idea repubblicana ci riporta agli anni settanta del Novecento. Amarezza e disincanto furono allora gli strascichi esistenziali che segnarono la fine della militanza e dell'impegno, una débâcle che fu chiamata "riflusso", quasi a suggerirne la naturale inevitabilità dopo l'onda lunga provocata dagli animi infiammati dall'utopia rivoluzionaria. Una militanza che si infranse sulle secche della violenza e di percorsi biografici in qualche caso segnati dall'abiura e dal pentimento, come a rispecchiarsi nella traiettoria del patriota mazziniano Antonio Gallenga, passato senza pagare pegno - come racconta il film di Martone - da attentatore mancato a giornalista affermato.




3.


Questi scampoli di presente che si annidano in un film che mette in scena il passato trasformano il cinema da "strumento per raccontare la storia" in "documento per conoscere la storia". Fino a qualche decennio fa, la storia non aveva domande da rivolgere al cinema e agli altri media; erano parti di un universo che disprezzava o che semplicemente ignorava. Oggi, il suo uso come fonte viene ritenuto invece una straordinaria opportunità. Dai film, come ha scritto Marc Ferro , si può ricavare un vero e proprio «museo dei gesti, dei comportamenti, degli oggetti [...] poi le strutture e le organizzazioni sociali; infine il funzionamento nascosto di una società», avvicinandosi a tutti gli aspetti «invisibili» che non vengono illuminati dalla storia tradizionale. È una sfida conoscitiva che gli storici sono in grado di affrontare vittoriosamente grazie ai capisaldi metodologici (azzeramento della distinzione tra monumento e documento; tutte le fonti sono comunque intenzionali; ogni fonte è di per sé muta, materiale inerte e statico che parla solo se lo storico è in grado di interrogarla con domande forti; congruenza tra la fonte e l'oggetto di studio; interdisciplinarità) della concezione dinamica delle fonti.

Se il cinema può essere sia strumento per raccontare sia documento per conoscere la storia, c'è però ancora un terzo percorso che parte dal binomio cinema e storia ed è al centro di questo libro. Mi riferisco alla possibilità del cinema di essere "agente di storia", di "costruire" la storia, incidendo sui comportamenti, sulle scelte, sulle abitudini di un pubblico vastissimo che ai suoi racconti si ispira nella vita reale, trasformando le immagini che scorrono sullo schermo in modelli sui quali plasmare la propria quotidianità. È difficile immaginare la generazione del '68 senza Fragole e sangue, così come è impossibile pensare a La battaglia di Algeri solo come a un film, prescindendo dai tumulti che ne accompagnarono la proiezione, il divieto della sua programmazione in Francia, l'influenza che fu in grado di esercitare su gruppi della lotta armata come le Pantere nere statunitensi. Con l'affievolirsi della capacità della politica, delle istituzioni e dello stato di perimetrare territori e definire appartenenze, è stato proprio il cinema come agente di storia a proporsi con forza inusitata come uno dei grandi costruttori di identità e di memoria, giovandosi della sua capacità di rispecchiamento, della sua "rappresentatività" (grazie all'ampiezza e alla varietà del pubblico, al suo carattere massificato), rispetto all'insieme di una società. Così, per esempio, l'assenza di verità e di giustizia, che circonda ancora oggi il ruolo ricoperto dallo stato italiano nelle vicende più cruente e oscure della strategia della tensione degli anni settanta, a lungo ha lasciato solo al cinema la possibilità di ricostruire uno scenario comune, in cui mettere a confronto le memorie delle vittime e quelle dei carnefici, sollecitandolo a sostituirsi alle istituzioni nell'aiutare quel passato a passare.

Terra e libertà di Ken Loach, all'inizio, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, alla fine, sono i due esempi che aprono e chiudono questo libro. Entrambi ci sono sembrati i più adatti a rendere esplicito il riferimento metodologico al "trinomio" su cui si articola il rapporto tra cinema e storia: fonte per la conoscenza storica, strumento per raccontare il passato, agente di storia. Questo indipendentemente dalla loro qualità artistica, a prescindere, cioè, dal considerarli "belli" o "brutti": il film di Loach è un piccolo compendio di come si studia il passato (all'origine del racconto c'è una valigia in soffitta, un vero e proprio kit della ricerca storica); quello di Marco Tullio Giordana mette in scena i "luoghi" più significativi della geografia storica italiana (Marghera e Torino, le fabbriche e i manicomi) ordinandoli in una cronologia che abbraccia tutto il periodo degli "anni '68", spingendosi ben oltre la fine della Prima repubblica.




4.


Noi credevamo è uscito a ridosso del centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. Le celebrazioni del 2011 sono state molto diverse da quelle del centenario (1961) e del cinquantenario (1911). Era forte, infatti, la pressione "secessionista" esercitata dalla Lega di Umberto Bossi e nella crisi del sistema politico italiano, alle prese anche con gli effetti rovinosi del crollo borsistico del 2008, molti studiosi intravedevano la possibilità concreta per l'Italia di «cessare di essere una nazione». È stato allora che ci si è interrogati a fondo sull'"identità italiana" e la discussione ha coinvolto non solo gli storici ma anche un'opinione pubblica disorientata e confusa di fronte all'emergere di fermenti particolaristici e posizioni etnocentriche vissute come i prodromi di una inevitabile dissoluzione.

E proprio la riflessione sull'identità italiana e sul modo in cui il cinema come agente di storia è stato coinvolto nel progetto di "fare gli italiani" costituisce la seconda parte di questo libro, organizzata a partire da una considerazione di fondo: l'identità nazionale è una realtà essenzialmente politica, culturale e istituzionale, che si padroneggia storicamente studiandone non tanto un suo ipotetico fondo "etnicista" e "naturalista", quanto direttamente lo stato e gli altri soggetti che hanno contribuito a costruire una cittadinanza e un'appartenenza comune. Si tratta quindi di un progetto, del risultato dell'azione di una pluralità di "agenti", di una realtà dinamica, in continua evoluzione, scandita dalle diverse "fasi" che segnano la nostra storia: dapprima lo stato liberale con le sue istituzioni (la scuola, l'esercito, l'apparato burocratico-amministrativo); poi il fascismo, che ereditò molti degli strumenti messi a punto dallo stato liberale, e vi aggiunse il peso straripante dell'ideologia (non si trattava più di "fare", ma di "fascistizzare" gli italiani); infine la nostra repubblica, con la sua Costituzione, i partiti politici di massa, le forme di una democrazia finalmente libera e pluralista. Allora, lo stato riacquistò solo in parte l'impronta pedagogica che lo contraddistingueva nell'età liberale; vi si sostituirono i partiti, utilizzando i loro programmi per sradicare gli italiani dalle nicchie particolaristiche del familismo e dell'individualismo. Da questo punto di vista, sia la Democrazia cristiana sia il Partito comunista hanno dato vita a due tipi di "religione politica" non ostativi all'acquisizione del senso dello stato, ma propedeutici, trattandosi della prima alfabetizzazione, "dal basso", alla cittadinanza democratica sperimentata nel sistema politico del nostro paese.

Accanto a questi strumenti politico-istituzionali, altri, di natura completamente diversa, hanno di volta in volta contribuito a "fare gli italiani": il mercato, per esempio, che con l'espansione dei consumi ha inciso profondamente - almeno a partire dagli anni del boom economico - sugli aspetti più profondi della nostra società; le strutture dei trasporti; la grande fabbrica fordista; e, soprattutto, i mezzi di comunicazione di massa, prima la radio, poi il cinema e la televisione, e infine, con la sua sconfinata pervasività, il web.




