Copertina
Autore Domenico Demarco
Titolo Economia e intellettualità nell'Italia contemporanea (secc. XV-XX)
EdizioneESI, Napoli, 2005 , pag. XII+324, ill., cop.fle., dim. 130x210x18 mm , Isbn 978-88-495-1128-4
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe sociologia , universita' , libri , storia economica
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Indice

Prefazione                                                IX

I - La struttura economico-sociale del Mugello
    nei secoli XV-XVI e la poesia rusticana                1

    1. Fonti e bibliografia, p. 1.
    2. La regione: caratteri generali, p. 4.
    3. L'evoluzione demografica, p. 6.
    4. La struttura sociale, p. 15.
    5. La proprietà fondiaria, p. 17.
    6. Le forme di conduzione della terra, p. 31.
    7. Le colture principali, p. 32.
    8. Conclusione, p. 35.
    Discussione, p. 36.

II - Le origini economico-sociali del «Viaggio
     elettorale» di Francesco De Sanctis                  41

    1. Le condizioni socio-economiche dell'Irpinia
       al tempo di De Sanctis, p. 41.
    2. Il «Viaggio elettorale», p. 59.
    3. L'economia irpina negli anni 1880, p. 80.
    Appendice, p. 91.

III - Cinquant'anni dopo. L'Iri: ieri, oggi.
      Viaggio nella pubblicistica celebrativa            101

    1. L'arretratezza economica italiana e l'erogazione
       del credito, p. 102.
    2. Le partecipazioni statali prima della istituzione
       dell'Iri, p. 104.
    3. La nascita dell'Iri, p. 106.
    4. La riforma del 1937, p. 112.
    5. La condotta dell'Iri fino al 1943, p. 112.
    6. L'Iri e la ricostruzione, p. 114.
    7. La vita dell'Iri minacciata.
       La riforma del 1948, p. 115.
    8. Il successo dell'Iri, p. 119.
    9. L'Iri e la costituzione del sistema delle
       partecipazioni statali, p. 120.
    10. La deformazione dell'Iri. La crisi, p. 123.
    11. Le cause della crisi, p. 134.
    12. La calda estate dell'Iri, p. 143.
    13. Le vie del risanamento, p. 151.
    14. La condizione attuale dell'Iri un anno dopo:
        marzo 1984, p. 154.
    15. Statizzazione, nazionalizzazione, partecipazioni
        statali, p. 156.
    16. Conclusione, p. 158.

IV - L'evoluzione del concetto di biblioteca:
     la biblioteca pubblica e la sua missione sociale    161

    1. La biblioteca come conservazione della conoscenza
       umana, p. 161.
    2. L'evoluzione storica della struttura e
       del concetto di biblioteca, p. 162.
    3. L'avanzata della biblioteca pubblica, p. 165.
    4. La nuova nozione di biblioteca per tutti, p. 172.
    Conclusione del Relatore Prof. Domenico Demarco, p. 180.

V - Le biblioteche universitarie napoletane:
    critiche e proposte                                  187


VI - Nel cinquantenario della Facoltà di Economia e
     Commercio di Napoli: 1936-1986.

     Contributo alla storia dell'Università italiana     199
    1. Le origini della Facoltà e le principali vicende,
       p. 199.
    2. Gli insegnamenti, p. 221.
    3. Le attrezzature della Facoltà, p. 227.
    Documenti, p. 232.

Indice dei nomi                                          319


 

 

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Pagina 41

II
LE ORIGINI ECONOMICO-SOCIALI
DEL «VIAGGIO ELETTORALE»
DI FRANCESCO DE SANCTIS
[1978]



1. Le condizioni socio-economiche dell'Irpinia al tempo di De Sanctis

Agricoltori, piccoli proprietari, contadini. — Il Viaggio elettorale è una delle opere più note del De Sanctis ed appartiene alla «tradizione romantica dei viaggi sentimentali ed umoristici» del secolo scorso. Il suo contenuto narra la «vicenda di un uomo impegnato a fondo nel microcosmo politico della contesa elettorale paesana», alla quale vuole «adeguarsi per affrontarla e riportare la vittoria». Non mi pare però che quelle pagine, ancora seducenti, a giudicare dal successo di una recente ristampa (curata da Gilberto Finzi), siano state calate nell'ambiente socio-economico di cui pure, in notevole misura, sono il riverbero. De Sanctis — ha osservato Benedetto Croce — «aveva da natura e da continuato esercizio a penetrare in quelli che sono i problemi dell'anima e delle società umane». Ed è proprio un abbozzo di quell'ambiente che mi propongo di dare.

