Autore Vichi De Marchi
CoautoreRoberta Fulci, Giulia Sagramola [illustrazioni]
Titolo Ragazze con i numeri
SottotitoloStorie, passioni e sogni di 15 scienziate
EdizioneEditoriale Scienza, Firenze, 2018, Donne nella scienza , pag. 206, ill., cop.rig., dim. 17,6x23,7x2 cm , Isbn 978-88-7307-925-5
LettoreSara Allodi, 2018
Classe ragazzi , biografie , storia della scienza









 

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Pagina 77

MARGARET MEAD


Le adolescenti dì Samoa:

le regole di un mondo lontano

16 agosto 1925

Acqua, acqua, acqua e ancora acqua, a perdita d'occhio. Acqua a poppa, acqua a prua, acqua a destra e a sinistra. Mi sembra di essere su questa nave da otto anni, e invece mi sono imbarcata solo otto giorni fa! Fortunatamente ho molto a cui pensare. Passo gran parte della giornata a riflettere su come impostare il mio lavoro una volta che sarò a destinazione. Prendo appunti sul ponte quando è bel tempo, altrimenti in cabina. Ogni tanto scambio due chiacchiere con gli altri passeggeri. Alcuni sono molto incuriositi da me: un'antropologa neolaureata, partita da sola dagli Stati Uniti per andare dall'altra parte del mondo a studiare una popolazione primitiva delle isole Samoa! Certe signore sono chiaramente molto perplesse, e io mi diverto a chiedermi quale scandalosa storia avranno immaginato sul mio conto. Altri invece si interessano sinceramente al mio progetto. La reazione, però, è sempre la stessa:

"Intende davvero trascorrere sei mesi tra quei selvaggi?" mi chiedono increduli.

È vero, ho solo ventitré anni, non sono una viaggiatrice esperta e non sono mai stata per mare in vita mia. Ho viaggiato un po', più che altro con la mia famiglia, che aveva l'abitudine di spostarsi spesso, tra Philadelphia e le case in campagna. Ma non ho mai lasciato gli Stati Uniti. E non sono nemmeno mai stata da sola in una stanza d'albergo. La lingua poi... oltre alla mia, ho studiato solo il latino e il greco antico, e non credo che mi serviranno in Polinesia! Ma da qualche parte bisogna pur cominciare, no? E io ho un lavoro urgente che mi aspetta.


31 agosto 1925

Ho qualche difficoltà ad ambientarmi. Ho con me solo abiti di cotone — mi avevano assicurato che col clima tropicale la seta sarebbe marcita — mentre a bordo tutte le signore eleganti sono sempre in seta. Mi sento come quella volta quando, al primo anno di college, mi presentai a una festa indossando un vestito fatto con le mie mani, tutto decorato con un motivo che ricordava un prato di tulipani! Io che ero cresciuta in campagna lo trovavo bellissimo, ma per le altre studentesse era orrendo.

Scrivere mi aiuta a non sentirmi sola e a raccogliere le idee. Oggi ho scritto una lunga lettera a Luther — poverino, mi ha sposato appena in tempo per vedermi salpare! — e una a Boas, il mio professore. Dopo tutto è grazie a lui se sono qui, e devo tenerlo aggiornato su tutti i miei progetti. Ma la persona che mi manca di più è Ruth: vorrei tanto che fosse con me in quest'avventura. In effetti senza di lei non sarei partita. Quando ancora non era la mia più cara amica, ma la riservatissima assistente del professore di antropologia, le sue parole mi colpirono profondamente. Mi disse:

"Il professor Boas ed io non abbiamo niente da offrirle, se non l'opportunità di fare un lavoro che conta."

Studiare culture che stanno sparendo: cosa può esserci di più importante?