5.


Il cinema ha attraversato puntualmente tutte le "fasi" novecentesche del progetto di "fare gli italiani", da La presa di Roma (1905) di Filoteo Alberini, che avvia il nostro percorso, a Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, che lo chiude. Questo libro non è quindi una storia del cinema italiano ma la storia di come il cinema ha interagito e influito sulla storia d'Italia. In Noi credevamo, la cospirazione mazziniana è raccontata come "viaggio", un viaggio che mette in scena l'Italia «dal mare e dalla natura del Sud alle nevi delle Alpi», con la geografia che si trasforma in storia, restituendoci tutta la varietà e la complessità degli elementi che confluirono nel processo di unificazione nazionale. Benedict Anderson ha definito la nazione come una «comunità politica immaginata», perché «nemmeno i membri della più piccola nazione conosceranno mai la maggior parte degli altri membri, non li incontreranno, né probabilmente sentiranno nemmeno parlare di loro, e ciò nonostante, nella mente di ciascuno è viva l'immagine della loro comunione». In questo senso, quindi, la nazione è una sorta di mappa concettuale che aiuta a dare significato al mondo. A "immaginare" una nazione concorrono racconti, simboli, spazi geografici. Tra i racconti, quello del cinema assume un ruolo strategico proprio perché propone le immagini con cui la nazione viene immaginata.

Ci sono film che raccontano deliberatamente la nascita di una nazione come 1860. I Mille di garibaldi (1934) di Alessandro Blasetti, che, ricordiamolo, fu girato sui luoghi storici della spedizione dei Mille, con attori non professionisti e l'uso dei dialetti regionali. Ma proprio questo esempio sottolinea come sia soprattutto lo spazio italiano, nella sua molteplicità di luoghi, a trovare nel cinema la sua rappresentazione più efficace - Paisà (1946) di Roberto Rossellini o Il ladro di bambini (1992) di Gianni Amelio -, moltiplicando i paesaggi, quelli della natura e quelli delle città: attraverso i film gli italiani hanno imparato a conoscere lo spazio della loro appartenenza, hanno legato lo spazio di relazione della parentela e del vicinato con quello più vasto della cittadinanza e di una identità nazionale compiutamente definita anche in senso geografico. Il neorealismo, in particolare, è stata davvero un'«esplorazione su larga scala del paese», non solo attraverso il viaggio di Paisà, ma soprattutto grazie a quel complessivo spostamento di sguardi e di iniziative che «portò i cineasti italiani a percorrere per il lungo la penisola, attraversando nei due sensi la frontiera caduta della linea gotica, per giungere con occhi nuovi nei luoghi che da Roma restavano invisibili». Come scrisse allora Lorenzo Marinese, il neorealismo decise di andare ad abitare all'aperto, fuori dagli studi e dalle convenzioni, azzerando la distanza tra chi filmava e chi era filmato, avvicinando gli italiani al paesaggio umano di una Italia estesa «dai villaggi alpini ai paeselli ammucchiati sulle alture del Lazio, dai castelli medievali del Piemonte alle rovine dei templi classici della Magna Grecia, dalla fatica montana dei cavatori di marmo dell'Apuania a quella sotterranea dei solfatari in Sicilia».

Per tutto il XX secolo è stato certamente così e certamente non solo per i "luoghi".




6.


Per limitarsi all'Italia repubblicana, senza il neorealismo sarebbe arduo anche spiegare dal punto di vista storiografico il "miracolo" della ricostruzione che in soli tre anni, tra il 1945 e il 1948, vide l'Italia rinascere dalle macerie della guerra. E senza le preziose indicazioni della commedia all'italiana, la grande trasformazione che interessò l'altro "miracolo", quello del boom economico, resterebbe amputata di alcuni dei suoi aspetti più legati al costume e all'antropologia della nostra società. E ancora: il cinema ci permette di entrare nelle profondità del decennio seguito al 1968, restituendone una realtà che, grazie alla "febbre del sabato sera", non si lascia appiattire sull'immagine cupa degli "anni di piombo". E, da ultimo, attraverso il suo filone affollato di yuppies e cinepanettoni, ci aiuta a decifrare i contorni dell'Italia craxiana, quella che va incontro alla grande slavina di Tangentopoli e della fine della Prima repubblica con una spensieratezza che oggi appare come il frutto di una gigantesca sbornia collettiva.

Il nostro "viaggio" si chiude infatti con gli eventi del 1992-1994, prodigiosamente anticipati da Il portaborse di Daniele Luchetti. Si tratta di una data fortemente periodizzante nella storia del nostro sistema politico. In quei due anni scomparvero tutti, ma proprio tutti i partiti che avevano ininterrottamente occupato il nostro spazio pubblico a partire dalle elezioni del 18 aprile 1948. E dalla politica il cambiamento rimbalzò in tutti gli ambiti della nostra società. In questo senso, le cifre riportate da Paul Ginsborg ci restituiscono il profilo di nuovi stili di vita, improntati a quelli prevalenti negli scenari mondiali. La crisi della famiglia tradizionale (si passò da 125 separazioni o divorzi ogni 1000 matrimoni nel 1981 a 277 nel 1994), si intrecciò, per esempio, con un sensibile declino delle identità religiose e confessionali, soprattutto di quella cattolica (nel 1956 a frequentare la chiesa era il 69 per cento della popolazione; nel 1995 era appena il 32 per cento). Anche i consumi ripetevano quelli dominanti nell'Occidente sviluppato: si censirono 519 automobili su 1000 abitanti nel 1993; i telefoni cellulari fecero registrare un incremento vertiginoso, passando da 426000 nel 1990, a 2210000 nel 1994; il tempo medio giornaliero trascorso davanti alla televisione aumentò da 173 minuti nel 1988 a 215 minuti nel 1995. Proprio perché modellato su questi comportamenti e questi consumi, uno dei settori economici più dinamici fu quello della pubblicità: gli spot trasmessi dalla Rai erano 37433 nel 1982, diventarono 165959 nel 1994; per le tv commerciali si passò da 113914 nel 1982 a 775936 nel 1994. Queste ultime cifre, in particolare, riguardano un cambiamento significativo proprio nell'ottica di questo libro, con la televisione che subentrò al cinema come protagonista del progetto di "fare gli italiani". Il "partito istantaneo», Forza Italia di Silvio Berlusconi , che vinse a sorpresa le elezioni politiche del 1994 fu la certificazione del ruolo egemone conquistato dalla televisione come agente di storia. In anni più recenti sarebbe stato il web a scalzare la televisione, così come testimoniano i successi elettorali (nel 2013 e nel 2018) dei 5 Stelle di Beppe Grillo. Il tramonto del cinema e del suo protagonismo è quindi apparentemente irreversibile, almeno per quanto riguarda il sistema politico, assegnandogli un ruolo esclusivamente novecentesco, destinato a essere svuotato dall'interno dalle serie televisive e dalle fiction proposte dal web.

