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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione, di Gad Lerner 15 Alla scoperta delle Indie di quassù 23 1. La maschera di Bossi La voce della rivolta, 23; Il buffone dei giornalisti, 31; La politica fai da te, 42; Bossi e i suoi cloni, 50; Il fascino speculare di Bossi sulle masse, 54; Il partito antisistema, 62; Il cuore pulsante della Lega vacilla, 69 78 2. L'Italia alla rovescia Il Giuramento di Pontida, 78; Il rovesciamento padano, 83; Primo dialogo tra sordi, 91; Lo stato "coloniale" di Roma, 97; La nascita dell'antinazione, 105; La parodia delle istituzioni, 111 121 3. La prepotenza della semplicità Rompere il "circolo vizioso dell'arroganza", 122; La folclorizzazione dell'espressione politica, 138; Volgarità e violenza, 143; L'imbroglio mediatico, 148; Esternazioni e trasgressione, 156 164 4. La caccia al "bingo bongo" Nessuna psicosi sull'immigrazione!, 164; Prima fiaccolata, 179; Dalle gradinate dello stadio alle poltrone del consiglio comunale, 188; Il domino dei bistrattati, 193 201 5. Il riscatto del profondo Nord Come i bergamaschi hanno fatto e disfatto l'Italia, 202; L'autonomismo nordista, 210; Maschere e localismi, 217; L'onorevole al mare in ciabatte, 229 241 Conclusioni 249 Note 263 Bibliografia selezionata |
| << | < | > | >> |Pagina 15Alla fine degli anni ottanta gli elettori lombardi hanno punito la prepotenza e la corruzione della classe politica votando per la Lega Nord. L'inesperienza e l'irruenza del leader del Carroccio hanno sedotto cittadini delusi, inizialmente lontani dalle idee autonomiste, ma infiammati da ardori localisti. L'idiozia politica di Umberto Bossi è stata la chiave del suo successo. Nei confronti di chi li governa gli italiani hanno un atteggiamento di disincanto e di distacco, che denota un rapporto molto particolare con la dimensione politica. In tale contesto il gioco dell'idiozia risulta terribilmente efficace poiché, pur generando un'inevitabile disapprovazione, suscita una forma di divertita indulgenza. "Buffone! Buffone!" gridano spesso i contromanifestanti a Bossi, quando sale sul palco per arringare i "suoi". L'uso di questa espressione offensiva non è affatto casuale. In effetti, i comportamenti del leader della Lega somigliano a quelli del buffone di corte: Bossi è il giullare che non rispetta niente e nessuno, nemmeno il papa; può dire tutto poiché viene ritenuto non responsabile delle proprie affermazioni e, in genere, i suoi attacchi sono particolarmente irriverenti perché indirizzati verso temi o persone che godono di rispetto. Come il tradizionale buffone, Bossi opera sul registro dell'ambiguità. Il suo obiettivo fondamentale è insinuare il dubbio in chi ascolta, impedendogli di cogliere i veri fini e la natura del suo discorso, per poterlo circuire meglio. Nella sua autobiografia ha spiegato l'atteggiamento adottato nei confronti degli avversari politici quando è stato eletto al Senato nel 1987: "Voglio che stiano alla larga da me, che non mi prendano troppo sul serio, che non sappiano mai se sto scherzando o se sto dicendo quello che penso". Questa ambiguità è la chiave dell'irresponsabilità assoluta, che permette al buffone di esprimere le proprie idee senza incorrere in sanzioni. La "strategia" comunicativa del leader della Lega Nord corrisponde alle tradizionali modalità d'azione dei personaggi della Commedia dell'arte. Con lui la pratica politica perde qualsiasi significato, si riduce a una serie di effetti prodotti da dichiarazioni, minacce, pernacchie, promesse tanto inopinate quanto impossibili da mantenere: si tratta essenzialmente di spettacolo. Anche se le dichiarazioni di Jean-Marie Le Pen rievocano talvolta le provocazioni del leader della Lega, i francesi non ridono di Le Pen come fanno gli italiani di Bossi, poiché quest'ultimo non incute alcun timore, suscita solo compassione. Peraltro, dopo il 2004, quando il segretario del Carroccio è rimasto vittima di un ictus, questa dimensione si è rafforzata al punto da inibire gli attacchi alla sua persona. Il politico rappresentato spesso dai media come un pazzo più o meno pericoloso oggi è un uomo fisicamente segnato e indebolito, di cui si sorride con indulgenza. Com'è noto a tutti, le disgrazie della vita producono un senso di imbarazzo. Nondimeno, il divario tra l'immagine pubblica di Umberto Bossi e il suo potere effettivo è piuttosto insolito per un politico che ha fatto della forza l'elemento preponderante della sua propaganda. Questo libro cerca di rispondere a diverse questioni relative alla sua figura: come può una persona che detiene il potere essere tanto ignorante quanto irresponsabile? E che cosa comporta questo in termini di rappresentazione politica? Peraltro, si tratta di un fenomeno non circoscritto unicamente alla situazione italiana: George W. Bush è stato ridicolizzato in tutto il pianeta per la sua idiozia nel corso dei suoi due mandati presidenziali. Ci troviamo forse di fronte ai sintomi di un provincialismo che si sta progressivamente facendo largo in Europa e negli Usa, poiché l'Occidente non è in grado di reggere le conseguenze della globalizzazione di cui pure è stato promotore? L'uso della parola "idiota" impone qualche precisazione. Idiota, in senso etimologico, significa "uomo del luogo" ed è un termine la cui radice greca vuol dire "particolare". Per gli antichi greci idiota era colui che non aveva accesso alla dimensione universale, quello che viveva ancora nella caverna, o meglio, nella sua caverna. Secondo gli ateniesi, i più stupidi erano i loro vicini più prossimi, quelli che abitavano ai margini della polis. Il termine fu appositamente coniato per definire quei soggetti, tuttavia gli ateniesi sapevano di avere degli "idioti" anche all'interno della loro città: i cinici. Idiota è dunque il soggetto votato alla più irriducibile autoctonia e al ripiego identitario. Quando un simile soggetto valica i confini del proprio universo culturale, si comporta spesso in modo improprio e grottesco. Preso singolarmente o all'interno della cerchia più o meno ampia dei familiari, nessuno è idiota; i problemi cominciano fuori, quando si passa da un universo simbolico noto a un universo poco, o per nulla, conosciuto. Quando mancano i codici che governano questi mondi, si adottano comportamenti che risultano sconvenienti, se non addirittura fuori luogo. In un certo senso la dimensione dell'idiozia ci riguarda un po' tutti. Entrando in contatto con mondi e universi diversi dal suo, l'antropologo ne fa addirittura