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| << | < | > | >> |IndiceIX Premessa 3 Capitolo I. Premesse generali 3 1 Linguaggio, semiotica, lessico 11 2 La nozione di 'parola' 19 3 La semantica e i suoi apporti alla descrizione e allo studio del lessico 29 Capitolo II. La costruzione di un dizionario 29 1 Alcune considerazioni preliminari 38 2 La costituzione della base di dati del lemmario: ancora qualche preliminare 42 3 La costituzione del lemmario: fonti e criteri di selezione della base di dati 48 4 La lemmatizzazione 50 5 Ordinamento alfabetico dei lemmi 51 6 Struttura delle voci 54 7 Rinvii 55 8 Trascrizione fonematica e accentazione 58 9 Sillabazione 59 10 Qualifica grammaticale 59 11 Marche d'uso 64 12 Etimologia 75 13 Datazione 80 14 Definizioni e accezioni 84 15 Derivati 84 16 Composti 85 17 Sinonimi 86 18 Contrari 87 19 Quadri grammaticali 87 20 La sezione GRAMMATICA 88 21 Varianti 88 22 Politematiche 91 23 Verbi 98 24 Sostantivi 101 25 Nomi propri 103 26 Aggettivi 104 27 Alterati 106 28 Avverbi 106 29 Preposizioni 106 30 Abbrevizioni, sigle, simboli, acronimi 110 31 Esotismi 112 32 Conclusioni 117 Capitolo III. Formazione e strutture del lessico italiano 117 1 Considerazioni preliminari 119 2 Categorizzazioni del lessico 119 3 La stratificazione diacronica del lessico italiano 127 4 Le fonti etimologiche del lessico italiano: il latino, i latini 136 5 Altre fonti etimologiche esogene 137 5.1 Il greco 139 5.2 Dialettalismi e regionalismi 142 5.3 Lingue romanze 143 5.4 Lingue germaniche, tedesco, inglese 145 5.5 Altre lingue 146 6 Fonti endogene 147 6.1 Derivazione 152 6.2 Composizione 154 6.3 Locuzioni polirematiche 156 6.4 Altre coniazioni 157 7 Semantica lessicale 169 Capitolo IV. Nuove parole dell'uso 169 1 Criteri di scelta e presentazione delle nuove parole 177 2 Recuperi di precedenti omissioni 178 3 Nuovi e vecchi prefissi e confissi 180 4 Polirematiche, regionalismi, esotismi 183 5 Nuove accessioni nei linguaggi tecnici e specialistici: le maggiori aree innovative 187 6 Nuove parole nel lessico comune 190 7 Considerazioni conclusive: l'italiano sta bene, gli italiani un po' meno 193 Appendici 193 1 Stratificazioni sociolinguistiche dell'eredità latina nel lessico italiano 219 2 Dall'aguti allo zebù: il "Battaglia" in cammino 237 3 Come fare parole con le cose ovvero il primato del fare 255 Indice dei termini e delle cose notevoli 263 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina IXRipubblico qui, alleggerite di qualche ripetizione e con una sola sostanziosa modifica di cui dirò, le due prefazioni e la postfazione apparse nei volumi del Grande Dizionario Italiano dell'Uso (il Gradit secondo l'acronimo prevalente negli scritti tecnici): il primo e sesto, del 1999 (rispettivamente vol. I, pp. VII-XLII e vol. VI, pp. 1163-83), e il settimo di supplemento, Nuove parole italiane dell'uso, del 2003 (pp.VII-XVI). A questi testi sono premessi tre capitoli o paragrafi introduttivi inediti su questioni di semiotica, semantica e lessicologia generale che rendono espliciti presupposti immediati, che sono sottintesi o solo fuggevolmente evocati nelle due prefazioni e nella postfazione. Seguono due appendici: un lavoro sulla presenza del latino, anzi dei diversi latini in italiano (già pubblicato negli atti del convegno di Roma della Società italiana di glottologia, Linguistica storica e sociolinguistica, Il Calamo, Roma 1998, in realtà 2000, pp. 163-88); e due relazioni (ancora inedite): sulle trasformazioni che il Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia ha conosciuto nella sua lunga storia pluridecennale e però, infine, ha anche prodotto nella nostra lessicografia. (Università di Torino e Vercelli, 2002); e sul primato del fare (un titolo rubato a Benedetto Croce) non solo, in generale, nell'acquisizione della parola, ma, in specie, nella determinazione dei sensi di molti vocaboli del vocabolario fondamentale delle lingue (convegno GISCEL, Ischia 2002). Nelle tre appendici si può trovare la necessaria bibliografia che sottende i tre scritti, ma anche molta parte del