|
|
| << | < | > | >> |IndiceMENÙ 9 INGREDIENTI 10 PREPARAZIONE 12 DIFFICOLTÀ PRELUDIO Far pasta fatta in casa 17 Prigioni, pasta fresca e Tricky I MOVIMENTO: ADAGIO Conservare, proteggersi, far festa 23 Comunità, sartù di riso e Mano Negra 30 Unita d'Italia, panissa vercellesee e Fred Buscaglione 34 Invenzioni da poco, tiella di patate e Beatles 38 Memoria, cotognata e Cat Power 43 Canti, tamburelli, purè di fave e cicorie, Uccio Aloisi 47 Paganesimi, pasta e fagioli e Rolling Stones II MOVIMENTO: LARGO Viaggi, partenze, arrivi, scambi 55 Macchine stracariche, conserve di lampascioni, Neil Young 63 Migrazioni, frittata di pasta e Gianmaria Testa 61 Accoglienze, peperonate e Tigran Hamasayan 11 United Food, mozzarella antirazzista e Fela Soul 16 Bimbi di Piazza Vittorio, sambusas e Nusrah Fateh Ali Khan 82 Mozambico, caril e Chavela Vargas III MOVIMENTO: TRISTE Violazioni che uccidono memorie 87 Cemento, focaccia barese e Talking Heads 93 Taranto, cozze ripiene e la Sinfonia per un nuovo mondo di Dvorak 98 Miniere, sanguinaccio e Gil Scott-Heron 102 OGM, vellutata di zucca e Ibrahim Maalouf 107 Caporalato, pappa con il pomodoro e Lauryn Hill 112 Olio, focaccia all'olio e Public Enemj IV MOVIMENTO: ALLEGRO Resistenze 119 Vignaioli, pancetta con aceto e Robert Johnson 123 Biologico, stufati di verdura e Build An Ark 128 Barrio, salsiccia con lumache e Pete Rodriguez 132 Contadini, sagne torte e ricotta forte e Dennis Brown 137 Pescatori di Gallipoli, fritto di paranza e Criolo 141 Mercati, ciciri e tria remixati e The Cure EPILOGO Dolcezze 149 Manifesto per una cucina militante, fruttoni e Rage Against the Machine 154 Pablo, patate dolci e Ray Charles 157 A ogni donna, fondant au chocolat con crema calda di lamponi e Michael Kiwanuka 161 Perdita del tempo, Jeff Buckley e ciambella di pere sciroppate 165 Tristezze, muffettate e Arvo Pärt 169 Ringraziautenti |
| << | < | > | >> |Pagina 9IngredientiCucinare è un atto politico. Lo è la parmigiana di mia nonna, fatta solo in agosto, con le melanzane di stagione. Può esserlo evitare di comprare creme fosforescenti spacciate come pappe per bambini. Dal momento in cui si produce, si trasforma, si vende, si compra, si cucina, si mangia, ogni passaggio domanda delle scelte. Rientra nel dominio delle scelte decidere di accompagnare la cena con la musica e non con la cacofonia di una televisione. Per aiutare la comunicazione in famiglia, d'altronde, basterebbe forse spegnerla durante i pasti, o quanto meno, abbassarne il volume. Comprare prodotti freschi e non carni già confezionate con salse improbabili, permetterebbe certamente di evitare acidità di stomaco. Acquistare vini senza solfiti non riduce certo il rischio di mal di testa in caso di sbornia, ma in caso di consumo parsimonioso, sicuramente sì. Prendere la verdura direttamente dal contadino significa pagarne più correttamente il suo lavoro, oltre che una bella passeggiata in luoghi diversi da un reparto congelati assai simile a un obitorio. Domandarsi quale legame ci sia tra il prezzo basso dei cocomeri nei supermercati e la rivolta dei clandestini sottopagati dalla mafia per raccoglierli, aiuterebbe nel parlare di immigrazione. Sarebbe bello ricordarsi che il piatto del povero riportava all'antico principio di solidarietà. Se potete, aggiungete un posto a tavola. Come trovare le parole per spiegare che il risotto alla milanese sarà pure profondamente milanese, ma qualcuno lo zafferano lo dovrà pur aver portato dall'Arabia? Fu amore tra la bella e nobile Desdemona che diede il suo riso al bell'Otello d'Arabia, che lo colorò di giallo. Non affrettarsi ai fornelli può scongiurare rischi di pasti bruciati. Cucinare con lentezza conserva gli affetti e favorisce la nascita di nuovi amori. Provate a offrire Wurstel e Ketchup al primo appuntamento galante... Già che ci siete, domandatevi perché non dovrebbe essere così anche per il terzo o il trecentesimo appuntamento col proprio amore. In quest'epoca di disattenzioni sentimentali, è importante ricordare che l'amore, come la buona cucina, si basa interamente sui preliminari. Infine, a chi dice che viviamo uno scontro di culture, rispondo che il mondo è un incontro di fritture. Per tale ragione sono arrivato alla conclusione che cucinare è un atto politico e che a tavola la forchetta va sempre messa a sinistra. | << | < | > | >> |Pagina 10PreparazioneNel 2001 lavoravo a Roma come economista. La sera, facevo il dj, per divertirmi. Avevo viaggiato assai, lasciando il mio piccolo Salento per raggiungere la vivacità delle grandi metropoli. La sera, nei miei dj set al Jungle Montmartre, bar parigino di senegalesi, facevo pasta mentre passavo i miei vinili, da lì il mio nome: Donpasta. Una consapevolezza regnava ai fornelli: in città si mangia male, i prodotti sono più cari e meno buoni, difficile trovare un fruttivendolo serio, tanto meno la vecchia Ape del venditore di ortaggi direttamente dalla sua campagna. Questa consapevolezza diventò, involontariamente, Food Sound System, il mio spettacolo di cucina e musica, dove dicevo che sin da piccolo avevo imparato l'importanza del mangiar bene, e meglio in compagnia. Così iniziai a percorrere l'Italia, poi l'Europa, poi parti di mondo, per raccontare questa storia vecchia quanto l'umanità: l'uomo si protegge attraverso il mangiare, il bere, il far festa, con la musica a riscaldare, come fornello. Se leggiamo gli arrivi di Ulisse in terra