una professione; la sua abilità dipende proprio dalla capacità di uscirne. Al contempo è "misurandosi con la propria idiozia" che riesce a cogliere il suo oggetto di studio. Di fronte alla nostra idiozia possiamo adottare due atteggiamenti: possiamo ridurla mostrando empatia nei confronti degli altri, oppure possiamo "fare gli idioti", chiudendoci in noi stessi, contro tutti e contro qualsiasi sollecitazione proveniente dall'esterno. La scelta del concetto di idiozia si è imposta nel corso del mio lavoro di ricerca. Per realizzare l'inchiesta etnografica di cui si rende conto in questo libro, mi è stato necessario scegliere di frequentare un anello specifico della struttura partitica della Lega Nord. Considerato il radicamento elettorale leghista nella dimensione provinciale, mi è sembrato interessante condurre l'inchiesta in uno dei suoi feudi prealpini: la provincia di Bergamo. Come ha sostenuto fin dal 1993 Ilvo Diamanti, l'ideologia leghista tende a diffondersi dalle Prealpi verso la Pianura padana. In questa specifica configurazione elettorale, la provincia di Bergamo costituisce uno dei punti di maggiore diffusione del leghismo. Per la stampa italiana è da quel territorio che "calano i barbari", mentre per i militanti è la provincia in cui la Lega ottiene generalmente i migliori risultati elettorali, la sua "roccaforte". La Bergamasca è una delle zone più produttive d'Italia. La sua realtà sociale è fortemente contraddittoria e somiglia a quella del Nord-Est: è molto ricca e dinamica, ma ha uno dei più elevati tassi di analfabetismo in Italia. I bergamaschi si definiscono "gente che lavora", poco interessata alla politica, perciò non vanno a votare, oppure votano Lega. La disaffezione è tale che alcuni comuni delle Valli fanno fatica a mettere in piedi una lista civica, altri non ci riescono e vengono commissariati. Questo rapporto con la politica è sorprendente poiché, al contempo, si registra una forte partecipazione alla vita sociale attraverso forme del volontariato di matrice cattolica (ma non solo). La Lega procede sui passi della depoliticizzazione di massa delineatasi all'indomani del "compromesso storico": ne approfitta per imporsi, ma al tempo stesso ne soffre, come gli altri partiti, quando non riesce a formare una lista per mancanza di candidati. Di frequente le stesse persone con livello superiore di istruzione vengono contattate dai partiti sia di destra sia di sinistra. Il disinteresse, ma anche la mancanza di competenza, per non parlare della scarsità della retribuzione simbolica, tengono spesso i giovani bergamaschi lontani dalla politica. Questa realtà istituzionale profondamente depressa è consustanziale al leghismo, come ha efficacemente messo in luce Vittorio Moioli. Per molti italiani, il voto leghista è espressione dell'idiozia dei cosiddetti "montanari"; la locuzione offensiva "paese idiota", usata dai bergamaschi, è sufficiente a denotare il disprezzo dei cittadini per gli abitanti delle montagne, indica paesi arricchitisi attorno a un'unica attività e chiusi in se stessi. Gli abitanti del posto hanno la sensazione che il loro borgo sia autosufficiente. L'emigrazione è una cosa che appartiene al passato, e i giovani ormai non hanno più bisogno di allontanarsi per trovare lavoro. È raro che vadano a Milano a studiare perché i genitori considerano inutile la possibilità che i loro figli intraprendano un percorso universitario: con una laurea è più difficile trovare lavoro nelle Valli. Interi villaggi si compiacciono così dell'ignoranza del mondo esterno, e "paese idiota" finisce per essere un'espressione che esprime il contrasto tra ricchezza materiale e chiusura degli abitanti. Queste rappresentazioni meritano di essere segnalate poiché non stanno a indicare un'oggettiva condizione biopsichica, il ritardo mentale, comunemente definito come una forma di idiozia, ma l'appartenenza a uno spazio geografico, le Valli dell'arco alpino e, di conseguenza, l'identificazione nel movimento politico che dovrebbe rappresentare questo spazio. L'uso del termine "idiota" assume così una connotazione che avalla lo spostamento semantico da un tratto della persona alla sua appartenenza a un luogo. L'idiozia ha il proprio territorio, si colloca nella geografia elettorale del Nord Italia. I membri della Lega Nord sono ovviamente i primi a essere disgustati da questi stereotipi spregiativi. Giacomo Bianchi, uno dei fondatori del Carroccio, me lo ha fatto capire scherzando: "Lei è antropologa? Per caso, non si sarà interessata alla Lega perché ha visto i bergamaschi intervistati dalla televisione? Ci potrebbe essere un legame... Quando la televisione di stato doveva intervistare qualcuno della Lega, non andava da Bossi o da Calderoli, sceglieva il contadino che non sapeva parlare o uno che si presentava con gli occhi fuori dalle orbite e sembrava una scimmia, no?". In effetti, la stigmatizzazione di cui sono oggetto i leghisti ripropone la tradizionale presa in giro di cui sono vittime le popolazioni delle valli dell'arco alpino. Le problematiche della mia ricerca si concentrano su questa dimensione dell'alterità. In effetti, il senso di appartenenza leghista si alimenta di un complesso da provinciali. Il dialetto bergamasco materializza una "alterità disprezzata" poiché la sua pronuncia fa ridere gli italiani che la collegano con lo stereotipo del contadino settentrionale: il "polentone". Nell'immaginario nazionale i bergamaschi sono lavoratori coraggiosi e onesti fino alla stupidità, gente che si oppone punto per punto agli stereotipi negativi dell'italianità. I cliché costruiti attorno ai tratti salienti della loro identità ne facevano degli "anti-italiani" ben prima che la Padania entrasse nel lessico politico della penisola. Da questo punto di vista, il leghismo è l'espressione politica di una rivincita culturale delle province più periferiche. Oggi la città di Milano è governata dalla gente dei suoi antichi contadi. Il tradizionale rapporto di sudditanza politico-culturale è stato rovesciato. Allo stesso modo, quando Umberto Bossi si pone come difensore della "gente semplice" del Nord contro "Roma ladrona", rielabora i materiali di una specifica cultura popolare dando loro un significato politico inedito. Bossi parte da questa constatazione: "Al Nord il rapporto dare-avere fra regioni e stato è paurosamente sbilanciato a favore di Roma; l'esempio più lampante è la Lombardia che riceve dalla capitale meno di due terzi di quanto versa allo stato. Una rapina legale in piena regola". Il Senatùr