È possibile che sia così. Pure, anche oggi, in un'epoca in cui il concetto stesso di nazione viene continuamente ridiscusso alla luce dei flussi di uomini, merci, capitali che sorvolano i confini territoriali degli stati per alimentare l'universo planetario della globalizzazione, anche oggi, quando il cinema sembra smarrire le sue peculiarità nazionali all'interno di un mercato compiutamente transnazionale, i film continuano a imprigionare tracce più o meno vistose dei caratteri originari di un paese e ci aiutano a conoscerli storicamente. Rispetto al trinomio proposto in questo libro (il cinema come agente di storia, come strumento per raccontare la storia e come fonte per la conoscenza storica) è possibile che il nuovo mondo scaturito dalla pandemia vedrà accelerare alcune tendenze già in atto in contemporanea al declino di altre. È possibile, in questo senso, che si indebolisca ulteriormente il ruolo del cinema come agente di storia. È sicuro che molti dei suoi modelli narrativi cambieranno per adeguarsi agli ambienti del web e della serialità televisiva. Resterà intatto il suo valore di documento, proponendosi come una straordinaria risorsa anche per gli storici del futuro.

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4
Raccontare "l'indicibile»: La vita è bella, 1997





1.


Si può dire negando? Si può mostrare nascondendo? Si può rappresentare l'irrappresentabile? Per rispondere a questi interrogativi che rilanciano il tema del cinema come agente di storia, abbiamo scelto come esempio La vita è bella, il film di Roberto Benigni vincitore di tre premi Oscar nel 1999. Un'opera che si inerpica su questi ossimori, si nutre di questi paradossi («Il silenzio è il grido più forte» dice un suo personaggio, citando Kenzaburo Oe), accettando la sfida di ascoltare il silenzio, di mostrare l'oscurità. Per Alfonso Berardinelli , quella sfida Benigni l'aveva persa: «Ci si sente trattati come degli imbecilli che a Natale vanno al cinema con il problema di liberarsi della più piccola oncia di senso del dolore e della tragedia [...] Ridiamoci sopra! Perché tanto poi i tedeschi erano solo delle macchiette e dopo la loro fuga arrivano gli americani, ricchi e buoni, a salvare i bambini». E sulla sua scia era intervenuta una folla di grandi e piccoli detrattori del film: il regista di Train de vie Radu Mihaileanu («Benigni si aggira in un campo di concentramento come un turista al Club Méditerranée con un figlio rotondetto»), lo scrittore Thane Rosenbaum («è il trionfo dei negatori dell'Olocausto»), Art Spiegelman, uno dei più noti disegnatori americani («Se non ci fosse stato Schindler's List, non ci sarebbe stato nemmeno Benigni [...] Spielberg ha creato un genere cinematografico come il western; ha fatto diventare lo sterminio di massa uno spettacolo di massa»). Una parte di questi giudizi scaturisce dall'interno del mondo del cinema («una mascalzonata» fu la definizione durissima che ne diede Mario Monicelli), attaccando la cifra stilistica e la dimensione artistica del film; altri, come Saul Friedländer , fanno riferimento ai nodi storiografici e culturali aggrovigliatisi intorno all'indicibilità della Shoah («non si può creare finzione artistica quando la verità è infinitamente più forte dell'immaginazione»). A tutti, comunque, si oppongono giudizi opposti e simmetrici, che capovolgono quelle critiche in commenti entusiastici, a cominciare, per restare solo in Israele, da David Grossman fino a Ehud Olmert, il sindaco di Gerusalemme: «Un film drammatico, che sa trasmettere tutta la pena e il dolore dell'Olocausto, ma anche dare l'ottimismo e la speranza della vita». Questa sorta di ping pong critico lascia come un senso di straniamento. Lo spettatore, di fronte a La vita è bella, può lasciarsi andare alle sue emozioni, farsi guidare solo dall'effetto cinema, dalle proprie inclinazioni e dai propri gusti personali. Ma lo storico? Come può districarsi in una selva di pareri che gli restituiscono uno spirito del tempo lacerato, diviso, attraversato dalle inquietudini di un passato che non vuol passare?




2.


Sradicato dal suo contesto di appartenenza (prodotto artistico o bene culturale), traghettato all'interno dello statuto scientifico della storia, quel film acquista la specificità del "documento", lasciando scaturire una folla di informazioni che in larga parte prescindono dalle priorità e dai temi che hanno invece segnato il dibattito giornalistico. Lungo questo versante La vita è bella si può leggere, ormai lo abbiamo imparato, come "strumento per raccontare la storia" o come "fonte per conoscere la storia". Nel primo caso, lo ricordiamo ancora una volta, ci si confronta con il passato messo in scena; nel secondo con il presente in cui il film appare. In quest'ottica, la lettura storica sembra aggirare tutte le trappole argomentative dei due opposti schieramenti, scavandosi un autonomo percorso interpretativo che investe anzitutto la stessa struttura narrativa del film.

Come è noto, il film propone due parti nettamente distinte, la prima ambientata in una tranquilla cittadina della provincia toscana negli anni trenta, la seconda che si svolge interamente all'interno di un lager nazista. Le recensioni hanno insistito molto su questa scelta, per criticarla, come Lietta Tornabuoni («le due parti rimangono divise, il film non è pienamente riuscito»), o per giustificarla, come Stefano Della Casa («la prima parte del film sembra quasi una falsa pista, un prologo che punta solo a meglio attirare l'attenzione sulla seconda parte, quella che al regista-attore interessa evidentemente di più»). In realtà, all'occhio dello storico quella scelta sembra l'esempio più efficace di come sia possibile forzare le stesse intenzioni che hanno animato gli autori, quasi che il film sia in grado di parlare "malgrado se stesso". Così, ciò che appare come un puro espediente narrativo, più o meno riuscito a seconda dei punti di vista, si rivela in realtà una straordinaria ed efficacissima ricostruzione storica, avvicinandosi quasi miracolosamente alla verità. Fermiamoci per un momento su questa prima parte del racconto.

Siamo negli anni del "consenso" con il fascismo trionfante e nella cittadina toscana la vita è bella, piena di allegria e speranze, come in un grande gioco. Guido, il personaggio di Benigni, la attraversa con lo slancio ottimista degli entusiasti. Si innamora della graziosa maestrina, riesce a strapparla al fidanzato, un tronfio gerarca, e a sposarla. Niente lo preoccupa, vive nel fascismo senza odiarlo né amarlo, lo prende solo un po' in giro nei suoi lati più scemi: si traveste da ispettore scolastico per inscenare, a beneficio della direttrice patriottica, il prontuario del perfetto ariano, e resta in mutande. La vita è bella, anche se è arrivata la guerra: Guido ha la sua libreria, è nato il piccolo, adorato Giosuè e l'amore trionfa. Il film non ci ha ancora detto che Guido è un ebreo, un ebreo integrato, un italiano, anche se all'inizio c'è stato un segnale inquietante, quando lo zio, pure ebreo, viene picchiato in casa da alcuni giovinastri. Tuttavia, la vita è troppo bella perché Guido possa credere all'assurda tragedia che incombe su di lui e su milioni di altri. L'irruzione della parola "ebreo" è tanto improvvisa quanto catastrofica.




3.


Le due parti del film sono incongrue, giustapposte, senza continuità tra l'una e l'altra? Ma fu così nella storia vera di quegli anni da incubo! L'orrore delle deportazioni degli ebrei italiani nel 1943-44 giunse al culmine di un crescendo preceduto da un lungo prologo - tra il 1938 e il 1943 - di irreale normalità. Fu una situazione assurda e paradossale, restituitaci, per esempio, da un documento di straordinaria intensità come i Diari di Emanuele Artom. A lungo, allora, nessuno sembrò credere che sul serio la catastrofe potesse giungere da un momento all'altro: «2 febbraio 1942. Due giorni di silenzio passati a Sauze a sciare con W. e S. Il tempo era appena discreto, il primo giorno neve, il secondo sole e vento, ma mi sono divertito e ora scrivo ancora dolorante per le cadute», era una nota, scritta in una fase ormai già molto avanzata della guerra. La giovinezza di Artom, la sua vita bella (destinata a finire ai primi di aprile del 1944 per mano delle SS) si sviluppava attraverso le coordinate di sempre: gite sciistiche, buone letture, la soddisfazione del vestirsi elegante, il tormento e le impazienze degli amori giovanili. «Il mese di maggio 1941. Poco da dire sul mese di maggio. Ho fatto progressi assai notevoli nell'ebraico e nell'inglese, con letture in queste due lingue. Inoltre ho letto La Nave di D'Annunzio, quasi completamente le Memorie del Goldoni in francese e cominciate quelle del Casanova [...] L'attività sportiva è stata molto limitata dal cattivo tempo, e forse per questo durante l'ultima settimana ho dormito peggio e sofferto di mal di testa».

