|
|
| << | < | > | >> |IndicePrefazione 3 Il delfino e gli squali 5 Sognando Wall Street 10 Gestione o digestione? 15 ETC ed ETF: rischia chi specula! 23 Gestori-truffatori 37 I maghi della finanza 50 La febbre dell'oro: dal metallo alla carta 58 Rachitismo all'italiana 66 Finanza "creativa", balla spaziale 71 Finanza ed etica: diavolo e acqua santa? 86 Pensiamo positivo 107 Aiutati che il ciel t'aiuta 113 Glossario dei termini economici e finanziari 121 |
| << | < | > | >> |Pagina 5IL DELFINO E GLI SQUALI
Non c'è mestiere più bello che fare lo Zio d'America
Emilio De Marchi,
Demetrio Pianelli
Permettete che mi presenti: mi chiamo Marco Tedesco. Sono uno di quei signori che comprano e vendono monete straniere sui mercati internazionali. La definizione esatta delle monete straniere è "divise estere", ma preferisco evitare questo termine, perché in genere quando lo uso capisco che la gente, per "divise estere", immagina quelle degli zuavi francesi, degli ascari etiopi o dei gurkha nepalesi. Tutta brava gente, ma non c'entra niente con il mio lavoro: comprare e vendere dollari americani, yen giapponesi o sterline inglesi. Una volta facevo operazioni anche con il franco francese, il fiorino olandese e (figuratevi un po' le battute che i colleghi facevano con il mio nome) il marco tedesco. Oggi con l'euro, la moneta unica, è tutto diverso, hanno abolito le "divise europee". Ne è rimasta una, un po' come se fossero rimaste solo le guardie svizzere con le loro coloratissime "divise". Così mi sono "riciclato" e sono diventato uno tra i migliori gestori di portafoglio, uno di quei signori che comprano e vendono azioni, obbligazioni, fondi comuni (ma anche warrant, certificate, option o future, tutta quella roba inventata per speculare) per "conto del cliente". Nei colorati depliant che gli addetti in banca vi consegnano, magnificandone i contenuti, è scritto senza virgolette, perché in realtà bisognerebbe scrivere: "per conto del cliente e nell'interesse della propria società". La mia storia di lavoro? Una storia che è bene tutti conoscano, per capire come gira il mondo della finanza visto "da dentro", con gli occhi di una persona che ha sempre cercato di restare attaccato ai valori trasmessigli dai genitori e dai nonni, rifiutando quelli che hanno cercato di trasmettergli i suoi superiori, i suoi capi, i suoi "istruttori". Partiamo dall'inizio: ho seguito normali studi scolastici, ho preso una laurea in Economia e Commercio, ho trovato un bell'impiego in una società industriale di componentistica aeronautica. Poi, grazie ai miei genitori che hanno fatto enormi sacrifici per consentirmelo, ho conseguito un prestigioso Master in una prestigiosa università del Connecticut (USA), con specializzazione finale in "International Business". Forte di tutti questi pezzi di carta, ho trovato un bel lavoro in una delle più importanti società d'investimento americane e ho cominciato ad assaporare "Il colore dei soldi". Ricordate il bellissimo film del 1986 con Tom Cruise e Paul Newman? Per i più anziani, dico che si tratta del seguito de "Lo spaccone" (protagonista il solo Paul Newman), girato venticinque anni prima. Il film racconta la storia di un giovane giocatore di biliardo, Vincent (Tom Cruise), che per caso è notato in un bar dal vecchio "Eddie lo svelto" (Paul Newman), un grandissimo giocatore fino a venti anni prima e ridotto a campare vendendo alcolici. Eddie capisce che il ragazzo è un fenomeno e lo convince a seguirlo per far soldi, tanti soldi con le scommesse. Parecchie cose sono cambiate e molti dei trucchi che usava sono conosciuti dalla maggior parte di quelli che intende truffare. Eddie capisce di non potersi fidare di nessuno, neppure del giovane Vincent, che raramente dà retta al suo maestro. Alla fine, frustrato dal comportamento del giovane, lo abbandona, ma la passione e la consapevolezza di essere ancora capace di primeggiare lo convincono a rimettersi in gioco. Con la sua amata stecca Balabushka ben presto torna ai vecchi lustri e, di partita in partita, di vittoria in vittoria, ritrova Vincent. La sfida, vinta da Eddie, è truccata, perché Vincent si fa battere e guadagna molti soldi scommettendo sul rivale. La morale del film è riassumibile nella frase di