lavoro svolto nel costruire il Gradit e nel condensarne nelle prefazioni e nella postfazione il senso o quel che a me pareva e pare il senso. I paragrafi introduttivi sono invece privi di una specifica bibliografia: chi la desiderasse può, se crede, ricorrere a qualche mio lavoro recente, come Capire le parole (nuova edizione 2002) o Prima lezione sul linguaggio (2003), editi da Laterza, o il meno recente, ma riedito spesso e anche da poco con qualche aggiornamento, Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue (1982). | << | < | > | >> |Pagina 291. Alcune considerazioni preliminari. Esponiamo qui i propositi che hanno animato i lavori del Grande dizionario italiano dell'uso (in forma acronima Gradit], le fonti cui ci si è rifatti, i criteri seguiti nel selezionare i materiali, poi nel presentarli nei successivi volumi e nel CD-rom. Ciò comporta alcuni riferimenti alle condizioni oggettive del patrimonio lessicale italiano, che saranno più ampiamente sviluppate nel capitolo III. Qui muoveremo dal distinguere preliminarmente in modo esplicito e distinto alcuni termini. Intenderemo qui con "vocabolario" anzitutto l'insieme di tutti i vocaboli adoperati da un singolo autore che abbia scritto testi tendenzialmente omogenei tra loro dal punto di vista della fonologia, della morfologia e della sintassi, ossia, nel nostro caso, che abbia scritto testi italiani, oppure adoperati da un singolo parlante o gruppo di parlanti nel discorrere, per quello che abbia potuto essere documentato. Parliamo dunque di "vocabolario" dantesco o manzoniano o crociano per gli insiemi delle parole reperibili nelle opere italiane rispettivamente di Dante, Manzoni o Croce. Ancora più restrittivamente parleremo del "vocabolario" della Divina Commedia, che è l'insieme dei poco più di settemila vocaboli adoperati da Dante per scrivere il suo poema, o del "vocabolario" dei Promessi Sposi, che è l'insieme dei poco più che cinquemila vocaboli adoperati da Manzoni nel suo romanzo. E diremo anche "vocabolario" dei discorsi parlati italiani l'insieme dei vocaboli reperiti, come di recente si è fatto, in discorsi tenuti in italiano e registrati in alcune grandi città italiane. Intenderemo con "lessico" (1) anzitutto l'insieme di tali insiemi, cioè la integrazione (la somma logica) di tutti i possibili vocabolari intesi come si è anzidetto; e (2), in secondo luogo, proprio in quanto il lessico così definito include una somma di vocabolari di testi e discorsi che sono tendenzialmente omogenei per fonologia, morfologia e sintassi, con "lessico" intendiamo anche l'insieme delle regole di formazione di altri possibili vocaboli che, ancorché non attestati o, al momento, non ancora attestati negli scritti e nei discorsi di cui si serba memoria, possono tuttavia essere generati (cioè compresi e prodotti) a partire da vocaboli già esistenti e dalle già esistenti e operanti regole di formazione delle parole. Questo secondo aspetto del lessico è di grande importanza sia teorica sia pratica. È ben vero: il lessico di una lingua include anzitutto un numero vastissimo di vocaboli attestati. Si tratta di un numero che, per alcune grandi lingue, quali l'inglese e il francese, lingue dunque d'uso antico, vario e molteplice come quello dell'italiano, si è potuto fare ascendere a diversi milioni di parole. Ma questa cifra, pur in sé imponente, è poca cosa dinanzi al numero dei vocaboli possibili. Per restare all'italiano, si pensi, per fare un esempio, alle schiere interminabili di aggettivi e sostantivi non attestati (o, al momento, non ancora reperiti in testi scritti e discorsi parlati) e tuttavia comprensibili e producibili solo che a vocaboli già dati si premetta un anti- o un super-. Oppure si pensi alla schiera non meno sterminata di verbi estraibili da sostantivi e aggettivi con la semplice aggiunta di -izzare e, ancora, di sostantivi derivabili a loro volta da tali verbi con l'aggiunta di un -zione. Questi e tanti altri esempi analoghi ci dicono che, se il lessico di una lingua è di una numerosità dell'ordine di 10 alla 6 quando si guardi ai soli