straniera, nella maggior parte dei casi troveremo ad accoglierlo le braci di agnello, la lira, il cantastorie e il vino. Mi accorsi che il mio esser dj, uomo da feste, era intrinsecamente legato a quell'umana necessità di farsi comunità. Tutto questo, per quanto banale, è all'origine del mio lavoro, che inizialmente non era tale, evidentemente. Lo è diventato col passare degli anni, quando qualcuno mi ha definito un Addetto al Tempo Libero. Questo tempo libero l'ho passato visitando luoghi dove la cesura della modernità ha fatto danni insanabili, in periferie dove è impossibile trovare un fruttivendolo, né tantomeno una forma simile a un albero, parlando con contadini rivoltosi di resistenze a faccendieri senza scrupoli, in prigioni dove si fanno biscotti meravigliosi o in mercati del pesce senza frigoriferi nel pieno di un'Africa addolorata ma sorridente. Ho trovato spesso una cucina dissociata, schizofrenica, distratta, velocissima o al contrario esasperatamente buongustaia, saputella, di gente che ama parlarsi addosso. Ma ce n'è anche una piccola, fatta di esperimenti di vita e piccole economie che si reggono appena. Parlo di persone che ho incontrato, con cui ho chiacchierato. Volti che mi hanno emozionato, parlandomi delle cose in cui credono. Perché ritrovo un bel filo rosso tra la cucina popolare delle nonne e le pratiche coraggiose delle nuove generazioni culinarie: sono solidali, ecologiste, curiose, meticce, generose, inventive, festive ed economiche. Questo non è un saggio o un testo sociologico, né scientifico, non è un manuale di buone intenzioni, né una lista di pratiche coerenti, ma semplicemente un concentrato delle cose per me importanti, da cui prendo spunto e ispirazione. Il Salento, dove sono nato e cresciuto, resta un punto fermo di questa ricerca. Terra di frontiera, di accoglienza, invasioni e respingimenti. Terra di marinai, pesce, grandi mangiate davanti al mare e morti a qualche miglia al largo. Terra di terra, sudore, campagne difficili, caporalati e donne tarantate. La sua cucina tutto racchiude, difende coi denti il patrimonio comune. Mi appello a qualcosa che conosco, una chiave di lettura, frutto di un rapporto conflittuale e irrisolto in un amletico enigma: la società efficiente, rapida e moderna perde pezzi di umanità per strada, mentre a sud, l'umanità, sempre persa, divorata dalle ingiustizie, conserva codici umani nel vivere assieme. A Otranto, ancora adesso si fa la spesa dai contadini che vendono ortaggi sui loro "Apetti". Ti portano quello che hanno. Ce n'è uno, mio amico, che aveva rischiato di buttar via la vita per intero. Lo vedi dal viso, dai denti. Ma sta lì con la sua Apetta, sotto la villa a vender uova delle sue galline, che sono poche e le nasconde nel cruscotto perché le signore si litigano per averle. Come la storia di una persona sta dentro una comunità? Quella comunità protegge. Nessuno giudica quel che egli è stato. Si stima la trasformazione, guardandone la forza e il coraggio. Ogni giorno. Perché quella persona al mattino si è svegliata presto assai. Ha raccolto i suoi pomodori, o zucchine e ogni singola tossina è andata via. Infine la vendita, gesto di condivisione nel cacciare gli spiccioli. In essa c'è un passaggio di consegne: "dammi la tua fiducia, compra le mie scarcioppule, i miei carciofi, ti ripago nel modo più bello, cambiando". For the times they are a-changin' | << | < | > | >> |Pagina 12DifficoltàI piatti di cui parlo sono facili. Non ci sono ricette complicate, né ingredienti sofisticati o costosi. Perché dietro ogni ricetta si possono ritrovare storie belle di donne e uomini. Mi interessava domandarmi del come una ricetta nasca, del suo potere evocativo, perché mí trovo spesso a disagio guardando in cosa si riassume oggi il cibo: cucine omologate, panini di plastica, grandi chef. Un giorno una ragazza di un ufficio stampa mi spiega che per far funzionare un festival sul cibo serve un grande nome della cucina. Ennesima ragione buona per decidere di non farvi appello. Mi sconvolge lo sfasamento tra l'oggetto del discorso e la sua trasformazione in oggetto di spettacolo. Non me ne vogliano i grandi cuochi, belle persone, gente curiosa e indomita, ma diventati essi stessi vittime di questo gioco a creare élite gustative. Invertire gli elementi è una mistificazione che non fa bene a nessuno. La cucina è un linguaggio comune e universale. Il cibo è servito nei millenni per costruire comunità, dunque democrazie, nella misura in cui il mangiare è elemento sociale prima che gustativo. L'alta gastronomia, viceversa, crea élite del gusto, aristocrazie. Le ricette sono volutamente incomplete o parziali. Alcune frutto d'immaginazione mia o di amici, cuochi e non. Altre sono ricette antiche, passate di mano in mano, di bocca in bocca, senza necessità di portarne traccia scritta. Solo la memoria, il senso della misura, il ricordo del colore, del profumo a farne da filo rosso. La mano resta la migliore bilancia, il prendersi tempo il miglior timer, molto più affidabile di indicazioni che non tengono conto delle tante variabili che fanno diventare propria una ricetta universale. Chiunque può lasciarsi andare a quel piccolo piacere del cucinare. Basta un pizzico di curiosità e soprattutto basta concedersi il tempo, offrirselo. Il cibo è offrire qualcosa. Passare ore e ore a cucinare per qualcuno, semplicemente perché è il modo più bello per dire mi casa tu casa.