Erano pochi, nel suo ambiente, quelli che prendevano precauzioni, che lasciavano l'Italia. Perché quest'attesa così passiva, senza un gesto di ribellione? Forse, lo suggerisce lo stesso Artom, per il legalitarismo di fondo della comunità ebraica italiana, a partire dal Risorgimento sempre identificatasi con lo stato nazionale, in uno slancio patriottico che non si arrestava nemmeno dinanzi alle soglie del fascismo: «8 settembre 1943 [...] Papà è mortificato per la sconfitta. Ma non è bello vedere la giustizia ristabilita? E per l'Italia non è un vantaggio?».

Fino all'ultimo, in tanti ebrei come il padre di Emanuele l'italianità prevalse su ogni altro tipo di appartenenza, anche religiosa. Resta, tuttavia, ancora difficile penetrare il senso di un comportamento che appare così tragicamente ingenuo dinanzi al baratro che stava per spalancarsi. Ma Artom, allora, e Guido/Benigni, oggi, sono almeno in grado di restituircene nitidamente i contorni essenziali, indicando in una sorta di diffuso appagamento (esistenziale e domestico quello di Guido/Benigni, patriottico-culturale quello del padre di Artom) il retroterra soggettivo di quella inconsapevolezza.




4.


In questo senso, La vita è bella entra a far parte a pieno titolo della varietà di strumenti utilizzati per raccontare la storia e il suo racconto va confrontato con tutti gli altri, a partire anche e soprattutto da quelli con un impianto più strettamente storiografico. E allora non può non colpire che quanto viene rimproverato al film da Enzo Traverso (l'attenuarsi della dimensione epica del racconto, con larghissime aperture al vittimismo e ai toni deboli e dimessi) riproduca esattamente quanto si è verificato anche nel dibattito storiografico, a partire almeno dagli anni ottanta del Novecento: progressivamente, alla dimensione etico-politica del racconto storico dell'antifascismo e della Resistenza si è sostituita l'accentuazione dei risvolti privati e soggettivi, intimistici in qualche caso; l'attenzione al quotidiano, alla cultura materiale e non solo al contesto epico della lotta armata accentuarono allora il declino dei riferimenti politico-militari già iniziatosi negli anni precedenti. Nuovi temi e nuovi protagonisti, dapprima trascurati, trovarono così finalmente un'adeguata collocazione nella considerazione storiografica, e dal protagonismo esplicito dei grandi soggetti collettivi (gli operai, i contadini, i partigiani) il fuoco dell'attenzione si spostò dapprima sulle realtà militarmente marginali (i prigionieri, i deportati, gli ebrei, le donne) fino a scoprire, da ultimo, categorie analitiche e interpretative come la "zona grigia" o la "resistenza civile" in cui sembra scomparsa ogni traccia della dimensione antagonistica e conflittuale della prima storiografia resistenziale.

Ma anche utilizzandolo come fonte, e quindi facendolo interagire con il presente in cui è apparso, il film ci restituisce un tema di grande rilevanza. Mi riferisco, anzitutto, ma in una direzione opposta a quella indicata da Traverso, al paragone insistito con il film Schindler's List di Steven Spielberg (1993). No, non è il "capitalismo buono" a essere messo in scena; né si tratta di occultare le responsabilità degli industriali tedeschi, le loro connivenze con il nazismo. In realtà, l'intero film ruota concettualmente intorno alla coppia individuo-Stato, alla contrapposizione tra la buona volontà come risorsa strategica degli individui e l'ignavia, l'ottusa indifferenza burocratica degli stati. Schindler si affianca a Giorgio Perlasca (altro individuo la cui storia ebbe un forte impatto sul mercato editoriale) per ricordarci come, già allora, lo spirito del tempo presente fosse segnato da un agire politico che sempre di più si ritraeva dalla sua tradizionale dimensione statuale per spostarsi verso il basso, direttamente verso le singole coscienze individuali. In questo senso, per opporsi allo sterminio e alle complicità istituzionali che lo resero possibile, Schindler ha come unica risorsa il suo straordinario talento imprenditoriale; Perlasca, la genialità dell'impostore di razza; Guido/Benigni le energie vitali che si annidano nel profondo del comico.

«Quando la risata sgorga dalle lacrime si spalanca il cielo» ha scritto Benigni, citando le Sacre Scritture. Così, anche di fronte al luogo assoluto del dolore e della morte, lo spirito vitale e l'amore paterno del protagonista operano senza tregua nel tentativo almeno di rendere comprensibile, agli occhi del bambino, la realtà. La scena della traduzione delle regole del campo in quelle di un gioco a punti è sintesi e vertice del perfetto intreccio di risate e lacrime che caratterizza la seconda parte del film. Nel lager il gioco è terribilmente vero, gli oggetti perdono la loro leggerezza per diventare pesanti incudini e la trasformazione degli uomini in cose (bottoni, saponette) non è più un meccanismo di difesa che scatena la risata («lavarsi con Bartolomeo e abbottonarsi con Ferruccio») ma un programma spietato di sterminio. La commedia (della prima parte) si specchia nella tragedia (della seconda). Il vestirsi da donna è, per esempio, il trucco più banale: quando un comico non ha più risorse si veste da donna; nel film coincide con il culmine della tragicità, quando, la notte che precede l'arrivo degli Alleati, Guido viene catturato e portato al muro della fucilazione, imitando il passo dell'oca, strizzando l'occhio a Giosuè. Lo sguardo successivo è quello del bambino che vede il carro armato vero come se fosse ancora (anche) un giocattolo mentre il fermo immagine finale dichiara: «Abbiamo vinto» (sia il primo premio sia la guerra). È un lieto fine, anche se, come è stato scritto da Steve Della Casa, quel carro armato ricorda più piazza Tienanmen che Frank Capra.




5.


Certamente Schindler's List e La vita è bella non sono stati intenzionalmente costruiti intorno alla polarità individuo-Stato. I progetti intellettuali da cui scaturiscono i film avevano altre priorità narrative, non escluse quelle, tutte interne al cinema, di creare un genere. Ma è proprio la non intenzionalità che li valorizza entrambi come "fonte" per conoscere il loro presente, consentendoci di decifrare al loro interno i tratti più significativi della congiuntura politico-culturale nell'Italia della fine del Novecento. In questo senso, le domande dello storico a La vita è bella possono attivare altre strutture informative che il documento racchiude solo potenzialmente. Per esempio: Adorno , nel 1949, si interrogava con angoscia sulla possibilità stessa di raccontare la Shoah; oggi, la medesima angoscia si addensa intorno alla possibilità di trasmetterne la memoria. Ed è proprio questa un'altra sfida affrontata (e vinta) dal film di Benigni. Lo ha detto Jorge Semprún: «Se vogliamo guardare questo film pensando di trarne qualcosa sulla verità dei campi, c'è da spaccare le poltrone. Ma a me interessa sapere cosa può un giovane ricavare come presa di coscienza da quello che fu la Shoah».