vocaboli attestati (e, almeno per ora e finora, attestati soprattutto in testi scritti), esso, dati i meccanismi della formazione delle parole, è addirittura di numero potenzialmente illimitato se si bada anche ai vocaboli possibili che, in qualsiasi momento, possono essere prodotti, intesi e immessi nell'uso. Ma con ciò non si è ancora guadagnata una adeguata percezione del carattere illimite della massa lessicale di una qualunque lingua e, tra le altre, della lingua italiana. Accanto alle decine e decine di centinaia di migliaia di vocaboli attestati, accanto alle immense schiere di vocaboli possibili grazie alle regole di formazione delle parole, ogni lingua in ogni momento è fisiologicamente disposta ad accogliere, per usare le antiche parole d'Orazio, nova rerum nomina: parole affatto nuove tratte dalle fonti più varie, gerghi, altre lingue, deformazioni scherzose, dialetti, innovazioni di linguaggi tecnici, acronimi, nomi propri di persona o di luogo ecc. | << | < | > | >> |Pagina 1171. Considerazioni preliminari Abbiamo già esposto nel precedente capitolo (§§ 2-3) i criteri di formazione del lemmario del Grande Dizionario Italiano dell'Uso. Con i suoi oltre 250.000 lemmi il Grande Dizionario Italiano dell'Uso può dirsi, oggi e per ora, tra le esistenti e complete, la più ampia fonte per la conoscenza del complessivo lessico dell'italiano, colto e popolare, scientifico e letterario, standard e regionale. È il vario e vasto lessico della lingua quale si configura nell'uso a metà circa dell'undicesimo secolo della sua storia, se tale storia, come è convenzionalmente abituale, si fa cominciare dal marzo 960, data del iudicatum di Capua: qui, nella formula di testimonianza messa a verbale dal giudice Arechisi, nell'incerto latino del restante atto la dichiarazione in volgare appare, come osservò Gianfranco Polena, "la parte formalmente più stabile". Il lessico dei parlanti e scriventi una lingua, non ci si stanchi di tenerlo a mente, è certo sempre più ampio di qualunque dizionario. Tuttavia l'ampiezza del Grande Dizionario Italiano dell'Uso fa sì che ciò che si ricava dal suo lemmario si possa proiettare con qualche attendibilità sulla realtà effettuale del lessico italiano in uso nel Novecento. Naturalmente si tenga conto della specificazione già fatta: non parleremo qui, né il Grande Dizionario Italiano dell'Uso può e vuole fornirci tutti i dati necessari per farlo, di quel che fu il lessico italiano del Trecento o del Seicento. Parleremo sì (parlano i lemmi del Grande Dizionario Italiano dell'Uso) anche di questi e altri secoli passati, ma solo per quelle parti del lessico di quei tempi le quali siano sopravvissute nell'uso del secolo XX. E cioè la prospettiva del Grande Dizionario Italiano dell'Uso e, quindi, delle considerazioni svolte qui di seguito, non è meramente sincronica, si allarga alla diacronia, ma solo a quella diacronia che Saussure chiamava "retrospettiva", risalente da uno stato di lingua alle sue fonti storiche. Del resto non è solo un limite di queste nostre considerazioni o del Grande Dizionario Italiano dell'Uso. Una diacronia completa, anche (per usare il complementare termine saussuriano) anche "prospettica" oltre che retrospettiva, sarebbe oggi avventurosa in mancanza di un complessivo tesoro storico della intera lingua italiana in tutti gli undici secoli della sua vita o anche solo di quello stringato, ma rigoroso dizionario storico della lingua che fu vagheggiato e disegnato in progetto da quel grande filologo e fine conoscitore della nostra lingua che fu Giorgio Pasquali, al cui pensiero dovremo ancora più in là rifarci. In attesa di ciò, e col limite appena dichiarato, l'ampiezza del Grande Dizionario Italiano dell'Uso offre oggi una base non priva di validità ai fini del conoscere il lessico italiano, nelle sue strutture e nella sua formazione. E tale validità è tanto più da confermare se si rammenta che con "uso" ci si è riferiti e ci si riferisce — vogliamo dirlo ancora una volta — non soltanto agli usi della produzione parlata e scritta di testi e discorsi orientati sulla