Al tempo del De Sanctis il paesaggio agrario della provincia di Avellino era molto meno omogeneo di quello odierno. Esso si scindeva in due grandi zone agrarie: una coltura intensiva, che comprendeva i comuni dei circondari di Avellino, Ariano e Sant'Angelo dei Lombardi, a sinistra e a destra dei fiumi Ofanto ed Ufita; e l'altra ad economia agricolo-pastorale, che con la messa a coltura dei beni demaniali «quotizzati» si andava convertendo in economia agricola, ed includeva i restanti comuni dei circondari di Ariano e di Sant'Angelo dei Lombardi.

La politica economica dei Borboni aveva fatto spicco per l'accentramento amministrativo, la divisione tra città e campagna, il protezionismo industriale. Questo aveva recato la concentrazione della spesa pubblica a Napoli, l'impianto di grandi industrie nella capitale e in poche province privilegiate, l'isolamento di quelle non favorite dalla costruzione di strade ordinarie, tra cui il Principato Ulteriore (come si chiamava la provincia di Avellino). La produzione agricola, costituita da grano, vino, nocciuole e castagne, era destinata al consumo locale, e la esportazione di alcuni di questi prodotti era dovuta ai consumi ridotti. Le leggi eversive della feudalità, con l'abolizione degli usi civici, e la conseguente riduzione del terreno messo a pascolo, avevano ridotto la pastorizia nomade a favore della stabulare; e se la spartizione delle terre demaniali aveva giovato ai nuovi acquirenti aveva logorato le condizioni materiali del popolo minuto dei piccoli comuni, privandolo del godimento dei diritti promiscui. «La restrizione dei capitali», per usare la espressione di uno dei maggiori studiosi dell'economia irpina del tempo F. Cassitto, e i bisogni dei contadini hanno generato l'usura, che i «trafficanti», ossia gli usurai, praticano ad un saggio d'interesse che tocca in certi periodi dell'anno il 50 per cento. Inadeguato è il credito agrario dagli 80 monti della provincia.

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Pagina 59

2. Il «Viaggio elettorale»

I contatti politici di De Sanctis con l'Irpinia prima del 1875. — In questo ambiente socio-economico va considerato il Viaggio elettorale del De Sanctis, compiuto nel 1875. Per la verità, i suoi contatti politici con la provincia di Avellino rimontavano a parecchi anni innanzi. Il primo è del 1848, allorché convocati i comizi elettorali, egli decise di presentarsi nel collegio di Sant'Angelo dei Lombardi. Allora, scrive al padre. «Cercate di procurarv[i] e di spander[e], di diffondere il Discorso ai giovani» — che egli ha tenuto a Napoli il 18 febbraio, dichiarazione della sua fede politica — «io ho bisogno di essere conosciuto, e cotesti signori hanno bisogno di essere illuminati sui loro veri interessi». In attesa di recarsi di persona in provincia, affida la propagazione ai familiari e ad alcuni amici: «Povero distretto, — scrive — in cui fa ancora impressione l'essere Principe di Teora o l'essere Cavaliere Cappa! L'ambizione in questo caso è un dovere ed io ho l'ambizione di saper meglio di costoro servire il mio paese». Ma l'esito delle elezioni fu meschino.