Eddy (ben assorbita dall'allievo Vincent): "Il denaro vinto è molto più dolce del denaro guadagnato". Ebbene, nel mondo della finanza spesso ho avuto l'impressione di essere in una fumosa sala di biliardo americana, perché i protagonisti "giocavano" con i soldi degli altri e cercavano solo di "vincere" e non di "guadagnare". Lasciata la società di investimenti, sono passato ad una società di "studi e analisi", cioè una di quelle istituzioni che valuta le società quotate, analizza i bilanci, studia le prospettive del mercato e alla fine emette il giudizio inappellabile: "COMPRARE", oppure "TENERE", oppure "VENDERE". Il consiglio "COMPRARE" era quello prevalente, quello "VENDERE" era rarissimo, perché il conflitto d'interessi, o meglio gli intrecci di interessi, tra società di "consulenza" e società quotate era strettissimo. Sconfortato da questa situazione, sono passato ad una società di gestione di fondi comuni d'investimento, perché pensavo che avrei potuto dare il meglio di me, sfruttando a fondo i miei studi e le mie precedenti esperienze. Mi sono presto reso conto che gestire correttamente un portafoglio non serve a nulla, o per lo meno non interessa ai grandi capi. I capi vogliono una sola cosa: vendere più quote possibile dei fondi, far crescere sempre più la società, guadagnare sempre di più raccogliendo più soldi dai risparmiatori, utilizzando venditori aggressivi in grado di strappare i risparmi dalle mani della gente per gettarli sui mercati e facendo operazioni spesso rischiose. Un po' depresso da quanto avevo visto e vissuto, sono tornato in Italia, alla ricerca di un mercato meno stressante, ma più attento ai "valori". Così, sono stato assunto da una compagnia di assicurazione con l'incarico di gestire il settore azionario. A quei tempi, le azioni in una compagnia erano un po' come il diavolo nell'acqua santa, una cosa demoniaca e comunque assolutamente sconosciuta al mio capo, che aveva costruito la sua luminosa carriera comprando solo BTP e CCT. I padroni, però, volevano entrare in una nuova "area di business" e allora l'esperto di titoli di Stato comincia ad avere anche la responsabilità di investire in Borsa. Avevo voglia di fare analisi delle società come avevo imparato negli Stati Uniti, di studiare l'evoluzione del mercato per cogliere il momento giusto per comprare o vendere come avevo imparato nella società di fondi comuni americana, ma l'importante era solo comprare il titolo di una società turistica perché il capo si era trovato bene in un villaggio a Malindi ("c'era un sacco di gente, guadagnano un sacco di soldi") o di una società automobilistica tedesca perché il capo aveva una station wagon fabbricata in Germania ("è fantastica, ampia, veloce, scattante e costa un sacco di soldi, quindi chissà quanto guadagnano") e così via. Intorno, alcuni colleghi in gamba, altri assolutamente digiuni di conoscenze finanziarie, braccia strappate ad un onesto lavoro di contabilità. Potevo restare in un ambiente simile? No. Ho resistito un po' di anni, poi me ne sono andato e oggi lavoro in una società finanziaria indipendente, gestisco un portafoglio secondo criteri autonomi, lontani dalle "logiche di potere" o dalle conversazione da "bar dello sport". Non faccio sempre centro, non faccio sempre operazioni perfette, non dico in giro che sono un fenomeno, ma almeno faccio del mio meglio, rispetto chi mi ha dato i suoi risparmi, penso ai clienti che si aspettano da me almeno coerenza e, la notte dormo sereno, senza stress e senza rimorsi. Non è poco. | << | < | > | >> |Pagina 107PENSIAMO POSITIVO
La libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono
Montesquieu,
Lo spirito delle leggi