dice di aver preso coscienza di un fenomeno che definisce "demenziale": la Democrazia cristiana si garantiva la vittoria di ogni tornata elettorale comprando i voti del Mezzogiorno con le tasse pagate dalla gente del Nord. Il suo obiettivo è porre fine a questo sistema limitando drasticamente i flussi di denaro a favore delle regioni meridionali; a suo avviso, questi soldi servono solo a ingrassare gruppi politico-mafiosi a scapito dei popoli tanto del Nord quanto del Sud. Sostiene dunque di voler rompere con il paese del furto istituzionalizzato: l'"I-taglia", il paese degli "Tagliani". In questo modo il leader della Lega capovolge la storia italiana dicendo che non è il Nord ad aver colonizzato il Sud, come vuole dimostrare la storiografia comunista, ma è il Sud ad aver colonizzato il Nord. I militanti del partito sono convinti di essere vittime di un razzismo imperialista italiano. Bossi ha creato una contrapposizione tra un "noi" ideale (i padani) e un "loro" da respingere (gli "Tagliani"). Il suo discorso è profondamente caricaturale. Si basa su alcuni vecchi antagonismi della società italiana (i conflitti centro/periferia, Nord/Sud, pubblico/privato, società civile/partiti politici), tentando di dar loro una dimensione etnica. Rivolge contro la Dc il discorso anticomunista che quest'ultima proponeva nelle province bianche. Bossi sostiene di condurre la "prima rivoluzione completa nella storia d'Italia". Attacca la "nomenklatura" del "regime" e si scaglia contro il "centralismo partitocratico". Nei suoi discorsi, Bossi accosta continuamente Dc e Pci: in realtà, il suo bersaglio è la Costituzione in quanto frutto delle forze emerse dalla Resistenza. Bossi identifica il modello europeo di stato così come si è delineato durante la Seconda rivoluzione industriale con il modello sovietico. Al conflitto di classe sostituisce il conflitto tra popoli per l'autodeterminazione. Intende collocare la sua azione all'interno di un ampio movimento sociale di portata europea per giustificarne il senso: mentre il comunismo è stato sconfitto dalla storia, il leghismo va dalla parte giusta. Nell'ambito della transizione politica avviata dall'Italia nel 1992 la Lega Nord ha avuto un ruolo chiave nel contribuire ad abbattere il vecchio sistema politico, prima di prefigurare la nuova tipologia di destra interpretata da Silvio Berlusconi. L'emergere del partito del Carroccio è stato letto in Italia come l'ingresso nell'arena politica di una categoria sociale in precedenza esclusa dal dibattito pubblico: i piccoli imprenditori del Nord. I politologi hanno spesso interpretato l'emergere della Lega utilizzando chiavi di lettura economiche, ma a mio avviso tali interpretazioni non esauriscono la realtà di questo fenomeno. Per questo ho cercato di andare oltre, studiando il linguaggio e le modalità di espressione dei rappresentanti di questo partito. Anche l'interpretazione antropologica qui proposta non pretende di descrivere in modo esaustivo la realtà sociale della Lega Nord. Le mie argomentazioni sono il risultato di un lavoro sul campo condotto principalmente nella provincia di Bergamo, benché questo partito sia radicato anche in altre regioni in cui raccoglie difficoltà e istanze differenti. La Lega è un movimento popolare reazionario sorto in alcune province periferiche del Nord prima di conquistare la Pianura padana. Si nutre della cultura popolare italiana e riflette le tendenze operanti nella società civile. Bossi permette di cogliere la dimensione della politica "vista dal basso". La contestazione che promuove (e da cui è a sua volta sostenuto) ci porta a prendere in considerazione le rappresentazioni politiche di coloro che sono di norma esclusi dallo spazio pubblico, di quelli che le élite difficilmente riescono a capire, supponendoli manipolati dai populisti. L'osservazione etnografica ci conduce oltre la semplice constatazione della crisi politica congiunturale: il materiale raccolto dimostra che anche nel nostro universo istituzionale possono emergere modalità che riflettono un altro scenario, un'altra storia. Mi riferisco ai lavori sulla teatralizzazione della dimensione pubblica dell'antropologo Marc Abélès. La mia analisi della sottocultura leghista è di stampo classico. Ho cominciato a studiare il leghismo interessandomi ai suoi riti principali. Ho fatto la mia prima ricerca etnografica a Pontida nella primavera del 1998. Volevo capire le ragioni per cui questo paese fosse diventato un "luogo politico" così importante per i leghisti. La mia curiosità mi ha fatto comprendere due aspetti: la matrice cattolica dell'autonomismo nordista e la dimensione dissacrante del rito leghista. Riesumando il Giuramento di Pontida, cioè il simbolo del Risorgimento dei cattolici lombardi, il leader della Lega Nord ritorna alle fonti della cultura democristiana e ripete emblematicamente l'atto di fondazione nazionale a vantaggio non più dell'Italia, ma della Padania. In tal modo trasforma un rito che unisce in un rito che divide. L'analisi semantica rivela elementi di antistruttura nel senso di Max Gluckman: eccessi, brogli stilistici, spostamenti di senso, mistificazioni. La riattualizzazione leghista ha sicuramente alcune affinità con i "riti di inversione di status" che gli antropologi hanno osservato nelle società esotiche, riti che si ritrovano anche in Europa, legati alle forme folcloristiche del Carnevale. Per cogliere il senso di questo fenomeno contemporaneo mi sono basata su concetti elaborati dagli antropologi africanisti della Scuola di Manchester. Le mie prime conclusioni mi hanno convinta del carattere tutto sommato paradossale dell'operazione leghista: come possono gli indipendentisti padani pensare seriamente di creare un nuovo spazio politico reinterpretando sui toni dell'ironia un antico simbolo nazionale? Una cosa del genere non sarebbe mai venuta in mente agli altri movimenti indipendentisti che pullulano in Europa. A mio avviso, questa propensione al rovesciamento e all'imbroglio è precisamente la chiave dell'azione leghista. Altri antropologi hanno già saputo cogliere il significato di questo modo di agire: non concepiscono soltanto l'imbroglio come esercizio della furbizia in politica, ma anche come modalità d'intervento nell'ordine del simbolico. In questo libro sostengo che le azioni di Umberto Bossi nel loro complesso possono essere interpretate così: l' imbroglio è il suo modo d'agire, crea disordine per riportare l'ordine. A un certo punto la crisi diventa tale che necessita di un'autorità ritrovata. Da