Così come Guido/Benigni fa nei confronti del bambino Giosuè, La vita è bella si offre di mediare tra gli spettatori e la Shoah, per renderla accessibile sia sul piano conoscitivo sia su quello del ricordo e della memoria. Nel ruolo del mediatore c'è una fortissima funzione di protezione; si tratta di far transitare un oggetto dal compratore al venditore, rendendone possibile e garantendone proprio la trasmissibilità. Guido/Benigni protegge Giosuè dalla visione del male, non per distoglierlo dalla realtà, ma per renderla sostenibile. La vita è bella rende transitabile e trasmissibile la memoria della Shoah; l'indifferenza giovanile che oggi la circonda nasce soprattutto dalla sua carica di orrore. Un orrore che ai giovani appare troppo vasto, clamoroso, esagerato. Troppa luce rende ciechi, diceva Pascal. Così è per la memoria dello sterminio; la sua dimensione eccessiva favorisce l'oblio, non il ricordo. Strappando una piccola speranza all'orrore che non si può guardare e non si può descrivere, La vita è bella ne ha reso possibile la conoscenza e il ricordo. Forse, per lo storico, il film è soprattutto questo: un efficace strumento per raccontare un passato altrimenti muto, all'interno di un difficilissimo passaggio della memoria tra le generazioni.

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11
Gli "anni '68"





1.


Che ci sia stato "un '68 prima del '68" non è certo solo il cinema a dircelo. Ricordiamolo: il 20 novembre 1964, cinquemila studenti avevano occupato il campus universitario di Berkeley, sede dell'Università della California; un anno dopo, il 17 aprile 1965, a Washington c'era stata la prima manifestazione studentesca contro il crescente impegno statunitense nella guerra del Vietnam; nel 1966, il 17 febbraio, in Colombia era stato ucciso Camillo Torres, un sacerdote che combatteva insieme ai guerriglieri comunisti contro la dittatura militare; il 5 agosto, in Cina, era stato pubblicato il documento di Mao Tse-tung (Bombardare il quartier generale) che incoraggiava i giovani a mobilitarsi nella "rivoluzione culturale"; nel 1967 c'erano stati prima il colpo di stato militare in Grecia (20-21 aprile), poi l'uccisione di Che Guevara in Bolivia (9 ottobre) e, in Italia, le prime occupazioni universitarie (Trento, Milano, Torino e Padova).

Poi era arrivato il 1968 vero e proprio, con una cronologia improvvisamente sovraffollata di eventi che rimbalzavano dai quattro angoli del mondo, dal Vietnam (offensiva del Tet del 31 gennaio) agli Stati Uniti (dove furono assassinati Martin Luther King , il 4 aprile, e Bob Kennedy, il 5 giugno), da Berlino (l'11 aprile, in un attentato, fu ferito il leader degli studenti Rudi Dutschke ) a Praga (il 20 agosto arrivarono i carri armati sovietici); nella piazza delle Tre culture, a città del Messico, il 3 ottobre, la polizia sparò contro gli studenti facendo una strage, cinquecento morti. Pochi giorni dopo, nella stessa città, si inaugurarono le Olimpiadi: il 16 ottobre, i velocisti neri Tommie Smith e John Carlos, vincitori delle medaglie d'oro e di bronzo nei 200 metri, alzarono il pugno chiuso durante la premiazione, per protestare contro la discriminazione razziale nel loro paese, gli Stati Uniti. L'epicentro di questo terremoto fu, però, nel cuore della vecchia Europa, nella Francia del "maggio".

Tutto era cominciato proprio il 2 maggio, con la chiusura dell'Università di Nanterre occupata dagli studenti. Il giorno dopo ci furono a Parigi, nel Quartiere Latino, i primi scontri con la polizia. La giornata più calda fu quella del 10 maggio. A quel punto, mentre la protesta studentesca si allargava a tutta la Francia, scesero in campo anche gli operai. Il 13 maggio i grandi sindacati Confédération générale du travail (CGT), Confédération française démocratique du travail (CFDT) e Force ouvrière proclamarono lo sciopero generale; cinquecentomila manifestanti sfilarono per le strade di Parigi. Il fulcro della lotta si spostava dall'università alla società, le richieste si facevano più direttamente politiche e la crisi investì lo stesso potere del generale De Gaulle. Il 24 maggio, nove milioni di operai erano in sciopero. Quella stessa notte, le strade del Quartiere Latino furono teatro degli scontri più cruenti e ci furono i primi morti. Poi, come spaventato dalla sua stessa radicalità, il movimento cominciò a rifluire su se stesso. Il 27 maggio, l'accordo raggiunto tra governo e sindacati (agli operai venivano riconosciuti significativi aumenti salariali, la riduzione dell'orario di lavoro e nuovi diritti sindacali) fu respinto da una parte della sinistra. Ci si divise su tutto: gli operai dagli studenti, i socialisti dai comunisti, in una frammentazione convulsa di cui subito approfittò la destra. Ancora una volta il generale De Gaulle si accreditò come il salvatore della patria, questa volta contro la presunta minaccia di una sovversione anarchica e comunista. Il 30 maggio sciolse le Camere per indire nuove elezioni politiche; contemporaneamente un milione di persone sfilò per Parigi, inneggiando al suo nome e gridando slogan contro gli studenti. Il 23 giugno le elezioni segnarono il trionfo dell'UDR (il partito gaullista) che raggiunse la maggioranza assoluta; lo schieramento di sinistra arretrò in tutte le sue componenti, perdendo più di cento seggi.

La protesta studentesca dilagò anche in Italia, presentandosi però nel nostro paese con una sua irriducibile specificità: durò molto più a lungo e coinvolse la stragrande maggioranza del movimento operaio. Così, agli scontri e alle occupazioni delle università che videro come protagonisti gli studenti si intrecciarono le prime significative agitazioni operaie (alla Marzotto di Valdagno, il 19 aprile; al Petrolchimico di Porto Marghera, il 21 giugno; alla Pirelli di Milano, il 3 ottobre) e i moti contadini che ad Avola, il 2 dicembre, costarono la vita a due braccianti, uccisi dalla polizia.




2.


Parlare quindi per l'Italia di "film del '68" vuole dire in realtà confrontarsi con un periodo più lungo, così da definire come "anni '68" l'intero decennio successivo, almeno fino ai "trentacinque giorni della FIAT" e alle lotte contrattuali che, come vedremo, segnarono la clamorosa sconfitta operaia nell'ottobre del 1980. Visto in questa ottica, il cinema ci offre un affascinante catalogo di quelle che allora furono le principali istanze del movimento, assumendo quella veste indispensabile di "fonte" sulla quale abbiamo già più volte insistito. Discutiamo, discutiamo (1969), ancora di Marco Bellocchio, ne è un esempio molto efficace.