Per rovesciare l'attuale tendenza negativa e contribuire a "ricostruire" sulle macerie del mercato finanziario, è indispensabile innanzitutto un'autorità internazionale dotata di poteri legislativi (imporre regole), ispettivi (effettuare controlli) e amministrativi (sanzionare banche e dirigenti che non rispettano le regole e provocano danni ai risparmiatori, alle aziende, ai mercati). Una specie di "superConsob" capace di ficcare il naso dappertutto, di sradicare le malepiante, di cacciare ladri e incompetenti. Un'autorità formata da persone autonome, preparate e non i soliti ex-ministri o parlamentari trombati in cerca di una poltrona e di uno stipendio. Con una finanza globale, non servono comitati, enti o authority nazionali, perché un nano cieco, monco e privo di mezzi non può fermare un gigante con cento occhi, cento braccia e cento casseforti in giro per il mondo. A proposito di fenomeni internazionali, è ora di cancellare definitivamente i "paradisi fiscali", quegli isolotti sperduti nell'oceano in cui vivono duecentoventuno persone tutte di professione avvocato che ospitano 221.000 banche, finanziarie, compagnie di assicurazione, la cui attività si riduce ad apporre una targa sulla capanna dell'avvocato per avere la residenza e non pagare tasse, o pagando una cifra irrisoria, sufficiente a rendere ricchi i simpatici abitanti dell'atollo nel Pacifico o dello scoglio nell'Atlantico. Abolirli è semplice, basta una leggina che vieti a società, chiaramente fasulle, di possedere anche una sola azione di banche, finanziarie o compagnie di assicurazione nei Paesi che pagano le tasse. Parliamo anche dei "veleni" del mercato, i prodotti derivati che hanno provocato gli sconquassi della finanza mondiale. Alla base del crack c'è il cosiddetto "effetto leva" insito in questi strumenti, cioè, chi ne compra uno paga 10, ma "scommette" su qualcosa che vale 100 o 1.000. Se vince la scommessa, diventa straricco: un modesto 5% di rialzo su un investimento di 1.000 "prenotato" pagando 10 è pari a 50, quindi porta una crescita del 500% del capitale iniziale. Fate due conti con 10 milioni di dollari e cercate di capire quanto può ricavare lo speculatore fortunato. Se perde la scommessa, però, diventa povero o addirittura porta alla rovina se stesso, i propri figli e i propri nipoti: un modesto 5% di ribasso su un capitale di 1.000 (pari a 50) può diventare, con certi derivati privi di protezione, una perdita del 500%, trascinando chi ha messo in pedi la "brillante" operazione nel baratro dei barboni senzatetto. La cosa sgradevole, nel caso del mercato finanziario, è che chi fa le operazioni sbagliate, non è mai chi ha messo i soldi: i soldi sono dei depositanti delle banche "d'affari", gli utili sono in gran parte dei "capaci", ma "rapaci", dirigenti e degli azionisti, solo le briciole vanno ai clienti. Se ci sono perdite, peggio per loro, perché i dirigenti "capaci" e "rapaci" se ne sono già andati da un'altra parte a far danni. Parliamo allora dei compensi di questi dirigenti "capaci" e "rapaci". Ai vertici di banche, finanziarie e compagnie di assicurazione siedono distinti signori che portano a casa da un minimo di 1 milione a 5-6 milioni di euro. Uno stipendio fisso mensile di 100.000/500.000 euro è pari almeno a 50/250 volte quello di un laureato che entra in banca ed è pari ad almeno 10/50 volte quello di un dirigente con trent'anni di carriere alle spalle. Insomma, per guadagnare quanto un amministratore delegato della fallita Lehman Brothers, un impiegato impiega 250 anni (nel 1960 gli bastavano 40 anni, cioè una vita di lavoro, mentre oggi ci vogliono almeno dieci generazioni). In più, oltre allo stipendio, i big del credito e delle assicurazioni hanno le "retribuzioni in natura": auto con autista, aerei in business con caviale, aragosta e champagne, appartamento nel miglior quartiere della città, telefono, telefonino, personale di servizio, abbonamento in tribuna per seguire la loro squadra, eccetera. A tutto questo fiume di denaro si aggiungono i famigerati "bonus". Bonus basati su un meccanismo perverso in base al quale chi sarà "premiato" fissa un obiettivo, raggiunto il quale incassa 5-6 o 12 milioni di euro, cifre desunte dalle notizie di stampa e pubblicate nelle relazioni di bilancio delle grandi banche quotate. Formalmente gli obiettivi sono fissati dal Consiglio di Amministrazione, ma si sa che i consigli ratificano le scelte già fatte dai dirigenti. Poiché per raggiungere gli obiettivi bisogna far guadagnare di più la società e poiché per far guadagnare di più la società bisogna assumere rischi maggiori, la strada è inesorabilmente tracciata: si assumono rischi enormi coi soldi degli altri, si raggiungono gli obiettivi, si intascano rapidamente i "bonus" e si lascia il "malus" agli altri. Ora un trucchetto