Dodici anni più tardi, dopo l'ingresso in Napoli di Garibaldi, tornato in patria da Zurigo, De Sanctis è nominato governatore dell'Irpinia dove s'insedia il 12 settembre 1860. «Lavoro con la consolazione di far molti felici, adorato soprattutto dalla bassa gente», scrive a Matilde Wesendonck. «Sono in un paese profondamente concitato e violento, in preda a moti sanguinarii di contadini ignoranti, dove si viene facilmente alle fucilate». «Se sapessi in che babilonia ho trovato la provincia!» — confida a Camillo De Meis, il 24 settembre. «Che contraddizioni di poteri! che barriera burocratica! che oscitanza e malafede d'impiegati!» «Dappertutto un odore di ladri che spaventa!».

Come governatore deve preparare il voto per il plebiscito del 21 ottobre nella sua provincia. Il proclama al popolo irpino del 16 ottobre, «frutto della sua nuova e concreta esperienza», è anche un'amara costatazione delle condizioni sociali di quelle popolazioni e una promessa di riscatto: Votare pel no (ecco il contenuto del proclama) significa «votare per l'ignoranza», per la «povertà», per l'«arbitrio dall'alto sino al basso», per il «governo delle bastonate». «Il governo borbonico aveva detto: facciamo questo popolo ignorante, povero e corrotto. Un popolo ignorante non ragiona, ma ubbidisce. Un popolo povero pensa al pane e lascia fare a noi»; votare pel si vuol dire «votare per l'istruzione», per la «ricchezza», per «l'indipendenza e la grandezza della patria», per la «libertà».

Le elezioni del gennaio del '61 segnarono un secondo (e non ultimo) scacco elettorale nella sua terra. De Sanctis presentò la candidatura in due collegi dell'Irpinia — Sant'Angelo dei Lombardi e Lacedonia, di cui Morra, suo paese natale, faceva parte — e in uno della Campania, Sessa Aurunca. Riuscì solo a Sessa. Il manifesto-programma agli elettori di Sessa del settembre 1865, in occasione delle elezioni generali, ci dà la misura e il nucleo dei suo riformismo politico-sociale. «Non ho niente di comune con quelli che si chiamano progressisti e sono rivoluzionari». In politica interna, occorre avere «l'audacia delle serie e grandi riforme». Se non si può ottenere ora il pareggio del bilancio dello stato si può «diminuire il disavanzo». Perciò, propone la riduzione delle «spese superflue», e «ordine» e «moralità» nelle «pubbliche amministrazioni». «Io non posso partecipare le illusioni di quelli che promettono il pareggio con l'aumento delle imposte; perché le imposte hanno un limite nella possibilità de' contribuenti, e quando il limite è oltrepassato, non si colpisce più la rendita, si attacca il capitale e si arresta la produzione». «Ricchezza nazionale e imposte, lo comprendo; povertà nazionale e imposte, non lo comprendo più». Perciò occorre sgravare il più possibile le «basse classi», porre un limite ai centesimi addizionali, cancellare le esenzioni ingiuste e rispettare la giustizia distributiva, «legge uguale per tutti giustizia per tutti e pagheremo senza mormorare le imposte». E, inoltre, bisogna «sopprimere le corporazioni religiose, secolarizzare l'insegnamento, convertire i beni di mano morta, e destinarne parte a' comuni pel culto, la beneficenza e l'istruzione, riformare il pubblico insegnamento e l'organico giudiziario, distruggere tutti gli avanzi feudali», promuovere, insomma, «la trasformazione economica, intellettuale e morale del paese». L'esito delle elezioni è per lui sfavorevole. Ma il risultato generale era positivo. La sinistra uscita molto rafforzata dalle urne era la sinistra costituzionale da lui auspicata e arricchita da quei «novi homines» che egli aveva contribuito a chiamare a raccolta. «Ventidue deputati nuovi fiore di onestà e patriottismo» è il «frutto» del nostro «lavoro», scriveva a B. Ricasoli. Ora ««bisogna serrar le file [...] non temo la rivoluzione, temo la reazione e contro questa dobbiamo star tutti armati». Il voto del Mezzogiorno gli era chiaro: «Il malcontento nelle province è profondo, l'opposizione al governo è generale». In quelle elezioni, scrive il Croce, proruppe «il malessere economico del Mezzogiorno», e «non prese forma di rivolta o protesta regionale, ma di disfavore a un partito governante e di favore a un altro, che prometteva miglior governo e grandi benefici a tutti gli italiani». Solo nel maggio del '67 potrà tornare alla Camera, ma come deputato di Sansevero, per le dimissioni da quel collegio del deputato di estrema sinistra Luigi Zuppetta. La «Gazzetta d'Italia» aveva incluso De Sanctis nella propria lista di 171 cittadini da non votare.