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Ta'u, 4 aprile 1926

Che giornata! Il tramonto è il momento più bello. Anche oggi sono andata ad ammirarlo sulla spiaggia, insieme ai bambini, mentre molti degli adulti del villaggio facevano il bagno. Quando la campana della missione ha segnato la fine della preghiera, sono iniziate le danze. È bellissimo ammirare i passi di uomini e donne di ogni età, che si esibiscono uno alla volta, ognuno con le sue movenze particolari e il suo stile. Come sempre in questi mesi, sono sfinita ma soddisfatta. Il lavoro mi impegna dall'alba al tramonto: non voglio sprecare neanche un minuto. Ma poi è un sollievo prendere un po' di tempo per me, scrivere ai miei cari e leggere di loro, anche se la posta arriva di rado.

Chissà che direbbe la nonna se mi vedesse ora. Lei non ha mai capito perché volessi venire fin quaggiù, ma forse ora che ho visto tutto questo coi miei occhi saprò spiegarglielo meglio. È stata proprio lei a insegnarmi che memorizzare non è importante, ma osservare sì. Osservare tutto: le piante, i polli, le persone. A un certo punto, quand'ero una bambina, mi fece perfino prendere appunti sul comportamento delle mie sorelle!

Ora sono più convinta che mai della mia scelta. Le popolazioni primitive sono ormai una manciata. E "primitivo" non significa selvaggio, come pensano in tanti. "Primitiva" è una società dove non esiste la scrittura. Non migliore, non peggiore: semplicemente senza scrittura. Non voglio dire che vorrei vivere per sempre dormendo per terra, mangiando con le mani e rinunciando alla scrittura. Proprio io, che in questi mesi avrò scritto un migliaio di lettere e che scrivo poesie da sempre! Ma l'abitudine a scrivere ha un impatto talmente grande sui gruppi umani, che i popoli che non lo fanno possono essere diversi da noi, e tra loro, in mille maniere.


Ta'u, 8 maggio 1926

Avrò fatto un buon lavoro? Ora che la mia avventura sta per finire, me lo chiedo di continuo. Nessuno ti insegna davvero come si diventa antropologi sul campo, e prima di me l'hanno fatto in pochi. Figuriamoci donne! Si tratta di inventarsi il mestiere da zero. Anche per questo sto pensando di scrivere un libro, ma non un libro pieno di parole difficili. Un libro per tutti, in cui raccontare com'è essere una bambina, una ragazza e una giovane donna alle isole Samoa. Per far capire in quanti modi la nostra società potrebbe essere diversa, e magari migliore. In quanti modi potrebbe essere più sana e più felice.

Tra un mese lascerò questo posto, e per molti versi sarà un sollievo: mi mancano Luther, la mia famiglia e tante altre persone. Le persone importanti della mia vita, le stesse che mi hanno resa capace di fare di ogni nuovo posto la mia casa per un po'. Ma sono certa che avrò nostalgia di questi tramonti e di questo meraviglioso popolo di danzatori.

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MARYAM KIRZAKHANI


Abracadabra! L'infinito in una ciambella

C'era una volta una formica che viveva nel laboratorio di un pasticcere. Si era stabilita su una splendida ciambella. La formica amava molto i granellini di zucchero posati sulla ciambella, e ogni giorno ne mangiava uno. Col passare del tempo, i granellini diminuivano e lei, preoccupata, si chiedeva cosa avrebbe fatto quando fossero finiti. "Bisognerà che mi trasferisca su un'altra ciambella," sospirava. Continuò a godersi il suo granellino quotidiano, finché un giorno si guardò intorno e non ne vide più nessuno. Scrutò l'orizzonte. "Eccone uno laggiù." L'ultimo granellino splendeva dalla parte opposta della ciambella. Sembrava lontanissimo! E lei si sentiva senza forze. Avrebbe potuto sgranocchiare un po' di ciambella lungo la strada, ma una formica abituata a deliziosi banchetti di zucchero non si accontenta di un morso di ciambella.