da abolire: le "scatole cinesi". L'imprenditore che crea la sua azienda, la fa crescere, vi dedica la vita, si guarda bene dal mettere in giro azioni, timoroso che qualcuno gli porti via la sua "creatura". Ma al finanziere che non ha cuore, che di un'azienda vede solo il profitto, non interessa la "creatura", perché studia notte e giorno come fare per ridurre al minimo il suo investimento e moltiplicare al massimo il suo guadagno. Uno dei sistemi più utilizzati è il sistema delle "scatole cinesi", cioè una catena di società finanziarie, più o meno vuote, create solo per annacquare la quota di controllo di una società o di un gruppo. Uno dei maggiori utilizzatori di questa tecnica è stato un certo Carlo De Maledetti, che in pochi anni ha creato un impero di carta. Acquistato il 51% della Carciofini, un'azienda industriale quotata in Borsa, ha subito costituito una finanziaria (la SoFiDe, Società Finanziaria De Maledetti), cedendole le azioni della prima, vendendo metà delle azioni al pubblico e quotandola in Borsa. Così, per controllare la Carciofini gli bastava il 51% della SoFiDe che controllava il 51% della Carciofini. Non contento, ha inventato la Borbonica, società finanziaria che ha rilevato il 51% della SoFiDe, ed ha collocato tra i fiduciosi risparmiatori il 49% del suo capitale. Così, con un colpo di bacchetta magica, bastava il 51% del 51% del 51% della Carciofini (cioè un misero 13,26% circa) per controllare la società alla base della sua piramide di carta. Questo è un modo legittimo, secondo il Codice e le norme del mercato finanziario, per ridurre al minimo il proprio impegno e mettere sulle spalle dei piccoli azionisti il rischio industriale. Eppure, per vietare il trucco delle scatole cinesi basterebbe una legge di due righe: "L'acquisto di azioni di società quotate in Borsa è riservato a privati investitori, fondi comuni, fondi pensione, enti o istituzioni pubbliche o finanziarie che rispondano al requisito del possesso del 75% di azioni in mano a privati o fondi comuni d'investimento". È possibile continuare all'infinito, prevedendo ad esempio: – il divieto a coprire incarichi multipli in consigli di amministrazione, specie se in commistione tra banche e imprese, con gravi conflitti d'interesse; – il divieto a vendere hedge fund ai privati, anche a quelli "ricchi"; – il divieto a vendere polizze di natura puramente finanziaria che non assicurano nulla, anzi specificano – ma scritto molto piccolo – che il rischio è a carico dell'assicurato; – il divieto di acquisire il controllo di banche se il pagamento non avviene in contanti. Troppo spesso si "paga" con azioni di chi compra, un po' come si fa per i calciatori: ti do Cassano che vale 10 miliardi contro Passerotti e Gargiulo che valgono 5 miliardi l'uno. Così entrambe le società mettono all'attivo 10 miliardi; – il divieto di vendere obbligazioni prima che siano state emesse. Per chi ne sa un po' di più, si tratta di vietare il grey market, fonte di malversazioni incredibili; – il divieto di applicare sui finanziamenti oneri aggiuntivi agli interessi. Il costo del denaro dipende dal tasso e non può essere gravato da balzelli come il massimo scoperto – abolito ma prontamente resuscitato in forme ancora peggiori – le spese di istruttoria fido, le spese di sconfinamento, eccetera; – l'obbligo di separare le società di gestione dei fondi dalle banche, per evitare intrecci incestuosi tra gestori e venditori; – l'obbligo di prevedere la negoziazione dei fondi su Internet per ridurre le forzature delle reti ed evitare le "transumanze pilotate" da una forma d'investimento ad un'altra in funzione degli interessi del collocatore e non di quelli dell'investitore; – l'obbligo di eliminare le commissioni di performance sui fondi e le gestioni. Una vera e propria rapina a danno dei partecipanti se non accompagnate dalla restituzione delle commissioni in caso di performance inferiori al benchmark;
– l'obbligo di ridurre le categorie di fondi, che creano solo
confusione, ad una decina al massimo, con l'obiettivo della trasparenza.
Confidiamo che qualcuno riceva il messaggio e si metta al
lavoro per realizzare queste, tra le tante altre, riforme indispensabili per
ricreare fiducia nel mercato finanziario.
|