Tra le istituzioni violentemente criticate, dopo la Chiesa, la famiglia, i partiti, questa volta toccava all'università, vista come il residuo di un potere accademico svuotato di senso dalle trasformazioni avviate dal boom economico, prigioniera di riti tanto grotteschi quanto anacronistici. Le immagini del film sono eloquenti: professori confusi, assistenti schiacciati dal servilismo, cattedre e libri simbolicamente dissacrati, studenti che percorrono in lungo e in largo le aule, si sostituiscono ai docenti nel fare lezione, polemizzano con i loro compagni che "vogliono studiare"; il tu al posto del lei, gerarchie capovolte, irriverenza e sberleffo, posture, atteggiamenti in cui precipitano irrisione, parodia, beffa, pacche sulle spalle che superano la barriera della fisicità per abbattersi su docenti che hanno smarrito autorevolezza e autorità. La cattedra non ha più la sua centralità, lo spazio dell'aula è diventato caotico, senza punti di riferimento, gli studenti si muovono continuamente, la direzione verticale della trasmissione del sapere, dall'alto in basso, viene drasticamente rifiutata per modellarsi tutta in orizzontale. Nel film, i B-52 che bombardano il Vietnam sono paragonati all'educazione impartita nell'università che "bombarda" i cervelli degli studenti.

Nella realtà del movimento, la didattica è affidata ai "controcorsi" interdisciplinari (durante la prima occupazione di Palazzo Campana, a Torino, già nel novembre 1967, si formarono commissioni di studio su Scuola e società, Pedagogia del dissenso, Cinema e società, Divisione del lavoro, Filosofia della scienza, Funzioni e compiti della filosofia, su Marcuse eccetera); per la gestione politica delle lotte si sceglie l'"assemblea"; per l'organizzazione la "comunità" si sostituisce al partito, alla sezione, alla cellula, «presentandosi come il solo modo di continuare a vivere la felicità pubblica scoperta nel movimento, nel doppio significato di stato di grazia emotivo e di fattore potentissimo di coesione di una comunità di pari».

Il '68 come affermazione di una "comunità alternativa" a quella della società esistente è un'immagine che, centrale allora nel film di Bellocchio, è oggi largamente condivisa dalla storiografia e dalla memorialistica: il movimento era costituito in primo luogo da una presenza giovanile indistinta e magmatica, aperta sempre a nuovi ingressi, che si ritrovava nei corridoi e nelle aule degli atenei in agitazione, che si conosceva di faccia e spesso non di nome; solo successivamente, quando i gruppi extraparlamentari egemonizzarono le formule organizzative del movimento, cominciarono a esserci dei filtri, si richiesero tessere di iscrizione e adesioni statutarie. Agli inizi no, ci si riconosceva come militanti attraverso la musica, il cinema, i viaggi, le letture, «non c'erano responsabilità, non c'erano compiti, era tutto informale e immediato». Nessun rapporto, nessuna contiguità con la drammaticità delle "uscite di sicurezza" che aveva segnato i militanti comunisti degli anni trenta, raccontati da Nizan. «Chi partecipò al sessantotto», scrisse a suo tempo Elvio Fachinelli , «comprese che ciò che conta non è tanto l'oggetto del desiderio quanto lo stato del desiderio, e che la soddisfazione del desiderio è la morte del gruppo ...».

Fu il cuore del radicalismo sessantottesco: a una società che fondava l'esistente sulla soddisfazione dei bisogni si contrappose un "perenne non basta", il beffardo smascheramento della realizzazione dei desideri come mistificante illusione del potere. E fu un'altra drastica rottura con la tradizione della Terza internazionale, che sulla "soddisfazione dei bisogni" aveva modellato le sue parole d'ordine di rivoluzione e di rivolta. Era quella che allora si definì la politicizzazione del quotidiano e che scardinò tutti i tradizionali riferimenti organizzativi a cui era stata ancorata fino ad allora la distinzione tra pubblico e privato, attingendo a un humus culturale in cui queste pulsioni assumevano un carattere eccessivo, parossistico, come negli happening della performance art o della body art.

[...]

Così, ancora un film di Elio Petri, La classe operaia va in paradiso (1971) appare oggi un segnale importante anche per cogliere una netta differenza tra il movimento nel suo stato nascente - il '68 prima del '68 - e i suoi successivi sviluppi, quando, con l'emergere di obiettivi più generali, il punto di riferimento organizzativo diventarono le fabbriche.

In Italia si aprì allora una seconda fase, diversa. Gli studenti in lotta si proclamarono estranei a "tutti" i partiti, anche se la loro polemica più aggressiva investiva soprattutto la DC, al potere da oltre vent'anni. Anche quelli di sinistra (il PCI, il PSIUP e il PSI) furono duramente contestati, rimproverati - secondo quanto anticipato da La Cina è vicina -, per una loro intrinseca tendenza a adattarsi al sistema, a "mediare" o addirittura a reprimere i contenuti più avanzati del conflitto sociale. Nacque allora la vasta e complessa galassia dei gruppi extraparlamentari, politicamente collocati a sinistra del PCI, caratterizzati dal rifiuto dell'esperienza sovietica e della rigidità dogmatica dello stalinismo, e più attenti ai contenuti e alle forme che si affermavano direttamente, dal basso, nelle agitazioni spontanee che attraversavano la società italiana. Le prime organizzazioni che occuparono quest'area politica furono definite "cinesi" per la derivazione maoista della loro ideologia e dei loro programmi (nel 1966 nacque il Partito comunista marxista-leninista; nel 1968 l'Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, con un giornale che si chiamava "Servire il popolo") e furono la realtà con cui si confrontò il cinema che anticipò il '68. Più incisiva fu successivamente la presenza dei gruppi di matrice operaista, come Potere operaio e Lotta continua. Potere operaio sorse nel 1967 e si strutturò nel luglio 1969 in un'organizzazione che aveva i suoi punti di forza a Roma e nel Veneto, pubblicando fino al 1973 l'omonimo giornale. Lotta continua nacque dalla convergenza di gruppi di studenti, attivi dal 1967 in varie università del Nord, con nuclei operai della FIAT e di altre grandi fabbriche. La sua sede principale fu Torino, ma il movimento era diffuso un po' in tutto il Nord e il Centro, riscuotendo molti consensi soprattutto tra i più giovani; a partire dal 1972 l'organizzazione ebbe anche un suo quotidiano. Si sciolse nel 1976. A Milano fu significativa l'esperienza di Avanguardia operaia, che dal 1974 pubblicò "Il quotidiano dei lavoratori". Di rilievo, sempre a Milano, era anche la presenza del Movimento studentesco che aveva la sua roccaforte nell'Università Statale. L'unico "gruppo" a cui guardarono con interesse i quadri e i militanti del PCI fu comunque quello - più moderato e più fedele alla tradizione comunista - raccolto intorno al quotidiano "il manifesto", che iniziò le pubblicazioni nel 1971.

Un'idea-forza di questa galassia organizzativa fu appunto quella che allora si chiamava "centralità operaia" che, così come fu interpretata dai movimenti extraparlamentari, non era solo un riferimento politico o ideologico: vivere la vita degli operai, respirarne gli stessi problemi, coglierne nell'aria le aspirazioni politiche e i desideri personali, i valori morali e le tradizioni culturali per poi fissarli sulla carta delle rivendicazioni e delle lotte appariva allora come il vero unico antidoto contro le tossine dell'ideologia da cui i partiti della sinistra tradizionale (PCI e PSI) erano incapaci di liberarsi.

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Conclusione
La meglio gioventù, 2003





1.


Con la fine della Prima repubblica si avvia al termine anche questo lungo percorso che si è snodato tra cinema e storia. È il caso quindi di riproporre un esempio che ne sintetizzi la proposta metodologica e le tesi interpretative e che chiuda il cerchio che si era aperto con le riflessioni su Terra e libertà.