questo punto di vista, il rovesciamento rappresenta la furbizia per eccellenza. Come tutti i ricercatori che si occupano della Lega Nord, sono stata accolta piuttosto bene dai membri dell'organizzazione. Per i membri del partito, il mio lavoro d'inchiesta aveva alcuni motivi d'interesse: anzitutto forniva loro un riconoscimento universitario (per di più straniero), potevo dunque far sentire le loro rivendicazioni oltre le Alpi e inoltre potevo fornire informazioni sia sui membri del loro stesso partito, sia su quelli di altri partiti; mi sono dunque trovata in mezzo a uno scambio di notizie. Diversi attori della vita politica locale avevano preso l'abitudine di consultarmi sul morale degli avversari. Questa "lenta impregnazione", tipica del lavoro etnografico - fatta di integrazione e apprendimento di discorsi locali e di diversi punti di vista -, si è rivelata particolarmente utile per cogliere il fenomeno Lega in tutte le sue sfaccettature. In questo quadro, la frequentazione continua imposta dal metodo etnografico risulta nondimeno difficoltosa. Mi è stato necessario stabilire una relazione di fiducia con i membri del partito che, siccome fortemente stigmatizzati, nutrono una diffidenza e un rancore ben comprensibili verso le persone esterne al loro universo di riferimento. Ho cercato di esplicitare queste difficoltà per sviluppare una riflessione sulle condizioni della mia inchiesta. In genere le manifestazioni carnevalesche attraggono la simpatia di chi le studia, ma possono anche diventare particolarmente fastidiose quando danno luogo alla caccia al capro espiatorio. Nelle pagine che seguono non nascondo il mio rigetto per l'ideologia della Lega Nord, né per il ricordo di alcune situazioni vissute di persona, mitigo lievemente alcune osservazioni relative alla mia partecipazione: la neutralità assiomatica in questo caso è spesso insostenibile. Rendere conto del discorso dell'"altro razzista" adottando un approccio comprensivo è difficile, ma l'antropologia deve dedicarsi anche a questo. | << | < | > | >> |Pagina 23La voce della rivolta Quando ho cominciato questa inchiesta, sono rimasta subito colpita dagli atteggiamenti volontariamente caricaturali assunti dagli esponenti della Lega Nord. Si affermavano sulla scena politica italiana accentuando i tratti falsamente nordisti della loro personalità. Alcuni di questi comportamenti mi sono sembrati comici e hanno acceso la mia curiosità: che cosa spingeva i rappresentanti della Lega a fare la parte delle marionette dell'iperautoctonia? Che cosa li aveva improvvisamente portati a "fare gli scemi", ovvero a rivendicare come propri tratti distintivi che per secoli avevano prodotto discredito nel senso comune, diventando così facile bersaglio per i giornalisti? A mio avviso è impossibile non considerare questi atteggiamenti il frutto di una precisa intenzione, di certo presente in Umberto Bossi e nei suoi più vicini compagni di lotta. In un contesto attraversato da profondi cambiamenti che inducono paura e smarrimento, la Lega si riappropria oggi di un elemento distintivo della tradizione italiana: la maschera, che, in qualche modo, assume la funzione di dissimulare i mutamenti. Ci troviamo così di fronte a un paradosso della globalizzazione: la reificazione dell'identità. Riconoscere, infatti, che l'identità è un concetto fluido e in perenne movimento, che gli uomini, indipendentemente dalle loro origini, cambiano in relazione alle esperienze di vita, che un gruppo sociale non è mai definito una volta per tutte, ma si rimodella costantemente in funzione delle evoluzioni che lo coinvolgono, è un'idea che ci mette in difficoltà. Le maschere, invece, sono portatrici di una concezione fissa dell'identità, sono il simbolo della continuità sociale. Le performance di Umberto Bossi lo hanno elevato a figura-tipo. È diventato il punto di riferimento di un'estetica condivisa, che funge da matrice all'espressione "noi leghisti". Da questo punto di vista, il Senatùr si accosta alla maschera del contadino che, nella tradizione italiana, si assumeva il compito di denunciare pubblicamente i vizi e le ingiustizie della collettività in occasione delle declamazioni delle Bosinade, manifestazioni rituali del Carnevale milanese ancora in voga negli anni cinquanta. I "bosìtt" erano contadini immigrati dal Varesotto che svolgevano i lavori meno qualificati nel capoluogo lombardo. Umberto Bossi è originario di quelle parti, conosce alla perfezione questo retaggio perché ha cominciato la propria carriera tenendo conferenze all'interno dell'associazione del Carnevale di Varese, la Scuola bosina. Il leader leghista è un profondo conoscitore delle usanze popolari e della poesia dialettale. Nella tradizione italiana, a definire la maschera è il linguaggio: ogni maschera ha i suoi precisi connotati linguistici che le danno immediata riconoscibilità. Le performance di Umberto Bossi sono deplorevoli, ridicole, scandalose. Per la maggior parte degli italiani è il "tipico italiota" della scena politica. È l'iniziatore di una vera e propria "rivoluzione del linguaggio" destinata a disintegrare il "politichese" e a segnare il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Fino a oggi gli analisti italiani non hanno sviscerato in profondità i discorsi del leader della Lega Nord. La maggior parte ritiene che la forma dequalifichi il significato, ma si tratta di una lettura un po' troppo superficiale delle sue performance stilistiche. Umberto Bossi non è un tribuno nel senso classico del termine: i suoi discorsi contravvengono a qualsiasi regola di ars oratoria, assolvono principalmente alla funzione dello "sfogo". La violenza del linguaggio è l'esatta misura del discredito in cui è piombata la classe politica italiana a partire dagli anni ottanta. I suoi comizi sono improntati sulla diatriba. Le sue rocambolesche ricostruzioni storiche contengono accuse inverosimili; il suo discorso è privo di sviluppo, è fatto di digressioni legate le une alle altre da parole d'ordine scandite in alcuni precisi momenti per inculcare il messaggio nella testa delle persone. Il linguaggio di Bossi pretende di essere naturale e viscerale, ma suscitando emozioni genera l'effetto di annullare qualsiasi distanza critica. Presenta registri molto diversi: discorsi filosofici, considerazioni ingenue e insulti. L'obiettivo è anzitutto fuorviare l'uditore: incoerenze, trovate strampalate, rimproveri inattesi suscitano il riso a dispetto della veemenza dei contenuti. Peraltro, è lo stesso Bossi a riconoscerlo: "Le