fonologia, morfologia, sintassi e vocabolario fondamentale dell'italiano, ma anche agli usi della ricezione e, dunque, della lettura. Ciò ha portato a includere nella rappresentazione che il Grande Dizionario Italiano dell'Uso da del lessico italiano una grande quantità di lessemi (e accezioni di lessemi) che nel Novecento e oggi per la maggior parte della comunità linguistica italiana sono strumenti di uso ricettivo, di comprensione di ciò che si legge o ascolta, piuttosto che di uso produttivo: oltre cinquemila parole letterarie (e migliala di accezioni letterarie di parole comuni), che, di uso produttivo ormai talora rarissimo, sono consacrate dalla nostra maggiore tradizione letteraria e presenti quindi nella comune memoria degli istruiti, come il dantesco e foscoliano e carducciano aere, o compungere o pietà o speme; parole dialettali purché circolanti anche fuori della loro area d'origine, come bisì o struffolo; tecnicismi e parole e accezioni di raro uso produttivo generalizzato che tuttavia si affaccino a volte al nostro intendere in ambiti non strettamente specialistici venendo dalle più varie tecniche e scienze e specializzazioni, dall'artigianato tessile o dalla macelleria alla fisica teorica o alla filosofia; parole obsolescenti, ma ancora ospitate in comuni dizionari in commercio, e da usare quasi solo scherzando, come iosa o enchiridio, parola cara ai non molti frequentatori di Epitteto. Tutto ciò, e non solo le seimila e passa parole del vocabolario di base e le quarantamila del vocabolario comune, è entrato nella base di dati che questo dizionario ha filtrato e presenta nei suoi lemmi. | << | < | > | >> |Pagina 125Se guardiamo ai discorsi e testi italiani (e l'analogo avviene in ogni lingua), ci avvediamo che essi sono letteralmente intessuti delle circa duemila parole del vocabolario fondamentale, in cui le altre decine di migliala si incastonano. Dotti e indotti convergono in ciò, e più precisamente le parole del vocabolario fondamentale di una lingua occupano, in media, il 92 o 94% di tutte le parole che figurano nei testi e discorsi. Un testo o discorso è italiano, se, con la grammatica e sintassi e con la fonologia, adopera in tale elevata percentuale tali parole, parole come andare o avere o biglietto, consigliare, di, danno, dare, entrare, esempio fino a scrivere, vivere, zitto. Naturalmente si tratta di una media, una pagina, uno scritto breve, un singolo enunciato possono discostarsene un po', in più o in meno: sappiamo che la Costituzione italiana o gli articoli finanziari più tecnici di un quotidiano economico presentano un po' meno dell'80% di vocabolario fondamentale; in Lettera a una professoressa o nei copioni cinematografici il vocabolario fondamentale sale fino al 96 o 98% delle parole.Questo nocciolo funzionale del nostro apparato lessicale è anche la parte più antica. Quando Dante comincia a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento l'attuale vocabolario fondamentale italiano è configurato e completo all'81,5%. Ben poco è stato aggiunto dai secoli seguenti. Tutte le volte che ci è dato di parlare con le parole del vocabolario fondamentale, e accade quando riusciamo a essere assai chiari, non è enfasi retorica dire che parliamo la lingua di Dante. È un fatto. Certo, il comune lettore appena scaltrito e tanto più il filologo emunctae naris si rendono conto che non tutte le parole di Dante che oggi ancora vivono appaiono oggi con le accezioni che Dante privilegiava. Nel celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, al cui incipit di solito ci si riferisce per porre la giusta questione, per gentile, onesto, parere i valori di Dante suonano oggi letterari, e come tali sono registrati nel Grande Dizionario italiano dell'Uso. Ma in altri luoghi di Dante quelle parole appaiono con i valori oggi ancora vivi e dominanti (una, anzi, nello stesso sonetto). E proprio il seguito dello stesso sonetto, come del resto tanta parte della Commedia, di Dante, è fatto di parole che, se oggi ancora suonano, sono in accezioni oggi sempre ben vive. La mise-engarde del filologo