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Pagina 161

IV
L'EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI BIBLIOTECA:
LA BIBLIOTECA PUBBLICA
E LA SUA MISSIONE SOCIALE
[1971]



1. La biblioteca come conservazione della conoscenza umana

«La conservazione delle conoscenze umane», nelle sue forme scritte, — manoscritto, libro, rivista, giornale, — col tempo e coll'aumento della produzione, pone dei «problemi difficili». Che essi non siano risolti, ci sono delle cause che lo spiegano. Che meritino di essere risolti, non tutti sono stati sempre d'accordo. Voltaire, di formazione classica, parlando della biblioteca reale, la definiva «una delle più nobili istituzioni. E non c'era spesa tanto magnifica e più utile». Ma i romantici hanno spesso nutrito una segreta ostilità nei confronti di quella forma di custodia del sapere umano che sono le biblioteche. Ancora Rimbaud delle Assis esprimeva questa ostilità, con virulenza, nei versi: «Amo un libro, ma odio una biblioteca», «alcove di libri tarlati, cari ai buoni uomini calvi». Periodicamente, spiriti che pretendono guardare verso l'avvenire, contestano che la civilità non possa mantenersi senza memoria, senza una veduta esatta e precisa del suo passato, senza i mezzi di riportarvisi con facilità e certezza. Ma già Renan ne stigmatizzava la loro angustia: «Tutto ciò che appartiene al passato è serio», egli scriveva. E, nei Dialogues philosophiques, aggiungeva: «Non c'è verità che non provenga, immediatamente o non, da un laboratorio o da una biblioteca». Questo non è vero soltanto per le scienze del «passato», perchè nel campo delle scienze esatte e applicate nessuno «contesta al libro e al periodico un posto eminente»: legame sicuro e permanente tra gli studiosi nel tempo e nello spazio. La ricerca creatrice ha bisogno, a lato dei laboratori, delle biblioteche.


2. L'evoluzione storica della struttura e del concetto di biblioteca

A parte le eccezioni ricordate, non c'è dubbio che la maggioranza degli uomini si è mostrata incline alla creazione di quei meravigliosi conservatori del patrimonio intellettuale dell'umanità che sono le biblioteche. Θ anche naturale, però, che da quando ci sono degli uomini che leggono, la nozione di biblioteca abbia conosciuto fasi diverse, e che continuò ad evolvere adattandosi ai tempi. I popoli antichi d'Oriente, gli Assiri e gli Egiziani, sembrano «non aver conosciuto che biblioteche religiose e il loro concetto di biblioteca si confondeva con quello di archivio»; un pubblico, anche ristretto, non era ammesso a consultare quei libri, «riservati a officianti e commentatori». Con i Greci, si ha una evoluzione. La biblioteca di Pergamo, quella di Alessandria furono «conservatori di testi profani e organi di diffusione del pensiero, senza che noi sappiamo chiaramente se erano riservate ai soli studiosi o a un pubblico più largo». Si trattava, ad ogni modo, di istituzioni di stato, e il loro «bilancio dipendenva dalle finanze pubbliche o dalla cassetta privata del sovrano». A Roma, dopo il primo secolo avanti Cristo, si ebbero delle biblioteche pubbliche, che «prestavano» anche «libri ai privati». Ma, se conoscessimo i cataloghi, saremmo sorpresi del piccolo numero di opere che racchiudevano: il sistema del volumen, ossia dei rotoli di papiri era ingombrante. «Più diffuse furono nell'antichità greca e romana le biblioteche private». Quella di Aristotele fu celebre per la sua ampiezza, e gli scavi di Ercolano hanno mostrato ciò che poteva essere, nel primo secolo della nostra era, la biblioteca di un filosofo oscuro installata, in una casa di campagna, alle pendici del Vesuvio.