parole devono sorpassare e snaturare il pensiero" ("Corriere della Sera", 5 febbraio 1998). Di sicuro Bossi non passerà alla storia come vate, ma i suoi discorsi hanno una loro poetica. Utilizza espressioni linguistiche particolarmente immaginifiche: "il pugno gigantesco del Nord", "il pancione molle dello stato", "le fogne del regime". La sua inventiva contribuisce a determinarne il successo. Più che il contenuto è la forza delle immagini evocate a trasmettere le sue convinzioni, ed è lo stesso Bossi ad attribuire una funzione pedagogica al suo strano linguaggio: "Con la gente devi semplificare e caricare, devi fare brillare i colori". Coinvolge spesso il suo uditorio per fargli capire meglio gli intrighi del "Palazzo" in cui lui, uomo del popolo, è riuscito a introdursi. Spiegando le dinamiche del "Palazzo" in modo completamente fantasioso è riuscito a trascinare persone che non avevano mai fatto politica. I commentatori italiani dicono che i leghisti "parlano come mangiano", ma questa spontaneità è frutto di un attento calcolo: si tratta infatti di un linguaggio semplice e concreto, radicato nella quotidianità dell'italiano medio, usato per risultare immediatamente comprensibile, pieno di stereotipi tanto linguistici quanto sociali. Le dicotomie semantiche impiegate tratteggiano un mondo manicheo in cui i "nemici" sono chiaramente identificati (Nordnazione/Meridione, autonomia/statalismo, lavoro/parassitismo). L'uso dei luoghi comuni rappresenta il punto di forza della propaganda leghista, poiché permette di stabilire un legame immediato con quanto gran parte delle persone già pensa e dice senza rifletterci. Talvolta, è difficile seguire gli sviluppi delle argomentazioni di Bossi. I suoi discorsi evocano la glossolalia di alcuni malati di mente che costruiscono un idioma personale sulla base di neologismi organizzati secondo una sintassi rudimentale. Molti italiani credono che Bossi utilizzi parole a caso senza conoscerne il senso o attribuendogli un significato che solo lui conosce. La dimensione infantile di alcune espressioni completa il quadro clinico. L'aspetto delirante dell'insieme confonde il tenore del messaggio ideologico: il personaggio che asserisce simili assurdità con un linguaggio così insolito non può essere preso sul serio. Anche in questo caso, secondo Giorgio Bocca, siamo in piena dimensione folcloristica: "Bossi ha il genio dei narratori popolari per i paragoni che fa, le immagini che crea. Del resto è un movimento nato tra le montagne del Bergamasco" ("Corriere della Sera", 11 giugno 1993). | << | < | > | >> |Pagina 164La maggior parte degli italiani non è consapevole di essere "razzista" poiché il mito "italiani brava gente" sembra stendere un velo sulle coscienze. Si pensa che il razzismo sia una prerogativa specifica dei paesi dell'Europa del Nord segnati da un passato coloniale, da discorsi pseudoscientifici e dalla presenza di comunità di immigrati stabilmente impiantate. Daniele Belotti mi ha fatto spesso domande sull'esperienza francese relativa all'immigrazione, fino ad arrivare a dirmi: "Voi, in Francia, siete abituati. Perché non ve li tenete?". L'Italia è tradizionalmente un paese di emigranti, ma a partire dagli anni ottanta è stata investita da ondate di immigrazione che, pur non essendo più consistenti rispetto ad altri paesi, sono senza precedenti. Il fenomeno è nuovo, al pari della reazione. I miei interlocutori bergamaschi (non leghisti) sembrano negare questa realtà quotidiana. Si fanno discorsi razzisti, ma non sono percepiti come tali, si collocano invece nel registro del nondetto o addirittura dell'impensato; sembrano così evidenti da passare inosservati. È il leghista a rendere palese il processo di esclusione facendosi carico di esprimere pubblicamente l'intolleranza dei suoi concittadini. Le manifestazioni di ostilità nei confronti degli stranieri hanno sempre avuto un ruolo importante nell'attività politica della Lega Nord. Nessuna psicosi sull'immigrazione! È sufficiente guardarsi intorno per rendersi conto che la società italiana è diventata multiculturale. Dal momento in cui ho cominciato questa mia ricerca, dicembre 1998, a oggi, il numero di stranieri presenti sul territorio italiano è più che raddoppiato. Nel 2008 l'Italia era il paese europeo in cui la popolazione straniera era maggiormente aumentata in valore assoluto (+13,4 per cento) rispetto all'anno precedente. Il dato italiano supera ormai quello del Regno Unito e, nel 2010, la media complessiva dell'immigrazione è registrata all'8 per cento. Il Nord-Est esercita una particolare attrazione sui lavoratori stranieri. Già solo scorrendo le decine di stabilimenti industriali mentre si percorrono le strade di queste zone se ne comprende la ragione. Dal 2010, la Lombardia conta più stranieri del Lazio, vengono poi Veneto ed Emilia Romagna. Telgate, in provincia di Bergamo, è il comune italiano con la maggiore presenza di stranieri: 1233 su una popolazione di 4849 abitanti. C'è un nesso tra presenza degli stranieri e ascesa dei partiti di estrema destra, poiché questi ultimi politicizzano i timori che si costruiscono attorno a una simile evoluzione demografica, ma non si tratta di una fatalità, come sostiene Umberto Bossi, siamo semplicemente di fronte a un problema di "percezione" del fenomeno. Treviso è una delle città italiane dove è presente il maggior numero di stranieri: 84.000, di cui 16.000 musulmani. Sono presenti 116 etnie diverse provenienti da ogni parte del mondo. Gli studi sociologici indicano che questa città è un modello di integrazione (è in testa alla classifica Caritas Migrantes del 2007), ma è proprio qui che la Lega Nord è il partito più forte ed è anche quello che sostiene le posizioni xenofobe più violente. Gli osservatori locali accusano il Carroccio di voler creare un sistema di apartheid, vietando agli stranieri di circolare nel centro storico, negando loro la sicurezza del posto di lavoro e l'accesso alla previdenza sociale, creando all'interno delle scuole classi separate per i loro figli. Queste proposte ottengono tuttavia il consenso degli abitanti locali che si rifiutano di condividere gli spazi pubblici con gli immigrati. In effetti, l'atteggiamento degli italiani verso il fenomeno migratorio è caratterizzato dall'ossessione della presenza straniera e dal rifiuto di prendere in considerazione il pluralismo culturale. Sembrano prevalere i timori su una percezione razionale della realtà, com'è emerso anche nel recente rapporto Caritas Migrantes del 2010: "Gli italiani sembrano