non oscura la complessiva evidenza del fatto che si è segnalato. La seconda fascia del lessico, seconda sotto il profilo della frequenza, è costituita da un insieme di circa duemila e cinquecento parole, che il Grande Dizionario Italiano dell'Uso contrassegna con [AU]: sono parole frequentissime rispetto alla intera massa lessicale, ma di uso assai più raro delle parole del vocabolario fondamentale. Tutte insieme ricorrono nei testi e discorsi fino a coprirne il 5 o 6 per cento. Ma sono parole di uso assai più frequente delle restanti parole della lingua. Una particolare parola del vocabolario fondamentale ha mediamente probabilità di apparire quattro volte ogni diecimila parole, una volta ogni 2500; una particolare parola del vocabolario che diciamo d'alto uso ha mediamente probabilità d'apparire una volta ogni cento cinquantamila parole. Tutto il resto del lessico potenziale è fatto di parole che, considerando ciascuna, hanno mediamente una infima probabilità d'apparizione, non troppo superiore ai quattro milionesimi di 'atterige'. Queste diverse probabilità d'occorrenza dipendono dal fatto che vocabolario fondamentale e di alto uso mediamente coprono tra il 97 e il 99% delle decorrenze di parole nei testi e che solo la piccola percentuale testuale residua è occupata, a turno, per così dire, dalle quarantamila parole del vocabolario comune e dalle decine e decine di altre migliala di parole circolanti in una lingua, le quali, dunque, hanno una frequenza di decorrenza necessariamente bassissima. Anche il vocabolario di alto uso del Novecento ha le sue basi per il 66% nei primi secoli fino al Trecento. Rispetto al vocabolario fondamentale esso si è arricchito di più per l'apporto dei secoli seguenti, il XVI e XIX in particolare. Altro è il quadro di altre fasce del lessico. Il vocabolario della quotidianità più concreta, che diciamo di alta disponibilità o alta familiarità (indicato con [AD]), un insieme, oggi, di poco meno di duemila vocaboli, si è formato solo per meno della metà entro il Trecento, e per il resto nei secoli successivi. Ancora più marcata, e di molto, è la natura recente del vocabolario comune: solo il 16% è dei primi secoli, più del 40% appare nel Novecento. Nell'insieme del lessico, infine, l'apporto dei secoli fino al Trecento si aggira sul 9% e l'apporto del Novecento sfiora il 50%. Per metà le parole del lessico oggi in uso, una parola ogni due, sono figlie del "secolo breve", e vedremo meglio nel seguito quali, come e perché. | << | < | > | >> |Pagina 1907. Considerazioni conclusive: l'italiano sta bene, gli italiani un po' menoNel 1999 la postfazione al Grande Dizionario Italiano dell'Uso si concludeva richiamando l'espressione con cui il maggior classicista italiano del Novecento, Giorgio Pasquali, aveva qualificato l'italiano: "una lingua antica e nuova". Qui abbiamo detto della persistente vitalità delle fonti endogene di rinnovamento lessicale e delle novità tratte da altre lingue: antica e nuova continua a parere la caratteristica che più incisivamente qualifica l'italiano tra le altre maggiori lingue europee. Le ricorrenti lamentele sul presunto cattivo stato della lingua non hanno ragion d'essere. Come ebbe a dire anni fa autorevolmente uno dei condirettori di quest'opera, Giulio Lepschy, la lingua italiana in sé non ha mai goduto di altrettanta buona salute. Era cinquant'anni fa, fuori della Toscana e di Roma, lingua di minoranza. La scuola, l'ascolto televisivo, i crescenti bisogni di intendersi in una lingua comune oltre i dialetti, le istituzioni della Repubblica (Stato, Regioni, amministrazioni locali), la vita sindacale, produttiva, politica, l'informazione ne hanno fatto la lingua che, come l'ISTAT e la DOXA ci dicono, è ormai abituale per il 95% della popolazione. E non sarà da enfatizzare, ma nemmeno da trascurare che, a parte inglese e spagnolo, l'italiano gareggia con francese e tedesco come terza lingua studiata da non nativi nel mondo, oltre che, naturalmente, studiata e ben appresa dalle correnti di immigrati che arricchiscono cultura e produttività del paese. Così