"Quale sarà il percorso più breve?" si chiese pensierosa. Quando era piccola la sua famiglia viveva in cima a un grande pan di Spagna, e lì era facile trovare la strada più corta verso uno zuccherino: bastava guardarlo e andare dritti. Ma ora la sua casa era tutta curva, e al centro c'era perfino un buco. Lei non era una pulce, e non poteva saltarlo. Non era nemmeno una mosca, e non sapeva volare. "Dove passare?"


Mia figlia Anahita, con lo stupore dei suoi quattro anni, mi guarda assorta da sotto in su. Adora ascoltare le mie storie. Osserva attenta la figura che ho disegnato per lei, con la formica da una parte della ciambella e lo zuccherino tutto solo dall'altra. Siamo sedute per terra, sopra uno dei fogli di carta giganti che uso per scrivere e fare schizzi mentre lavoro. Lei si è svegliata da poco, ed è arrivata sgambettando da me con la faccia tutta assonnata. Ho smesso subito di studiare per raccontarle questa storia. L'avrà sentita mille volte! Ma ogni volta ascolta tutta intenta e alla fine rimane per un po' a fissare la ciambella, divertita e curiosa. Le piace guardare le mie grandi carte srotolate, sempre piene di disegni di ciambelle. Con le ciambelle io faccio matematica, ma lei non può saperlo, e per ora crede che io sia una pittrice: "Mamma sta dipingendo di nuovo!" esclama ogni volta, tutta contenta.

Ho sempre amato inventare storie, che all'inizio non parlavano certo di ciambelle. Durante la mia infanzia, in Iran, immaginavo ragazzine come me che compivano grandi imprese. Vivevo per leggere: leggevo tutto quello che mi capitava tra le mani. Con un papà ingegnere, tre fratelli di età diverse e una mamma molto attenta alla nostra educazione, trovare dei libri non era un problema. A Teheran, di fronte alla mia scuola media, c'era una libreria dove andavo sempre con Roya, la mia amica del cuore, che oggi è una matematica come me. Il proprietario non ci lasciava sfogliare i libri prima di comprarli, quindi li sceglievamo praticamente a caso. L'importante era avere sempre a disposizione una nuova storia, pronta per essere vissuta attraverso le pagine di un libro. Come divorai la storia della vita di Van Gogh!

Alla fine degli anni Ottanta la guerra tra Iran e Iraq era appena finita, e per due ragazzine come noi la vita sembrava piena di opportunità. Eravamo riuscite a entrare in una scuola gestita nientemeno che dall'Organizzazione nazionale iraniana per lo sviluppo di eccezionali talenti. Ma... altro che talento! In prima media la mia insegnante di matematica in me, di talento, non ne vedeva proprio. A quell'età il giudizio degli altri è tutto, e io mi convinsi di non essere brava. L'anno seguente, invece, accadde una specie di magia. Arrivò una nuova professoressa che seppe coinvolgermi e incoraggiarmi, e i miei voti migliorarono.

In realtà, la prima persona che seppe suscitare il mio interesse per la matematica fu mio fratello maggiore. Un giorno mi raccontò una storia. Riguardava il matematico tedesco Friedrich Gauss. Credo che sia il mio primo ricordo matematico in assoluto.

"Gauss era alle elementari," aveva esordito mio fratello. "Un giorno un maestro molto severo, per tener buoni gli alunni, assegnò alla classe un compito noiosissimo: sommare i primi cento numeri."

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LAURA CONTI


Il veleno che fece nascere l'ecologia

"Guardate, guardate lassù!"

Fabrizio era al bar, come ogni sabato, a godersi la giornata di riposo. Faceva caldo, l'aria era afosa, solo ogni tanto un po' di vento regalava un attimo di tregua. Ma a lui, emigrato dal Sud, quel caldo non dava fastidio, c'era abituato. Né aveva mai pensato di andarsene al mare o in montagna nei sabati di riposo dai turni di fabbrica. Le vacanze erano solo per i signori, non certo per gli operai come lui.