lontani, nella loro percezione, da un adeguato inquadramento di questa realtà. Nella ricerca Transatlantic Trends mediamente gli intervistati hanno ritenuto che gli immigrati incidano per il 23 per cento sulla popolazione residente (sarebbero quindi circa 15 milioni, tre volte di più rispetto alla loro effettiva consistenza) e che i 'clandestini' siano più numerosi dei migranti regolari (mentre le stime accreditano un numero tra i 500.000 e i 700.000). Su questa distorta percezione influiscono diversi fattori, tra i quali anche l'appartenenza politica". Molti italiani rifiutano questa nuova realtà sociale e la Lega Nord dà loro voce esprimendo i toni della rabbia. Un simile rifiuto somiglia a una sindrome da delirio: si perde il senso della realtà o se ne dà una percezione di essa deformata dalla psicosi, adottando un sistema di credenze di tipo ossessivo e persecutorio. Alimentando l'allarmismo, la classe politica si dimostra incapace di gestire un cambiamento epocale. Non si attrezza per pensarlo e per adottare misure razionali e rispettose di tutti. Potrebbe avvalersi dell'esperienza di altri paesi con una lunga tradizione di immigrazione, potrebbe evitare alcuni errori, potrebbe costruire un proprio modello d'integrazione, ma non lo fa e preferisce dare spazio alle spaventose ossessioni della Lega Nord, lasciando credere agli italiani che gli immigrati torneranno un giorno tutti a casa propria. Gianfranco Bettin, consigliere regionale veneto di area verde, si mostra preoccupato di fronte a certi atteggiamenti: "La posizione assunta dalla Lega sull'immigrazione è totalmente regressiva. Non credo che ci sia una forza politica in Europa che parla degli stranieri come lo fa la Lega. Il linguaggio leghista è pericoloso perché viene parlato da figure istituzionali, non solo al bar dal militante aggressivo e becero, ma da chi riveste un ruolo istituzionale. Questa cosa non ha paragoni in nessun paese d'Europa. È solo qua che succede. Il presidente della Regione Veneto non vuole che i musulmani siano seppelliti negli stessi cimiteri dei cristiani. Si introducono elementi di discriminazione nei confronti degli stranieri. Non si accontentano di proibirgli di costruire la moschea - che costituisce già un atto discriminante pesante - ma gli mandano i vigili con qualunque pretesto quando si ritrovano per pregare in un garage, come è successo a Vedelago nella provincia di Treviso... Sono fatti frequentissimi che non hanno paragoni da nessuna parte. Da questo punto di vista, l'impatto della Lega è devastante. È un elemento di forte complicazione al di là della beceraggine dei comportamenti stessi, è un ulteriore problema perché avrà sicuramente effetti a lungo termine". Con i loro discorsi sugli extracomunitari gli italiani non si pronunciano sulle nuove culture che vengono a crearsi nel loro paese, dicono invece qualcosa di sé. Dimenticano che negli Stati Uniti, gli emigrati italiani hanno contribuito a costruire la società multiculturale americana che i leghisti denunciano oggi come "nuovo nazismo". È come se l'intero sapere accumulato sull'emigrazione italiana fosse stato rimosso di colpo. Peggio ancora, risulta evidente che gli italiani abbiano una percezione estremamente negativa della loro storia di popolo di emigrati. C'è in realtà una chiara continuità tra le rappresentazioni attuali e quelle del passato. Le grandi migrazioni dei meridionali dopo l'unificazione nazionale erano state percepite dagli studiosi positivisti italiani come scelte di vita da parte di individui avvezzi e predisposti al crimine. Simili interpretazioni sono poi diventate una comoda griglia di interpretazione per i razzisti d'oltreoceano che, in quel periodo, elaboravano lo stereotipo dell'"italiano criminale". Questa discutibile chiave di lettura non è mai stata contestata e ciò dimostra quanto l'antimeridionalismo continui a essere la matrice della xenofobia che si manifesta oggi in Italia. Se in tutta Europa sono i rom ad attirare l'odio razziale, in Italia vengono loro attribuite le caratteristiche negative assegnate una volta ai meridionali e agli assistiti: non lavorano, anzi non hanno mai lavorato, vivono di furti e nella sporcizia, hanno una cultura tribale violenta e sono finanziati e sostenuti dallo stato. La Lega Nord fa il pieno di voti promettendo agli abitanti dei piccoli centri o dei quartieri periferici, dove abitualmente si insediano i rom, di cacciarli o di smantellare i loro campi. Andrea Gibelli, ex capogruppo della Lega al Senato, non esita a paragonare gli effetti dell'allargamento dell'Unione europea a quelli dell'unificazione italiana: "L'idea malsana di un'Europa senza confini, priva di una cintura adeguata che tuteli la tenuta economica sia dei paesi più avanzati sia dei popoli deboli, mortifica i popoli e le identità e conduce a ciò che non è esagerato definire deportazioni economiche di popolazione...", com'è accaduto dopo le "annessioni imposte da Garibaldi che portarono all'esodo di migliaia di persone verso le Americhe, il Nord Europa e la Padania". A Bergamo, parte della stampa locale associa sistematicamente immigrazione a criminalità. Il "sensazionalismo" dei giornali fomenta il binomio immigrato-delinquente. La città sta "cambiando volto" e questa constatazione foraggia un discorso nostalgico sulla "Bergamo di una volta". Gli italiani proiettano oggi sugli immigrati i "difetti" di cui venivano tacciati loro stessi nei paesi in cui un tempo emigravano. Si lamentano del fatto che gli immigrati facciano i bisogni sui muri (era un'accusa mossa agli italiani soprattutto in Svizzera). Nel 1999 il segretario provinciale dei Democratici di sinistra mi ha fatto notare: "Fino a quindici anni fa i bergamaschi non avevano mai visto i neri". Oggi, sui muri di Bergamo, si possono vedere scritte come "Viva la Notte dei cristalli", "White Power", "Gas ai gay", "Bossi imperatore". | << | < | > | >> |Pagina 241I militanti che ho seguito per un anno e mezzo sono convinti della fondatezza della loro violenza poiché credono di essere vittime di razzismo e di una persecuzione, ma questa persecuzione è riportata secondo la prospettiva dei persecutori. Solo il carattere grottesco dei loro motivi di risentimento mina seriamente l'adesione alla forza della loro convinzione. Quando mi sono rifiutata di assecondare il loro punto di vista, sono diventata io l'idiota schernita: mi vedevano come la studentessa benpensante incapace di andare oltre la vulgata antirazzista, e la mia cecità diventava criminale poiché in questo modo mi