Il cibo è rifugio, perché, come dicono gli
Assalti Frontali,
bisogna avere una casa per poter andare in giro per il mondo.
P.S.: La musica è per me indispensabile. Non potevo fare a meno di cercare nessi, affettivi, personali, tra i piatti e i musicisti che più amo. Mi fa sorridere, mi rievoca i momenti più belli della mia vita, in cui compaiono indissociabili queste due cose assieme. Non c'era cena, festa, chiacchierata che non avesse un sottofondo di soffritto e gracchiare di vinili. Ancora adesso mi accade di ritrovarmi pensieri scritti su tovaglie, pagine cucinate, dischi digeriti, fogli di appunti sporchi di tazzine di caffè e olio. Potrei associare ogni cosa, nella mia vita, a una canzone e una ricetta. Secondo P.S.: Per quanto riguarda il bere ho accuratamente evitato di parlarne in gergo tecnico. Vi risparmio quindi sentori di vaniglie e corbezzoli. Ogni tanto troverete qualche nota buttata lì, buona scusa per parlare di qualche bell'incontro tra persone, più che tra bevitori. Terzo P.S.: Inutile specificare che le mie ricette funzionano se si usa solo ed esclusivamente olio di oliva extravergine, prodotto artigianalmente. Altrimenti, lasciate perdere. Quarto P.S.: Le dosi sono solitamente per quattro persone, salvo diverse indicazioni e l'olio si intende sempre, rigorosamente, extravergine di oliva, anche senza ripeterlo continuamente. | << | < | > | >> |Pagina 30UNITÀ D'ITALIA, PANISSA VERCELLESE E FRED BUSCAGLIONEIn epoche di regionalismi esasperati, avevo voglia di capire cosa ci accomunasse in quanto nazione. Agli occhi di tutti, restiamo il Paese della lirica, del sole, del Rinascimento e del buon mangiare. Mi hanno chiesto di immaginare uno spettacolo sul cibo per i 150 anni dall'unità, che ho chiamato La storia d'Italia in dieci ricette. Ce ne vorrebbero diecimila di ricette per descrivere la complessità della nostra gastronomia e della nostra storia, una per paese, forse per famiglia. Ma non volevo perdermi in particolarismi. Cercavo un senso di unità, qualcosa che potesse in un certo senso farla sentire avvolgente, caratterizzabile con poche parole, esempi chiari ed elementi emblematici. Qualcosa ho trovato, un senso comune più che dei fatti specifici: la povertà e l'emigrazione, dal sud come dal nord, la fantasia di ricette che partono dal nulla, l'essere un popolo con una radice contadina. Ma, soprattutto, ho capito che il tratto distintivo della nostra cultura è... il soffritto. E il bel canto.
Base fondante di tutta la cucina nazionale.
Vercelli, giugno 2011 Tagliuzzando cipolle, mi pongo la seguente domanda: esiste un nesso tra il rischio di sfaldamento di un'identità nazionale e la rottura dell'alchimia messianica che va sotto il nome di tradizione gastronomica popolare? Probabilmente sì. La salvezza, versando abbondantemente olio nella padella, va dunque cercata in un denominatore comune di questa identità. Un fatto specifico che sia simbolicamente all'origine di una nazione. Faccio una premessa, mentre aggiungo sedani e carote tritati finemente. C'è una base fondante e non detta, inespressa: la storia d'Italia è contadina, fatta di tavolate, pene, lavoro e canti. Accendendo il fuoco, prima a fiamma alta e poi bassa, posso dire tranquillamente che la mia è una storia d'Italia piccola, indivisibile, senza un fatto preciso che ne decreti la nascita. È la nobiltà della cucina povera, più di ogni altra cosa, che l'ha fatta nazione. Benché affamati, al poco che si aveva gli si sapeva dar gusto. Per far questo, dalla Sicilia al Piemonte, dalla Sardegna al Friuli, il vero punto in comune è il soffritto, il suo profumo. L'Italia ha come infrastrutture: olio, strutto, burro, lardo, base per cipolle, aglio, scalogni, talvolta carote e sedano. Ingredienti diversi e stessa tecnica, da nord a sud. Anche se a Vercelli, nel soffritto per la panissa, non contenti, mettono anche il salame conservato nello strutto. Dietro una ricetta c'è la storia di un popolo di mondine accomunate dalle tragedie e dalla forza per superarle. Riso, fagioli, lardo, salamino e un segreto: "il riso nasce nell'acqua e muore nel vino", Barbera, se possibile. Una signora di Vercelli mi ha spiegato che quello che si vedeva in Riso Amaro non era nulla in confronto alla realtà dello stare per ore nell'acqua con bisce e zanzare, al caldo, piegate sotto il sole. C'era una cosa che risollevava la loro stanchezza: alla sera, il canto, il ballo, il riso e il sorriso. Le belle arie di Modugno, Carosone e Buscaglione alleviavano le fatiche. Il jazz al servizio della canzone popolare. Ma chi ha inventato la panissa? L'intuizione di una persona o una somma di conoscenze? Oltre alla pesantezza, criterio di cui abbiamo già parlato, vi sono altre ragioni perché un piatto sia capace di rappresentare in sé un luogo intero, le sue genti? È una foto immobile o è un continuo aggiungere e togliere? Penso che la cucina sia come la storia dell'umanità, dove trovano posto momenti di profonda crisi, di grandi miserie, di follie e ingiustizie, di ricchi che tolgono il pane ai poveri e altri che fanno crescere l'umanità intera, fatti di grazia, di festa, di solidarietà, di rivolta. A volte, grazie al coraggio di un grande uomo o una grande donna, come Mandela o Rosa Parks, che dietro i fornelli inventa una ricetta perfetta. Più spesso non c'è capo, né leader. C'è chi porta il maiale, chi i fagioli, chi il riso, chi il vino, come nella Resistenza. Non c'è mai stato l'inventore della ricetta magica, né il proprietario delle pentole, piuttosto intuizione collettiva, coscienza comune, ricetta frutto di discussioni perenni, un aggiungere e togliere olio, metterci un pizzico di pepe, buttarci dentro quel salame ormai troppo secco da mangiarlo crudo. L'Italia bolliva di resistenze, il coraggio soffriggeva. Sorta di cucina che si univa, da Napoli a Milano, da Roma a Bologna, dal Piemonte alla Sicilia. Fu resistenza gratuita, offerta dalla gente per la gente.