La meglio gioventù (2003), di Marco Tullio Giordana, ha in questo senso una sua indubbia efficacia. La storia che racconta comincia nel 1964, quando Nicola Carati (Luigi Lo Cascio), giovane studente di medicina, supera brillantemente un esame e parte per un viaggio-vacanza verso l'Europa del Nord insieme al fratello Matteo (Alessio Boni) e gli amici Carlo (Fabrizio Gifuni) e Berto (Giovanni Scifoni). Ma la comitiva si sfalda prima ancora della partenza. Matteo e Nicola decidono di prendersi cura di Giorgia (Jasmine Trinca), una giovane malata che Matteo ha conosciuto facendo volontariato in ospedale psichiatrico: sconvolto dalla brutalità dell'elettrochoc, la "rapisce", ma alla fine Giorgia viene ripresa e riportata in clinica; Matteo, che non ha più voglia di viaggiare, si arruola in polizia mentre Nicola, partito da solo, arriva in Norvegia, trova lavoro in una falegnameria, scopre un diverso modo di vivere. Quando però, alla televisione, vede le immagini dell'Arno che sommerge Firenze, torna subito in Italia. All'alluvione del 1966 fanno seguito altri eventi significativi: la rivolta studentesca, i lutti del terrorismo, la riforma psichiatrica voluta da Franco Basaglia , la strage di Capaci con l'uccisione di Giovanni Falcone, lo scandalo di Tangentopoli, in un continuo intreccio tra la "piccola" e la "grande" storia. Se nel fango di Firenze Nicola conosce Giulia (Sonia Bergamasco), che diventerà sua moglie, sarà poi la lotta armata e l'adesione della donna a un gruppo terroristico a strapparla al suo affetto e a quello della figlioletta Sara; la carriera in magistratura della sorella Giovanna (Lidia Vitale) intercetta la violenza mafiosa (l'omicidio di Paolo Borsellino); l'alta carica in Banca d'Italia raggiunta da Carlo ne fa un bersaglio per le Brigate rosse; Vitale (Claudio Gioè), l'amico operaio, viene licenziato dalla FIAT, ma sa reagire con successo, avviando una sua piccola impresa di costruzioni. Intanto il papà Carati (Andrea Tidona) è morto di tumore e la mamma Adriana (Adriana Asti), professoressa impeccabile, tende a vivere in solitudine lo strazio dei suoi lutti, in particolare quello lacerante del suicidio di Matteo che, dopo aver attraversato con sofferenza gli anni della rivolta giovanile (dalla parte delle forze dell'ordine), è sembrato per un attimo placare il suo "lupo" interiore approdando alla felicità nell'incontro con Mirella (Maya Sansa), bibliotecaria-fotografa. A tessere la trama di tutte le vicende resta comunque, sempre, la figura esemplare di Nicola: il figlio che non trascura la vecchiaia della madre distrutta dal dolore, l'uomo dolce e fiducioso («tutto quel che esiste è bello»), il cittadino che sa ancora scandalizzarsi di fronte alle ipocrisie e alle crudeltà di una società pigra e autoassolutoria, che pratica sempre più il cinismo e meno la solidarietà.

Come scrisse efficacemente Ezio Leoni, la storia di Nicola (e di La meglio gioventù) è racchiusa tra due dialoghi di emblematica efficacia: in apertura, durante l'esame all'università, il professore lo ammonisce: «Lasci questo paese... è un paese bello e inutile, da distruggere: tutto rimane uguale e immobile, in mano ai dinosauri»; nel finale, quando, come psichiatra, si reca in carcere per assistere un arrestato di Mani pulite e questi, per giustificare la corruzione diffusa, sentenzia: «È l'Italia che hanno fatto i nostri padri, mi creda»; Nicola ribatte: «No, mio padre no, mi creda anche lei...».




2.


C'è dunque in questo film la storia del nostro recente passato, una storia che abbraccia tutta la seconda metà del Novecento. La capacità del cinema di intercettare lo "spirito del tempo" e di restituirlo alla conoscenza storica non è più in discussione; così con La meglio gioventù siamo di fronte, come abbiamo ormai imparato, a una forma di storiografia che in quanto tale si confronta con le tesi interpretative avanzate dagli storici di mestiere, uno per tutti Guido Crainz che, proprio in quello stesso anno, diede alle stampe un libro dove, peraltro, il cinema (ma anche le canzoni, i libri, i programmi televisivi) veniva assunto come una delle fonti principali, con lo stesso rilievo interpretativo attribuito alle relazioni dei prefetti o ai verbali delle segreterie di partito. Ma - e anche questo lo abbiamo ormai imparato - nel modo scelto da Giordana per raccontare il passato c'è qualcosa di più, legato proprio al presente in cui il film fu proposto agli italiani.

[...]


3.


È possibile che l'Italia e gli italiani di fine Novecento fossero solo quelli che affollavano l'universo elettorale di Forza Italia? È possibile che proprio negli anni settanta della "centralità operaia", la Lega di Bossi prima e Forza Italia di Silvio Berlusconi poi avessero trovato l'humus sociale e culturale che ne avrebbe favorito la loro irresistibile ascesa? In La meglio gioventù ci sono molte risposte a queste domande. E le più convincenti risultano da un approccio fortemente storicizzante nell'impianto narrativo prescelto, nell'uso della cronologia come principio ordinatore degli eventi che si susseguono dal 1964 al 2003, nella ricomposizione sapiente dei "luoghi" geografici che compongono l'Italia (Roma, 1964, gli echi del boom economico; Venezia, Porto Marghera, l'inizio dell'inquinamento nel Petrolchimico; Firenze, 1966, l'anno della grande alluvione e degli "angeli del fango"; Torino, 1970, gli scontri di piazza; 1980, la crisi della FIAT, gli operai in cassa integrazione; Palermo, 1991, l'attentato al giudice Falcone; isola di Stromboli, 2002, il fascino del ritorno alla natura), ma soprattutto nella sua capacità di proporre una convincente interpretazione di quello che viene colto come il "cuore" dei movimenti del '68.

La professione di Nicola, per esempio, poteva essere scelta tra mille; averne fatto uno psichiatra, allievo di Franco Basaglia, acquista un immediato rilievo storiografico. Proprio agli inizi, infatti, una parte consistente del movimento del '68 scelse di impegnarsi su un terreno che prescindeva totalmente dalla dimensione statuale della politica e che si rifaceva a una teoria critica della società "totale" (in cui riecheggiavano gli accenti della Scuola di Francoforte), con una lettura dello stato ridotto alla sua essenza repressiva di "apparato della forza"; ne scaturirono alcune delle proposte strategicamente più interessanti: l'impegno nelle carceri, poi nelle istituzioni più separate, dall'esercito alla magistratura, contro i manicomi e l'emarginazione della follia fu alla base di una «lunga marcia attraverso le istituzioni», come fu allora definita, forse la più incisiva istanza di trasformazione avanzata dagli studenti in lotta. Si trattava di applicare la ricetta già sperimentata con successo nell'università: forti movimenti collettivi che investivano dall'interno ogni istituzione, spezzandone le "separatezze" corporative, rinnovandola dal basso, aprendola al rapporto con la società civile, adeguandola ai vistosi mutamenti che il mondo aveva attraversato in quella che Hobsbawm chiama l'«età dell'oro». Era una strategia confusa e velleitaria, ma comunque saldamente ancorata a una concezione fisiologica del conflitto e a una grande fiducia in forme di lotta destinate a innovare profondamente rispetto a quelle tradizionali, adottate in passato dal movimento operaio.