rendevo complice di una sorta di "etnocidio padano". Sono riuscita a liberarmi dall'esasperazione in cui mi facevano piombare i discorsi leghisti seguendo Daniele Belotti sul registro della derisione. Il mio percorso personale è stato molto istruttivo, poiché aiuta a comprendere come un individuo possa decidere di militare nella Lega Nord. Non si tratta di una fatalità, ma del risultato di un vero e proprio lavaggio del cervello messo in opera da una "macchina decervellatrice". I discorsi della Lega Nord, infatti, sono consapevolmente "folclorizzati" da chi li diffonde. Mi sono lasciata "imbrogliare" dai loro ragionamenti alla rovescia al punto da sentirmi coinvolta nella loro finzione ideologica. La mia capacità di analisi, così, è diventata uno strumento di resistenza mentale. Ho dovuto "sbrogliare la matassa" dei loro discorsi. Ci sono riuscita prendendo coscienza che la resistenza psicologica che muovevo contro l'operazione propagandista della Lega Nord mi portava ad adottare gli stessi atteggiamenti dei suoi istigatori: ironia e antifrasi. L'espressione del mio disagio, della mia rabbia, adottava talvolta le modalità della dissimulazione, del rovesciamento, dello scherno. È dunque studiando le mie reazioni che ho compreso la chiave del comportamento dei politici della Lega Nord. Fare di ciò che era stata semplicemente una "fuga con una risata per levarsi dall'imbarazzo" l'oggetto della mia inchiesta si è rivelato un metodo ricco di prospettive. I ricercatori che hanno studiato la realtà sociale della Lega Nord hanno in gran parte trascurato la necessità di rendere conto dei comportamenti sfasati, del contenuto iconoclasta e della dimensione impropria dei discorsi dei militanti per interrogarsi invece sull'emergere di una realtà etnica postmoderna, la Padania. La colpa di sicuro è di un pudore accademico, se non addirittura di un certo imbarazzo culturale. L'approccio etnografico mi ha invece spinto a prendere questo movimento un po' meno sul serio per privilegiare le sue manifestazioni parodistiche: quando l'improbabile diventa parte della quotidianità è difficile non farne oggetto privilegiato di riflessione. Spostando l'attenzione sulla natura caricaturale delle rappresentazioni prodotte dai membri del partito, spero di essere riuscita a fornire un'analisi in grado di rinnovare l'approccio al "fenomeno Lega". Il metodo etnografico mette in luce le manifestazioni controstrutturali che caratterizzano lo spettacolo indipendentista della Lega Nord. Le mie osservazioni mi hanno progressivamente convinta che le manifestazioni di questo partito avevano una certa affinità con i "riti di inversione di status" politico che gli antropologi hanno studiato nelle società esotiche, rituali che conosciamo anche in Europa sotto forme folclorizzate nelle manifestazioni del Carnevale. Il potere che si afferma durante questi eventi è un "falso potere" (un potere oltranzista di facciata), è un'occasione che produce disordine, non che crea ordine; fa desiderare un ritorno al regno della regola. Queste manifestazioni rituali in genere consentono di rafforzare il potere in vigore e talvolta restituiscono legittimità ai rappresentanti del vecchio sistema. La storia della Lega è indissociabile dal processo di transizione politica innescato in Italia all'inizio degli anni novanta. Il crollo dei grandi partiti della Prima repubblica e la scomparsa dei principali leader screditati dalle rivelazioni dei magistrati del pool di Mani pulite hanno aperto una fase di vuoto di potere, nel quale i leghisti si sono inseriti, sconvolgendo il panorama politico. Il disgusto ha indotto gli elettori delle province del Nord a eleggere, per derisione, personaggi totalmente estranei all'universo istituzionale. Negli anni novanta i leghisti si sono presentati come la forza del rinnovamento e del buon governo. Nel 1991 il Giuramento di Pontida ha inaugurato una sorta di ciclo rituale in cui si inserisce, dal 1996, il rito dell'Ampolla. Il primo raduno di massa orchestrato da Bossi è un'espiazione rituale: i politici lombardi (come i guerrieri del Dodicesimo secolo) giurano di restare uniti fino a quando la Repubblica del Nord verrà liberata dal giogo romano. Il secondo è un rito propiziatorio, una rigenerazione simbolica della nazione, che apre le porte alla grande messa in scena collettiva della "Dichiarazione d'indipendenza della Padania". Nel periodo che intercorre tra questi due eventi si pensa che l'Italia avrebbe potuto "cambiare" repubblica. Teatralizzando gli antagonismi sociopolitici, i leghisti hanno trasformato "un dramma potenziale in cartoni animati", come ha affermato Indro Montanelli. Dirottando la rabbia delle classi subalterne sui "colpevoli" esterni alla comunità locale (i meridionali, i giacobini, i massoni, gli americani...), i leghisti hanno ostacolato una vera moralizzazione della vita pubblica del paese, aprendo la strada a Silvio Berlusconi. Il passaggio dall'antico al nuovo ordine generalmente è segnato da atti eroici e/o trasgressivi. I leghisti arrivati di colpo alle cariche più alte dello stato hanno adottato comportamenti oltranzisti. Schierandosi rumorosamente contro il formalismo dell'universo istituzionale, hanno abolito l'apparato simbolico della rappresentazione politica; il linguaggio dialettale, in quanto simbolo di esteriorità, purezza e trasgressione carnevalesca, ha assunto una funzione del tutto centrale. Da un giorno all'altro, un tipo "perdente" come Umberto Bossi diventa senatore per riformare le regole istituzionali e rimediare così al degrado morale della nazione. Nei "riti di inversione di status", generalmente la maschera riveste una funzione ben precisa: incute paura (non eccessiva) per accelerare il cambiamento e dissolvere le tensioni che attraversano la società. In generale, nel rito figurano sia l'antico sia il nuovo. Questa prospettiva mi ha portato a considerare con profonda attenzione la figura del leader: Umberto Bossi è un personaggio straordinariamente caricaturale (talmente contraddittorio per certi versi da diventare comico). Pretende di essere "padano" (celtico), ma si è sempre comportato come il peggiore dei lazzaroni. Per molti italiani è un "italiota". Si comporta come una maschera che trasgredisce le norme e che, realizzando un rovesciamento di status, permette a persone marginalizzate, provenienti da gruppi sociali e/o politici diversi, di ricrearsi un'immagine positiva di sé affermando la propria padanità contro il sentimento della maggioranza degli italiani. Realizza un riscatto.