LItalia è una Repubblica basata sul lavoro, il soffritto e il pomodoro.
PANISSA VERCELLESE E BUSCAGLIONE È affascinante la capacità tutta italiana di fare dei piatti devastanti con quello che per gli orientali – il riso – è invece ingrediente purificatore. La panissa è piatto armonico, saporito e di sostanza. Così ne parlano Eugenia, che benché vegetariana si è prestata al gioco, e gli amici di Vercelli: "Mi ricorda il pranzo dai miei nonni alle dieci e mezza di mattina, prima che il nonno andasse a tagliare riso. La pentola di coccio che bolliva sulla stufa della nonna, il fumo e l'odore di legna bruciata mescolato al profumo del cibo, la nebbia e l'umido fuori e il piacere di entrare nella cucina tutti infagottati e sentire quel profumino caldo e accogliente".
La componente acida del vino altera gli equilibri, dando leggerezza. Un po'
come lo swing italiano, casereccio, decisamente sopra le righe, ma dal ritmo
impeccabile.
Ingredienti 200 gr. di fagioli secchi di Saluggia 350 gr. di riso superfino Baldo 50 gr. di lardo non speziato 2 o 3 salami sotto strutto chiamati "salam cita duja" cotica di maiale ben raschiata 1 cipolla bianca, rosmarino, 2 cucchiai d'olio, 1 noce di burro, pepe e sale q.b. sedano, una carota, uno spicchio di aglio un buon e semplice barbera. Preparazione
Mettete a bagno i fagioli in acqua fresca la sera prima per almeno dodici
ore. Bolliteli a fuoco lento con la cotica, sedano, carota, aglio e sale.
Estraete i fagioli, che conserverete in una coppa con un bicchiere di vino
rosso. In un tegame, possibilmente di rame, soffriggete la cipolla bianca
tritata finemente. Bello sarebbe di farlo solo in olio, ma qui la storia è
diversa: oltre al liquido dorato ci vanno infatti un goccio di burro, i salami
sbriciolati con le mani e il lardo a pezzettini. Aggiungete il riso, mescolate
con un cucchiaio di legno il tutto per un minuto per fare assorbire il
condimento. Versate regolarmente un po' del brodo dei fagioli, che unirete poi
alla fine della cottura. Lasciate riposare per qualche minuto, con una
spolverata di pepe nero.
Barbera
Barbera, barbera, barbera. Sorta di mantra che echeggia sul letto del Po.
Scorre a fiumi, si potrebbe anche pensare. È vino che protegge, sembra quasi un
grande uomo, bonaccione e sorridente con una lunga barba. Vino modesto,
non nel senso della qualità, ma del suo fare, degno ma sereno. Sta lì,
quotidianamente ad accompagnare i pasti contadini. Amico di sempre e per sempre.
Questo è ciò che si respira nell'aria brumosa di campagne silenziose del nord.
Profumo di barbera e pause belle tra una parola e un'altra.
Fred Buscaglione
Genio assoluto, assieme a Carosone, Rascel e Modugno. Stupisce
l'intelligenza e l'ironia dei testi, la modernità degli arrangiamenti, il saper
adattare uno stile
profondamente americano al canto italiano. Era un'epoca d'oro. Buscaglione il
maledetto, il nostro James Dean. Testi semplici, divertenti, capaci in poche
parole di tratteggiare un'epoca intera e i modi di essere della gente. Tra le
pagine più preziose della musica italiana del dopoguerra.
Riso Amaro Dimenticavo una cosa tra le cose che fanno l'Italia. Un elemento fondamentale, unificante: il cinema. Partendo da Riso amaro, per arrivare a Miseria e Nobiltà, Un americano a Roma, I Soliti Ignoti, l'unione tra la fame e la pellicola permetteva di interpretare un passaggio tragico, ne era metafora. Il cinema stesso è diventato parte della storia. In quell'epoca di tristezze da guerra ancora in corpo, di paste e fagioli, di maccaroni e bici rubate, si percepiva un tentativo di venirne fuori col coraggio e l'immaginazione. Chi ha fatto quei film parlava la lingua di tutti, ne raccontava le storie, aiutava a capire quanto quel luogo fosse stato capace di trasformare la propria storia, partendo da solide basi, come il soffritto. La funzione unica dell'arte. | << | < | > | >> |Pagina 49PASTA E FAGIOLI E ROLLING STONESA Roma si dice a chi ha comportamenti informali fuoriluogo: "Avemo mai magnato pasta e facioli assieme?". Come a dire, questo è piatto da grandi occasioni, solo per persone care, un piccolo tavolo e un bicchiere di rosso. I Rolling Stones, da buoni inglesi, abituati a mangiar fagioli anche a colazione, apprezzeranno l'abbinamento. D'altro canto, farei fatica a immaginare Keith Richards a un pranzo di gala a parlare garbatamente con una tartina di foie gras in mano.
I toscani sono a mio avviso i maestri assoluti nell'uso dei fagioli. A loro
mi appello.