La «civiltà bizantina continuò in oriente le tradizioni greche, senza apportarvi, per molto tempo, modificazioni essenziali». In occidente, è la «chiesa che con il monachesimo rialza la civiltà latina, glorificando il suo Dio nella lingua di Virgilio, e realizzando, ben avanti Cassiodoro, nelle sue biblioteche, quel miscuglio di profano e di sacro che caratterizzò il medioevo in tutti i paesi di occidente». Le biblioteche monastiche, che per molto tempo permetteranno, almeno a una élite, di «abbeverarsi alle sorgenti della scienza antica e della fede cristiana», erano delle collezioni essenzialmente private, che ebbero la parte che avranno di nuovo certe biblioteche, a partire dalla Rinascenza, quella cioè di «istituzioni pubbliche». Ma esse erano riservate quasi unicamente ai bisogni del culto e alla curiosità dei chierici letterati. L'aspetto nuovo del libro — il codex e non più il volumen — induceva all'impiego di mobili adatti alle circostanze mutate: e cioè armadi e pulpiti, in cui i libri poggiati di piatto, spesso incatenati, erano affidati ad uno specialista, in pari tempo, «conservatore della libreria» e «capo dello scriptorium». Di questi libri «confezionati sul posto, acquistati, donati, lasciati in legato o scambiati, provvisti di segnature, furono istituiti dei cataloghi, talora dei cataloghi collettivi»: alla fine del XIV secolo, i francescani inglesi fanno compilare un catalogo generale dei libri posseduti dai conventi dell'ordine in Inghilterra. «A partire dal XII e sopratutto dal XIII secolo, i laici fanno concorrenza agli ecclesiastici sul terreno della conoscenza». Con le «Università», si creano un po' da per tutto «organismi vigorosi d'insegnamento con la parola, ma anche con la lettura». Le letterature nazionali si sviluppano, e invitano alla lettura «gran numero di amatori». Le nuove classi sociali che si formano favoriscono le traduzioni di opere antiche e la creazione di opere moderne. «Θ l'epoca delle librerie reali e principesche». «I papi di Avignone ne danno l'esempio». «Anche se essi inventano a generalizzano un mezzo di arricchimento ingegnoso»: il diritto di spoglio, per il quale «ogni libro trovato nei bagagli di un prelato morente alla corte pontificia entrerà d'ufficio nella loro biblioteca». Ecco la parte che ha il caso nella costituzione di queste librerie principesche. E a un grande umanista, Petrarca, cui si fa generalmente «l'onore di una idea che ha fatto il suo cammino», quella di una biblioteca laica, pubblica e metodica». «La Marciana di Firenze, dovuta a Cosimo dei Medici, ne è senza dubbio la prima realizzazione».