Questo percorso - è utile ripeterlo - fu bruscamente interrotto dagli eventi del 1969 che culminarono nella "strage di stato" del 12 dicembre. Con un'espressione ormai abusata, ma ancora efficace, fu quello il momento della «perdita dell'innocenza» da parte del movimento. Per dirla con un linguaggio datato, fu il momento in cui si fu costretti a passare dalla «spontaneità all'organizzazione». E fu il momento in cui sui resti della stagione movimentista cominciarono ad affermarsi i gruppi extraparlamentari: furono diversi per storia e progetti politici, ma tutti, tutti insieme condivisero la necessità di "disciplinare" il movimento rendendolo meno creativo ma più adatto a confrontarsi con la nuova fase politica aperta dalle bombe di piazza Fontana.

Una spia significativa in questo senso è legata al particolare rapporto con la violenza che cominciò a delinearsi: fu una violenza vissuta come scelta resa ineludibile dall'iniziativa violenta dell'avversario; assunta non come fine a se stessa, tale cioè da non esaurire completamente ispirazioni strategiche e valutazioni tattiche del movimento con marcate analogie, in questo senso, con il modello di violenza "difensiva" instauratosi nella tradizione antifascista del movimento operaio italiano, almeno a partire dal 25 aprile 1945.

Fu questa una delle contraddizioni più vistose e significative del '68: un movimento che aveva largamente innovato rispetto alle forme della politica, che aveva infranto molti dei vecchi miti della sinistra, che con lo stesso antifascismo "ufficiale" aveva avuto subito un rapporto di conflittualità polemica, riscopriva su un tema di assoluto rilievo politico una rigorosa continuità con la tradizione della Resistenza. È una contraddizione che può essere spiegata, riprendendo una preziosa indicazione di Guido Viale sulla spontaneità naturale con cui il '68 incontrò la violenza («la violenza», aveva scritto nel 1978, «[il movimento] non l'ha inventata, né scoperta. La riceve. E non si interrogherà mai a fondo sulle sue ragioni e sui suoi principi»). L'assenza di ogni credibile esperienza su questo terreno fece emergere in maniera quasi ovvia l'esigenza di un ritorno al passato che ebbe la sua ricaduta più significativa in una sorta di ossessione organizzativistica che allora attanagliò il movimento. Era la fine dello "stato nascente": progetti e programmi si modellavano sulla politica come la sinistra l'aveva sempre conosciuta, assumevano lo stato come riferimento privilegiato per un'ipotetica "conquista del potere", si strutturavano in tanti piccoli partiti. Senza una minima consuetudine con quelle forme di organizzazione, le si riscopriva con un integralismo e una radicalità di cui le forze tradizionali del movimento operaio si erano ormai liberate da tempo.

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Il film [La meglio gioventù] rifiutava ogni registro ideologico, da manifesto programmatico, ma metteva in scena situazioni affettive, scelte professionali, comportamenti individuali quasi selezionati apposta per irritare una destra che si differenziava "antropologicamente" da quei modelli. Il racconto di Giordana era affollato da italiani che rispettano le code, credono nella scuola pubblica, hanno uno spiccato senso civico, si mantengono "civili" anche negli affanni di una vita privata sottoposta a prove durissime; un'Italia di minoranza, raccontata mentre dilagava l'"Italia da bere" di Jerry Calà e Christian De Sica, quella che, a suo tempo, gli scrittori del "Mondo" avevano chiamato l'«Italia alle vongole».

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È stato soprattutto Eric J. Hobsbawm a insistere su questa interpretazione di grande efficacia. Fino ad allora, negli ambienti borghesi si era sempre dato per scontato che i giovani attraversassero un periodo turbolento prima di "sistemarsi". Questa volta non fu così e Hobsbawm lo spiega con una tesi articolata in tre punti: a) la giovinezza fu vissuta dal movimento non come una fase di passaggio verso un'età più adulta e più matura, ma come il punto più alto della propria vicenda biografica, un momento magico che non si sarebbe mai più ripetuto. In questo senso, la sua dimensione politica fu prevalentemente quella di una lotta contro il potere dei "vecchi", intendendo per "vecchi" tutti quelli che avevano già compiuto trent'anni; b) i giovani, con i loro gusti e le loro mode (i jeans, la musica, il cinema), conquistarono l'egemonia nelle economie di mercato dei paesi sviluppati, presentandosi come «una massa compatta dotata di un forte potere di acquisto» in grado di tener dietro meglio di tutti gli altri alle continue innovazioni tecnologiche proposte dal sistema produttivo; c) si costruì allora una specifica identità giovanile grazie «all'enorme distanza che separava le generazioni nate prima»: nuovi erano i consumi, nuova era la piena occupazione, nuova era la velocità dei mutamenti.

I risultati più significativi conseguiti dalla rivolta giovanile si registrarono così soprattutto nella sfera della cultura e del tempo libero, nei gusti e nelle mode di ispirazione popolare (che andavano dalla musica rock ai jeans) e avverse alle antiche regole. Fu sulla base di questo anticonformismo di fondo che i giovani allora scelsero di orientarsi politicamente verso sinistra. Ma la politica (secondo Hobsbawm) era in realtà un aspetto secondario nel complesso delle loro rivendicazioni. L'obiettivo reale era «pubbliche proclamazioni di desideri e sentimenti privati», una scelta che li portava a riscoprire il fascino della soggettività e a farsi protagonisti di una rivoluzione essenzialmente culturale che poteva intendersi «come il trionfo dell'individuo sulla società» - "la società non esiste; esistono solo gli individui" - o piuttosto come «la rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto sociale».

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Filmografia



1905 La presa di Roma - Regia: Filoteo Alberini; sceneggiatura: Gualtiero Fabbri; produzione: Alberini & Santoni. Cortometraggio, 10' (di cui restano 4). Interpreti e personaggi: Ubaldo Maria Del Colle (Raffaele Cadorna), Carlo Rosaspína (Hermann Kanzler)

1912 Sommergibili nel Mediterraneo - Regia: Luca Comerio; ...

1914 Cabina - Regia: Giovanni Pastrone; ...

1915 Befana di guerra - Regia e sceneggiatura: Caramba (Luigi Sapoli); ...

1915 La paura degli aeromobili nemici - Regia e sceneggiatura: André Deed; ...

1916 Amor di barbaro - Regia e sceneggiatura: Amleto Palermi; ...

1916 The Battle of the Somme. (La battaglia della Somme) - Regia: Geoffrey Malins, John McDowell; ...

1916 Maciste alpino - Regia: Luigi Romano Borgnetto, Luigi Maggi; ...

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1991 Il portaborse - Regia: Daniele Luchetti; ...

1992 Il ladro di bambini - Regia: Gianni Amelio; ...

1993 Schindler's List - Regia: Steven Spielberg; ...

1995 Terra e libertà (Land and Freedom) - Regia: Ken Loach; ...

1997 Porzûs - Regia: Renzo Martinelli; ...

1997 La vita è bella - Regia: Roberto Benigni; ...

1998 Train de vie. Un treno per vivere - Regia: Radu Mihaileanu; ...

2000 Il partigiano Johnny - Regia: Guido Chiesa; ...

2002 Perlasca. Un eroe italiano - Regia: Alberto Negrin; ...

2003 La meglio gioventù - Regia: Marco Tullio Giordana; ...

2005 Il cuore nel pozzo - Regia: Alberto Negrin; ...

2008 Miracolo a Sant'Anna (Miracle at St. Anna) - Regia: Spike Lee; ...

2009 Barbarossa - Regia: Renzo Martinelli; ...

2010 Noi credevamo - Regia: Mario Martone; ...

2018 Red Land (Rosso Istria) - Regia: Maximiliano Hemando Bruno; ...

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