Ingredienti 200 gr. di pasta (in genere si mettevano gli avanzi di varie paste secche, meglio di piccolo formato) 500 gr. di fagioli cannellini freschi (o 300 gr. secchi) passata di pomodoro salvia, rosmarino 1-2 spicchi d'aglio olio extravergine d'oliva sale, pepe, peperoncino Preparazione
Lessate i fagioli in 2 litri di acqua salata con 1 spicchio di aglio, salvia
e 3 cucchiai di olio. Una volta cotti, passatene una buona parte. Conservate
l'acqua di cottura. Imbiondite 1 spicchio di aglio nell'olio, aggiungete poca
passata di pomodoro, il rosmarino e il pepe. Unite dopo poco il passato di
fagioli. Cuocete la pasta nel passato, aggiungendo il sale e l'acqua di cottura
dei fagioli per regolare sapore e densità. Servite dopo qualche minuto
con un filo di olio crudo e poco pepe fresco o peperoncino in polvere.
Pitatza
Il miglior vino da festa mai bevuto. Anche in questo caso, se solo Keith
Richards avesse modo di scoprirlo sarebbe d'accordo con me. Le ragioni sono
diverse. La prima è che è prodotto da una banda di folli, non per venderlo, ma
da consumare durante le mille cene indispensabili per organizzare l'Ariano Folk
Festival. Poi, scende velocemente, il che può rappresentare un problema il
giorno dopo. Ma provate a bervi litrate di nero d'Avola da supermercato. Non ce
la farete, è come mangiare dodici stecche di cioccolato. Il vino corposo, fatto
male, pesante, a un certo punto stanca. Il
Pitatza
è fatto con sapienza antica,
resta leggero, piacevole, è un vino amichevole. Infine, per anni è stato un
vin de garage,
fatto a casa, per hobby, ma da gente che di vino se ne intende assai,
capace di lasciare invecchiare un vino naturale, non filtrato e non
stabilizzato, cosa veramente assai difficile. In sintesi, se capitate ad Ariano,
chiedete del
Pitatza,
ma fate attenzione. I ragazzi sono un po' pericolosi.
Rolling Stones
Ho parlato prima dei Beatles e iniziavo a sentirmi in colpa per non aver
citato gli Stones. Amo entrambi, per ragioni opposte. Gli Stones perché sono
sacerdoti pagani, felici come bimbi di aver venduto l'anima al diavolo, si
riscaldano serenamente in quell'inferno che loro continuano a chiamare
rock'n'roll. Probabilmente sono figli di un amore non dichiarato tra il bluesman
Robert Johnson e un'operaia inglese nel dopoguerra, nel loro essere
profondamente ancorati alla
Swinging London,
ma con il Mississippi come fiume
che scorre davanti e non il Tamigi. Musicalmente tutto di loro è riconducile al
blues, ma gli Stones sono tali perché di animali da palco come Mick Jagger ne
nascono pochi al secolo. In concerto, solo James Brown aveva il suo carisma. Sul
ruolo della chitarra di quel pirata di Keith Richards si potrebbe parlare ore,
ma il pensiero lo sintetizzo in due parole e vale in musica come in cucina. La
tecnica a volte conta quanto il due di picche, se c'è la libertà, passione e la
fantasia. Si può essere grandi cuochi e musicisti se si mettono tutte le viscere
di cui si è fatti, anche se si è autodidatti. Il viceversa, rischia proprio di
non valere.
De Martino L'analisi di Ernesto De Martino nella Terra del Rimorso rappresenta la punta più alta e ancora attuale della ricerca sul tarantismo e sul tessuto socio-culturale salentino. Fu il maestro del nostro sud perché intuì una cosa fondamentale. Che questo mondo, lacerante e lacerato, esprimeva un profondo rapporto con l'irrazionale. Proprio l'elemento "magico", con i suoi rituali, aveva permesso di rapportarsi con una realtà umana che non aveva definizione possibile nelle analisi positiviste. De Martino, da laico iscritto al PCI, capì che l'incapacità di rapportarsi al mondo magico, il suo annullamento, avrebbe fatto perdere la battaglia con la religione, che ne era l'unica vera detentrice. Un'ipotesi forte la sua, in questa battaglia con il marxismo. In Salento, De Martino riconosceva a questa gente la capacità di rapportarsi con il mondo non cosciente attraverso movimenti, convinzioni e convenzioni antecedenti all'innesto del pensiero religioso. Gente capace di accettare di rapportarsi con questo malessere, di riconoscerlo e dargli un nome, che fosse tarantola quasi poco importa. | << | < | > | >> |Pagina 107CAPORALATO, PAPPA CON IL POMODORO E LAURYN NILLQuesto libro pare un'apologia del sud. In un certo senso lo è, nel suo insinuare un granello di sabbia in un meccanismo di pensiero che ha smesso di essere relativo. Che dice: "Lavorare di più, per guadagnare di più". E se uno non avesse voglia di guadagnare di più? E se uno volesse lavorare meno e occuparsi meglio degli affetti, diventando magari anche più efficace e produttivo? E se uno guadagna tanto, va ogni sera al ristorante e poi vengono le gastriti? Insomma, è semplicemente un modo per ricordare che le cose non sono poi così chiare come sembrano. Come questo sud, ammaliante e tragico allo stesso tempo, con ricchezze da portarsi appresso e cose da cui separarsi per sempre. Tutte queste contraddizioni possono tranquillamente essere contenute in un cocomero e nel suo valore, simbolico ed economico. Quando si paga un cocomero trenta centesimi al chilo in un ipermercato della periferia romana, c'è da chiedersi dove stia l'inghippo. Magari il cocomero, grazie a un sole generoso, è grande, zuccherino e con tanto gusto. Ma non può costare così poco. Significa che chi raccoglie non è pagato. Però negli ultimi anni sono successe due cose simbolicamente molto importanti. Un coraggioso giornalista de "L'Espresso", Fabrizio Gatti, si è finto migrante e bracciante per lavorare nei campi del foggiano come raccoglitore stagionale assieme a migliaia di clandestini. Quello che ha scritto ha fatto accapponare la pelle: salari da fame, violenze e intimidazioni, denutrizione, medici che violano le regole deontologiche del loro mestiere, strani incendi da Ku Klux Klan reputati casuali dai giudici e poliziotti che puniscono l'immigrato e mai chi lo sfrutta. Nelle campagne è cambiato assai poco. Ma qualcosa di strano, quasi inimmaginabile è successo, a Rosarno, in Calabria e a Nardò, in Salento. Dei raccoglitori stagionali, noncuranti del rischio di essere mandati via per sempre, hanno denunciato le condizioni drammatiche e inumane in cui erano obbligati a lavorare. Per la prima volta degli uomini che non avevano niente da perdere si sono rivoltati senza paura alla mafia, macchina imprendibile e mutevole, convenzione sociale che dura da millenni.