[...]
Sovrapponendo al tradizionale conflitto Nord/Sud quello pubblico/privato, la Lega Nord manda in frantumi il patto di solidarietà nazionale. Contrappone al Nord che lavora il Sud che amministra male, ostacolando così le regioni più dinamiche sui mercati internazionali. La debolezza del legame società-stato-nazione, connaturata alla storia dell'unificazione italiana, le permette di portare avanti un progetto che in realtà è finalizzato alla disintegrazione dello stato sociale e al disconoscimento delle forme di controllo amministrativo e giurisdizionale tradizionalmente esercitato dal centro. Il leader della Lega Nord mina il patto di solidarietà per cercare di attuare una politica ultraliberale nell'ambito della Padania, intesa come una federazione che chiama "comunità di base". Il leghismo tenta di realizzare una sintesi impossibile tra liberismo ed etnofederalismo. Questa forzatura è tipica del pensiero di estrema destra. In realtà, il leghismo prospera sull'anarchismo rampante della società italiana. L'avversione per l'apparato di stato e per le élite amministrative (che passano per arroganti e predatrici) è un tratto largamente condiviso. Molti italiani si mostrano incapaci di distinguere la funzione di difesa e di promozione dell'interesse pubblico dalla coercizione pura e semplice. Il grido "Libertà" che risuona nei raduni di Bossi esprime, forse, più che un rifiuto delle costrizioni collettive, un forsennato individualismo che sfida la ragione, e non tanto una reale esigenza indipendentista. È l'individualismo a essere alla base della Padania: si tratta della sommatoria di tutte le piccole secessioni individuali che, messe insieme, finiscono per formare questa antinazione. Lo spettacolo indipendentista della Lega, in realtà, è uno scherzo sovversivo di pessimo gusto, è la farsa di un senso d'impotenza reinterpreato sul registro della rivincita sul piano simbolico. L'idiozia ne è l'esito. Si potrebbe pensare che i militanti sinceramente impegnati in questa operazione di costruzione identitaria siano degli "idioti utili" o semplicemente degli idioti, ma il loro impegno si svolge su un registro ludico e giocano con la loro idiozia, sotto gli occhi e in barba ai loro detrattori, quelli che credono ancora nell'azione politica. La forza deflagrante della buffoneria è destinata a essere recuperata dal potere. Umberto Bossi non si oppone affatto al potere costituito, contribuisce al suo rinnovamento, come prova la sua partecipazione ai governi Berlusconi. È stato, in realtà, una figura di transizione: ha contribuito ad accelerare la fine della Democrazia cristiana e ha prefigurato la nuova tipologia di destra rappresentata oggi dal leader del Pdl. L'affinità nei modi di pensare e di agire dei due politici lombardi non è affatto casuale: nonostante la diffidenza, traggono ispirazione reciproca. Sono affascinati l'uno dall'altro. Secondo Bossi, Berlusconi è il "vero leader", "il Berluskaiser". Secondo Berlusconi, Bossi è un "furbetto". Dalla rottura del 1994 si temono a vicenda, ma condividono entrambi la convinzione populista secondo cui l'elezione diretta li esenterebbe dal rispetto delle regole istituzionali. Sembrano entrambi due "soggetti fuori posto" che occupano impropriamente posizioni di potere. Con stile diverso inanellano goffaggini, per la grande soddisfazione dei loro sostenitori - "Finalmente qualcuno che dice ad alta voce ciò che tutti pensano soltanto" - e la costernazione di tutti gli altri. Piacciono perché rompono gli usuali schemi della vita politica: Bossi perché è violento e volgare, Berlusconi perché cerca di imporre all'universo istituzionale le sue regole da imprenditore. I loro comportamenti eccessivi suscitano al contempo la soddisfazione di coloro che rifiutano le istituzioni e l'ironia di quelli che appoggiano solo in parte le loro idee. Il loro fascino opera su due livelli, a seconda del pubblico: entrambi ne sono consapevoli e giocano sull'uno o sull'altro registro.
Silvio Berlusconi segue una strategia di comunicazione già
provata da Bossi. Le sue affermazioni stupiscono le cancellerie straniere,
indignano l'opposizione e disturbano i membri della sua stessa coalizione. Il
Cavaliere ricorre al rovesciamento per falsare meglio i termini del dibattito
attorno al conflitto d'interessi creato dalla sua presenza alla guida del
governo. Presentandosi come vittima di un complotto comunista, riesce a schivare
gli attacchi nemici e giustifica la "caccia alle streghe" che conduce in ambito
mediatico. Respingendo in modo sistematico le accuse che gli sono mosse dagli
avversari, confonde la vera posta in gioco. Questa modalità mina la fiducia e
snatura le istituzioni democratiche pur
mantenendone le forme, poiché gli elettori non possono che
aderire incondizionatamente alle opinioni dei loro schieramenti di riferimento.
In realtà, l'imbroglio offende ogni possibilità di dibattito democratico. Si
tratta di una strategia perversa di formidabile efficacia: confondendo i termini
di riferimento politici, si impedisce alle persone di pensare con la propria
testa.
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