come sarà da dire senza enfasi, ma certo da non trascurare, che mai, nei millenni della loro storia, le popolazioni dell'Italia dalle Alpi alle Isole avevano realizzato un grado di convergenza verso una stessa unica lingua pari a quello che si è realizzato sul finire del primo cinquantennio di vita della Repubblica italiana. Le lamentele sulla lingua non hanno ragion d'essere e fanno tanto più danno in quanto, evocando gli spettri della inesistente devastazione della lingua, rischiano di far lasciare in secondo piano pericoli ben più reali che minacciano non la lingua italiana, ma gli italiani che la parlano. Assai più d'altri paesi di pari sviluppo, l'Italia soffre di bassi livelli di cultura intellettuale e di istruzione. C'è un divario tra quanti usano l'italiano, il 95%, e quanti dalla scuola e dalle letture hanno ricevuto e sanno usare gli strumenti necessari a un buon uso della lingua. Su questo aspetto si concentrano una serie di indagini oggettive, condotte in Italia e contemporaneamente in altri paesi del mondo. Sono indagini e dati di cui quattro anni fa non disponevamo. Una recente indagine sui livelli di comprensione dei testi svolta dall'IEA in oltre trenta paesi, Progress in International Reading Literacy Studies - PIRLS, mostra che tra 1991 e 2002 bambine e bambini italiani nelle scuole pubbliche elementari sono e restano ai primi posti nel mondo e, rispetto alla media internazionale di 500 punti, hanno migliorato da 525 a 541 il loro punteggio medio. A questo eccellente andamento della scuola elementare non corrisponde, come mostra un'altra indagine internazionale, PISA, un altrettanto buon risultato in uscita dalle scuole medie superiori. Ma ancora più grave è la situazione complessiva della popolazione adulta. Una terza indagine, condotta in Italia dal CEDE (Centro Europeo dell'Educazione], conclusa nel 2001 e, dopo un primo annunzio, circondata da qualche singolare silenzio, Second International Adult Literacy Survey - SIALS, informa che il 5% degli adulti e delle adulte non è assolutamente in grado di accedere alla lettura e il 33% ha gravi difficoltà a leggere, scrivere e svolgere calcoli elementari e un secondo 33% supera di assai poco questo livello. Soltanto un terzo della popolazione adulta mostra una buona capacità di lettura, produzione scritta e calcolo. Dunque meno della metà di coloro che pur parlano italiano devono farlo senza un retroterra di conoscenze e letture adeguato al controllo pieno di una lingua antica e nuova, carica di tradizioni e insieme, come si è visto, vitalmente aperta a innovazioni. È più facile e consolante gridare per un apostrofo o un congiuntivo che manchino o per un esotismo magari effettivamente ridondante che incidere su queste premesse profonde del buon uso (o mal uso) linguistico. Coloro che si professano amanti della buona lingua e noi con loro (qualche prova di ciò questo dizionario e queste parole nuove la danno) bisognerebbe che manifestassero il loro amore lavorando perché anche in Italia si affermi, come negli altri paesi ad alto sviluppo, un sistema di educazione ricorrente degli adulti, e si diffonda, come in paesi anche non ad alto sviluppo, un'efficiente rete di centri di pubblica lettura. Una recente relazione dell'ISTAT ha mostrato che solo il 19% delle famiglie italiane di alto reddito spende in un anno qualche euro per acquistare libri non scolastici e l'81% spende zero. Anche da questo solo dato ricaviamo abbastanza per capire quanto è difficile realizzare l'obiettivo di un generalizzato uso responsabile e consapevole della nostra lingua.
Eppure le potenzialità ci sono: lo attestano, per fermarci solo a qualche
aspetto, gli ottimi risultati delle nostre scuole elementari, alunni, alunne,
maestre e maestri, ed episodi come l'eccezionale successo delle letture
dantesche di Roberto Benigni o delle campagne di promozione della lettura della
Fondazione Bellonci o dei Presidi del Libro. Da queste potenzialità occorrerà
che muovano gli amanti della buona lingua "per correr miglior acque".
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