Per lo Stato, questi uomini sono clandestini. Per me, eroi.
Rosarno, Calabria. Gennaio 2010 Si è rotto qualcosa. Cortocircuito. Cancellare uomini si è sempre fatto. Cancellarne le ombre, ciò che resta sotto il sole infuocato, è morte essa stessa. Avrei sperato che nessuno se ne accorgesse. Che si facesse finta di nulla. Che il caporalato fosse solo un'onta del passato e il latifondismo un ricordo del dopoguerra. Che il sistema colluso di mafia, proprietari terrieri, medici e poliziotti fosse un anatema, una jattura antica, ma estirpata. Che la necessità evidente di manodopera dai sud del mondo per la raccolta stagionale, che un italiano rifiuta di fare, non fosse usata come strumento di propaganda. Sembra l'ennesimo cortocircuito tra antico e moderno. Sistemi mafiosi dai codici ancestrali su una babele di disperati di tutto il mondo e non più sulle donne di paese. La nozione marxiana di esercito industriale di riserva è dell'Ottocento, ma pare che due secoli siano passati invano. Ora ha nome aulico per riformisti alla ricerca di terze vie: flessibilità. Per generazioni nuove e immigrati di ogni sorta si chiama, più prosaicamente, precarietà. Dietro ogni persona ci sono mille altri schiavi pronti a farlo alla metà della tua paga. Raccogliere. Piegare la schiena. Uomini forti. Uno di fianco all'altro passano rapidamente cocomeri giganti. Raccolgono. Le offese di essere meno di niente. Nella quiete del mattino presto. Nello sprezzo di chi ti carica, caporale aguzzino dei suoi simili. Come se la parola solidarietà fosse scomparsa per sempre. Come se non fosse mai esistita. Umanità sotterrata. Annessa alla terra. Schiacciata. Bagnata dal fango. Sporcata. Why don't you rebel. Wake up, wake up, wake up. Canta e piange Lauryn Hill, canta e piange, nel dire, nel dirsi: alzati, ribellati, per favore. Loro si sono ribellati e il paese intero gli ha sparato addosso infamie. Come a dire: mai cambiare un'autarchia, anche se ingiusta. Dicono che a vincere sia Creonte. Che siano le regole a ristabilire l'ordine. Che gli uomini sono bestie. Che tra bestie ci si mangia. Che l'uomo è quell'essere che al contrario delle bestie sa concepire delle regole da imporre. E sono quelle regole che fanno la democrazia. Non funziona, e nessuna regola attutisce violenze e ingiustizie che ne sono conseguenza. Nessuno mi ha avvertito che il sud è truccato. Che non esiste. Non esiste più. Mi chiamo Donpasta, non Donchisciotte. Sono senza forza, con poche munizioni, in una lotta che dura da secoli, da millenni. Ho aglio, un po' di pomodori, per precauzione ho vino a sufficienza. Mi sembra di stare fuori luogo ovunque. Fuori tempo massimo. Continuo a parlare della parmigiana, dimenticando che la rivoluzione non è un pranzo di gala. La mia è una battaglia persa, in quel sud dove l'uomo è come se volesse dimostrare ogni volta, in ogni istante, che, dove ci sono passioni, ci sono martiri, Antigoni, che si rivoltano alle regole imposte, ma che muoiono. Vorrei essere questi ulivi. Vorrei poter aver visto tutte le solidarietà che hanno fondato una società che almeno per un momento ha mostrato che la parola tolleranza fosse possibile. Vorrei condividere pane. Per questi uomini senza terra, frustrato, offro il frutto del loro sudore. La vera pappa col pomodoro con pane raffermo. La storia l'ha insegnato, che il popolo affamato, fa la rivoluzion.
Viva la pappa al Pomodoro!
PAPPA CON IL POMODORO E LAURYN HILL
Poco da spiegare, se non che mi sono sempre sentito un po' Gianburrasca e
che sono drogato di pomodori. Da mangiare crudi, con olio, sale e origano
sulla frisella, da mettere nel sugo, da fare
confit,
nel forno, con zucchero e aceto. Ogni scusa è buona. Ma mi serviva una ricetta
che esemplificasse un pensiero rivoltoso, scarno, malinconico sotto il caldo
fatale. V'invito spassionatamente ad ascoltare l'intero disco di
Unplugged
durante la preparazione e il pranzo. Piatto povero per chitarra, voce, pianti,
sospiri, nervosismi, silenzi. Come le canzoni di Lauryn Hill, questo piatto non
è buono. Questo piatto è. Sta lì per darti forza, sfamarti, farti sorridere, ti
fa pensare alle cose belle, cancella per un istante quelle brutte. È un piatto
per resistere.