La stampa, con la gran quantità di libri che getta sul mercato, «obbliga a riconsiderare la questione delle biblioteche». Perchè esse abbiano, d'ora innanzi, qualche possibilità di custodire anche soltanto il fiore del sapere umano, occorre che dispongano di locali vasti, di mezzi finanziari poderosi, ma anche che guadagnino la maggior parte di spazio possibile, disponendo i libri non più di piatto, ma di taglio, accosti l'uno all'altro. «Le circostanze politiche in Europa almeno, aiutano la trastormazione». In Francia, in Inghilterra, in Germania, la Riforma porta al «declino delle biblioteche ecclesiastiche, a vantaggio di quelle sovvenzionate dalle città e dai principi». Alcuni di essi mettono in pratica «un modo nuovo di acquisizione dei libri: il deposito legale». Le biblioteche si organizzano, per secondare un pubblico nella lettura, di quello che gli aggrada, in un certo luogo, in tale giorno, in certe ore. La biblioteca Angelica a Roma, la Mazzarino a Parigi, l' Ambrosiana a Milano, la biblioteca del duca di Brunswich a Wolfenbόttel sono le prime in Europa a permettere al pubblico di consultarne i cataloghi, e di servirsi dei loro libri a giorni e ad ore prestabiliti. Questa tendenza verso l'accentramento dovuta allo sviluppo delle città, si alimenta in Francia, alla fine del XVIII secolo, e più tardi in altri paesi, delle «copiose confische di collezioni private, soprattutto ecclesiastiche». D'un colpo, le antiche librerie reali, divenute Biblioteche Nazionali, videro affluirvi un patrimonio librario immenso. Magazzini sovraccarichi, cataloghi imponenti, sale di studio cattedrali, ma insufficienti ad accogliere i lettori aumentati, mostreranno, dopo alcune decadi, l'incapacità di digerirlo. Le biblioteche nazionali o di stato crollano sotto il «peso delle loro ricchezze», l'abbondanza dello stampato, il deposito obbligatorio, l'ingorgo dei servizi di acquisto. Di qui, il problema di come dovesse essere distribuito il «cibo intellettuale», nelle migliori condizioni possibili per tutti i cittadini, con minore spesa per la collettività. La «prima necessità era di sgravare le biblioteche di stato a beneficio delle biblioteche speciali», evitando il loro frazionamento eccessivo, «pericolo peggiore» di quello «dell'accentramento ad oltranza». E in «questa strada che si sono impegnati la maggior parte dei paesi del mondo».


3. L'avanzata della biblioteca pubblica

Così ci si è trovati ad avere tre categorie di biblioteche: a) le biblioteche pubbliche nelle loro diverse forme; b) le biblioteche degli istituti universitari e di accademie, le quali non ammettono, in linea di principio, come lettori, che professori e studenti, o i soci dei sodalizi, presso i quali sorsero; c) le biblioteche speciali in varie incarnazioni: industriali, tecniche, religiose, ministeriali, dei grandi organismi dello stato (Senato, camera dei deputati, consiglio di stato) — e i centri di documentazione. Θ al primo gruppo, alle biblioteche pubbliche che il nostro discorso sarà limitato d'ora in poi.

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Pagina 178

E vengo al secondo motivo. Un tempo, il bibliotecario era considerato soprattutto come un conservatore di libri, ma oggi, senza cessare di esserlo, deve occuparsi del loro godimento, e questo conflitto, tra le esigenze della conservazione e quelle della comunicazione dei libri, si fa maggiormente sentire nelle biblioteche italiane, il cui ammodernamento è lento. Il bibliotecario deve essere in pari tempo erudito, tecnico, educatore e uomo d'azione.

Egli deve trovare un equilibrio tra la cultura e la tecnica. Non è vero l'aforisma che «il bibliotecario che legge è perduto», per contro, purus bibliothecarius, purus asinus. In Italia, esistono corsi di biblioteconomia in alcune università, ma non ci sono scuole specializzate come all'estero, e a parte i concorsi imposti dal governo per le biblioteche di stato e per alcuni organismi locali per le biblioteche comunali e provinciali, ben spesso l'ufficio di bibliotecario è assegnato senza alcuna garanzia di preparazione sufficiente. Da noi, è ancora diffusa l'opinione che colui il quale ha delle conoscenze letterarie e un po' di flair livresque può adattarsi al mestiere di bibliotecario, di qui molte biblioteche, soprattutto le specializzate, sono prive di personale qualificato. Non vorrei essere stato troppo severo. Ma, sono convinto che parlandone i cambiamenti si compiono. E d'altronde, sono le considerazioni che si possono ricavare anche dalla lettura del libro di Francesco Barbieri, Biblioteca e bibliotecario, una raccolta di scritti pubblicati dall'autore negli ultimi venti anni, e ben noti ai lettori della rivista Accademie e Biblioteche d'Italia, in cui egli attira, ancora una volta, l'attenzione dell'opinione pubblica su «questa Italia che non legge» (sono sue parole), e sulla necessità di promuovere l'interesse per le biblioteche.

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