Quel giorno se lo sarebbe ricordato per tutta la vita. Era il 10 luglio del 1976.

I pochi clienti del bar alzarono gli occhi al cielo. Enormi nuvole avevano oscurato il sole all'improvviso.

"Mica sarà un incendio?" chiese qualcuno.

"Ma no, non vedi che le nuvole sono gialle?"

"Macché gialle, sono rosa."

"No, sono grigie!"

Venivano da Meda, il paese vicino, dove Fabrizio andava ogni giorno a lavorare. La casa invece l'aveva trovata a Seveso. Non proprio una casa. Aveva preso in affitto una stanza da una famiglia di suoi compaesani del Sud, anche loro emigranti per necessità.

Proprio in quel momento arrivò di corsa il vigile che a Seveso dirigeva il traffico. Era agitato, rosso in faccia. Il sudore gli colava sulla divisa.

"È successo qualcosa alla fabbrica dei profumi."

La fabbrica era l'ICMESA, proprio dove lavorava Fabrizio. La chiamavano così perché produceva una sostanza che serviva a fare i profumi, anche se spesso era più la puzza che spargeva nell'aria che il buon odore.

"Com'è possibile? Un incidente? E per di più di sabato quando in fabbrica non si lavora!"

"Al lavoro ci sono solo quelli della manutenzione degli impianti. È successo qualcosa a uno dei reattori..." riferì il vigile.

Fabrizio non ci voleva credere.

La fabbrica era vecchia e malmessa, con i mattoni a vista e grandi vetrate; ci lavoravano in 160 lì dentro, ma mai aveva pensato che si potesse verificare un incidente, soprattutto quando la produzione era ferma.

"C'è stata una fuga di sostanze chimiche."

Fabrizio rimase in silenzio.

"Va beh, passerà. L'importante è che non si sia fatto male qualcuno," rispose uno degli anziani seduto al bar, riprendendo a giocare a carte.

"No, niente morti." Il vigile urbano era un po' avvilito. Nessuno aveva dato importanza alla notizia, solo Fabrizio perché in quella fabbrica ci lavorava.

Fu proprio Fabrizio a chiamarmi per avvisarmi di quello che era successo. L'avevo conosciuto a un'assemblea sindacale tempo prima e non ci eravamo mai persi di vista del tutto.

"Laura, è successo qualcosa di grave, devi venire a Seveso." Fu così che seppi che dalla fabbrica dei profumi, alle ore 12,37 di quel sabato, era uscita una sostanza super tossica, la diossina, che si era diffusa nell'aria, silenziosa e invisibile, spargendo veleno su tutto ciò che incontrava: persone, animali, piante. Pochi la conoscevano e ancor meno conoscevano i danni che può provocare agli esseri viventi e all'ambiente.

Io, in quegli anni, avevo affiancato alla mia attività di medico l'impegno politico come consigliera regionale della Lombardia. L'incidente si era prodotto sul "mio" territorio, nella Brianza delle fabbriche e degli artigiani, a qualche decina di chilometri da Milano, dove vivevo. Il vento aveva spinto la nube velenosa partita da Meda verso altri paesi: Cesano Maderno, Desio, soprattutto Seveso, che sembrava il più colpito.

"Parto subito," rassicurai Fabrizio.

Le notizie, dopo l'incidente, arrivarono all'inizio con il contagocce, poi più numerose ma sempre confuse. Da medico e attivista ambientale ero abituata a ragionare sui dati. Ma di dati dai paesi della nube tossica ne arrivavano ben pochi.

Ero molto preoccupata.

A Seveso ci rimasi a lungo, a capire, a denunciare, a convincere, a protestare, a riflettere sul grave rischio ecologico che quella fuoriuscita aveva provocato.

Seveso, la sua nube, i suoi veleni diventarono la battaglia che occupava giorno e notte i miei pensieri e le mie azioni.

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