Ingredienti 4 fette di pane casereccio 1 kg. di pomodori maturi pelati e privati dei semi 6 foglie di basilico tritato 1 spicchio di aglio olio d'oliva Per il brodo: 1 costa di sedano 2 carote 1 cipolla prezzemolo 1 dado senza glutammato sale e pepe. Preparazione
Cuocete un brodo vegetale con sedano, carote, cipolle, prezzemolo e un
dado. In una padella soffriggete l'aglio in olio, per poi aggiungere i pomodori
tagliati a pezzi e il basilico. Dopo un quarto d'ora circa, versate il brodo,
aggiustate di sale e pepe, portate a lenta ebollizione e unite il pane raffermo
sino a che non sia completamente disfatto. Condite con olio d'oliva
saporito a crudo e servitela tiepida.
Vino di libera Terra
Con la pappa al pomodoro ci vuole un bianco, o un rosato, nel caso vi
trovaste in Salento. Visto il tema, il vino non va scelto a caso e ancora una
volta non è libro per sommelier ma per rovistatori di piccole coerenze. Il
cassiere della Sacra Corona Unita raccontava in un'intervista di essere
disgustato dallo Stato per avergli, quest'ultimo, tolto le sue magnifiche vigne.
Oggi sono assegnate e curate con metodo biologico dalla cooperativa sociale
Terre di Puglia – Libera Terra, nata nel 2008 da un progetto nazionale
dell'associazione
Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
La cooperativa lavora per riportare a
nuova vita quei filari di negroamaro e primivito, dimostrando che si può
cotruire lavoro regolare, giustizia sociale, democrazia ed eccellenza nel vino
anche a partire da quei terreni una volta presidio di malaffare. Terre oggetto di
continui e violentissimi attacchi intimidatori. Ma si resiste e si lavora per la
qualità dei vini biologici, tutti dedicati ad Hiso Telaray, un ragazzo albanese che
non ha piegato la schiena di fronte ai caporali.
Lauryn Hill Nella musica militante c'è una scissione affascinante. Tra i bianchi, le cose più interessanti sono uscite fuori dal rock. I Clash, Rage Against the Machine, Springsteen, oltre, ovviamente, alla chitarra solitaria di Bob Dylan. In generale, il suono rivoltoso bianco è efficace e musicalmente scarno. Quello nero è completamente diverso. Fatto di parole chiare e trascinanti, accompagnate da coretti e canti dolci e sensuali, quasi ad accogliere la protesta. I più grandi ci si sono confrontati, da James Brown a Curtis Mayfield, da Bob Marley a Gil Scott-Heron. Lauryn Hill, con la chitarra e la sua voce, sporca, calda, non invoca una ribellione, la implora e piange, semplicemente. "Are you satisfied? Why don't you rebel. Wake up, wake up, wake up". È cresciuta nel combo dei Fugees, che ha stupito tutti con il formidabile The score, disco in perfetto equilibrio tra hip hop e new soul. Poi una carriera solista in cui emerge tra le massime rappresentanti, con Erika Badu, del movimento r'n'b. Infine un doppio live, Unplugged, in cui si presenta sola al pubblico, tra parole e canzoni scarne e nude, dove emerge, senza filtro, la sua crisi, attraverso l'intensità della voce e delle sue interpretazioni. Da anni non riesce più a far dischi, purtroppo, avvolta da una nuvola di dolori personali. | << | < | > | >> |Pagina 149MANIFESTO PER UNA CUCINA MILITANTE, FRUTTONI E RAGE AGAINST THE MACHINELa cucina va di moda. Tanto meglio. Dopo tanti aperitivi frettolosi e diversi salti in padella, tutta quest'attenzione verso il mondo del cibo, seppur superficiale, permette di riaverne il giusto peso. Ci sono esperienze meravigliose, miliardi di blogger geniali e appassionati, artisti che lavorano sul nesso tra ciò che si mangia e ciò che si esprime, moltissimi attivisti che fanno lotte vitali, sacrosante, come Vandana Shiva, e un'intera generazione di nuovi contadini, vignaioli, mastri birrai, cuochi e artigiani del cibo con passione, consapevolezza e libertà. Ma ci sono, come in ogni posto, furbetti, che saltano sul carro del biologico facendo le stesse identiche cose di prima, ma con un bollino comprato e appiccicato, cuochi che si credono star e televisioni che mostrano cibi perfetti, puliti, glaciali, dimenticando la bellezza precaria della cucina casalinga.
Questo è il mio manifesto per una cucina militante.
Roma, maggio 2010 È un'epoca di improperi, moralismi strillati e risate grasse come cibi preconfezionati, imbottiti di zuccheri. Ci si contenta di euforiche allegrie e si dimentica la malinconica bellezza dell'allegoria. Chi non urla è fuori mercato. Funziona la carne rossa, assai meno uno stufato di cotiche e fagioli fatto con amore. Non posso continuare a parlare di cucine ricche di genialità, di dolcefarniente, di colori e sapori con questo puritanesimo integrista come un pane integrale. A noi piacciono le focacce unte, piuttosto, lo sporcarsi la lingua di crema pasticcera, il leccarsi le dita. Noi siamo quelli che almeno una volta abbiamo rubato la marmellata e da allora mettiamo le dita ovunque, per curiosare, talvolta scoprire.
È un'epoca di carne magra e rossi filetti per un'alimentazione equilibrata.
I piatti più saporiti, oggi, vengono visti con disgusto. Testa di vitello, palle
di toro, piede di porco e pezzetti di cavallo. Ecco, il cavallo è la nostra sola
carne. Lui, ormai bestia sacrale di cavallerizzi e animalisti perbenisti,
diventa tabù. Il contadino non aveva niente. Aveva un cavallo con cui arava la
terra. Il cavallo a un certo punto, vecchio, era pronto a morire. Il contadino,
anche, di fame. Unica soluzione, mangiare il cavallo in fin di vita. Ma
mangiarlo bene. Poveri sì, ma con dignità.
Non sono più i tempi delle cozze pelose. Già dal nome marca male. Sushi è la parola magica, ascoltando Buddha Bar, per rilassarsi, magari dopo aver licenziato quindici operai, perché mangiare sushi riempie la bocca senza mangiarlo, semplicemente perché fa fico. Stando in un mondo fusion, accompagnate il tutto con un sauvignon e non con il saké, che, effettivamente, fa meno fico con quel bicchierino piccolino. Fa niente se disintegrate tutta la fauna marittima, in particolare i tonni rossi in via di estinzione, perché è cucina sana e leggera. Cozze, cozze pelose e polipi crudi. Questo è il nostro porto, la nostra casa. Parlo chiaro usando la metafora del fruttone. Il nostro manifesto è ricco di proteine grasse con olio a manetta e strutto. I falsi miti occidentali sulla leggerezza creano mostri. Provate a mettere burro al posto dello strutto nella pasta frolla. Soffre, respira a fatica e diventa spesso mattonella. La pasta frolla con lo strutto prende slancio. Il fruttone è allora quel suicidio nichilista del pasticciere che in agosto pensa che si possa mangiare un dolce con pasta di strutto, con all'interno un soave strato di pasta di mandorla e una marmellata di pere. Sopra, del cioccolato fuso. Il fruttone è un pensiero complesso, cibo dell'anima, qualcosa da offrire ad ogni costo. Siamo figli e nipoti di guerre e tanta fame, che se stai sciupato ti danno da mangiare di più, che devi crescere, se stai sovrappeso ti danno da mangiare di più, che devi mantenerti in buona salute. Noi diventiamo segretamente carbonari, oltre che movimento per pasta succulenta, è artiglieria di pomodori di stagione per organizzare la passata fatta in casa. Abbiamo bisogno di spiriti insoddisfatti dai realismi. Di barattoli conservati a bagnomaria, senza bisogno di microonde. Mettiamo a disposizione il nostro savoir faire. Esperti e pluridiplomati in cazzeggio. Dopo anni di spiagge salentine, siamo addetti al tempo libero e vogliamo sfruttarlo nel modo più efficace possibile. Non fare un cazzo. Ma per davvero, non per finta. Siamo paladini della chiacchiera inutile. Siamo il partito degli occhi rivolti verso il cielo. Siate carbonari sino in fondo. Esercitatevi alla perdita del tempo. E sopratutto, strutto, strutto e strutto.
Votate Donpasta!
FRUTTONE DI ASCALONE E RAGE AGAINST THE MACHINE A Galatina, terra del tarantismo, e di Ascalone, si scende nel profondo della storia umana, nella rabbia, nella collera ancestrale. Il fruttone, nutrizione sacrale e fiore del peccato, si pone all'intersezione tra il pasticciotto e il tarantismo, tra il piacere dionisiaco e la pizzica, tra la dolceria finissima e l'etnologia. A pochi metri da quella pasticceria, le donne tarantate strillavano canti di maledizione al loro dolore. "Fuck you, I won't do what you tell me". Fanculo, non farò mai ciò che mi dici di fare. Lo dicevano loro, vulnerabili e annichilite, lo dicevano i Rage Against The Machine, lo dice Ascalone, contro modernità instupidite che spacciano l'effimero per leggerezza. Per parlare del fruttone devo citare il maestro di tutti i pasticcieri salentini: Ascalone, appunto. La sua pasticceria è una delle cose più belle che si possano incontrare in Puglia. Profumi, sapori, arredamento, arte e artigianato applicati alla gastronomia.
Il pasticciotto e i fruttoni di Ascalone sono l'ultimo baluardo di un
Salento che rischia di dimenticare che ogni cuoco o pasticciere è soprattutto
artigiano e artista. Questa è la sua forza. Al contrario del pasticciotto, il
fruttone è underground, per fini conoscitori e grandi golosi, ma va fatto bene,
altrimenti è pesante e indigesto.
Ingredienti (Ricetta di casa, con queste proporzioni ne vengono circa una quindicina) La pasta frolla: 1 kg. di farina 1/2 kg. di zucchero 1/2 kg. di strutto 4 uova intere e due tuorli 1 bustina di lievito per dolci 2 bustine di vaniglia cioccolato fondente marmellata di pere (o mele cotogne) crema di mandorle (300 gr. di mandorle spellate, 300 gr. di zucchero, 4 uova). Preparazione
Fate la pasta frolla impastando tutti gli ingredienti senza lavorare la
pasta. Lasciatela riposare al fresco per mezz'ora. Preparate la pasta di
mandorla e impastatela con i tuorli. Montate a neve gli albumi e aggiungeteli
delicatamente alla pasta di mandorla; mescolate fino ad ottenere una crema
omogenea. Stendete una sfoglia alta mezzo centimetro e foderate gli stampi
(ovali o rotondi), unti e infarinati. Farciteli con uno strato di marmellata
e versateci sopra la crema di mandorle. Infornate a 180 gradi per circa
mezz'ora. Fate raffreddare i fruttoni e capovolgeteli su un piatto da portata.
Rivestite la parte superiore con cioccolato fuso a bagnomaria.
Acqua
Da bere, acqua. Pubblica, non in bottiglie di plastica, non svenduta. Che
sono trent'anni che si è deciso che di Stato meno ce n'è, meglio è. Che la
scuola privata, la polizia privata, le carceri private, l'elettricità privata e
anche l'acqua privata, così sarà più efficiente. Sono trent'anni che ogni
privatizzazione diventa privazione di un diritto di tutti e centro di malaffari,
spartizioni tra potentati,
e distruzione di un Paese. Per questo, mi attacco alle nasone romane e mi bevo
litri e litri di acqua pubblica. E se qualcuno prova a spostarmi, gli faccio
esplodere il fegato ingrassandolo a fruttoni.
Cucina giapponese
Le deformazioni della moda sulle abitudini alimentari e sul mercato hanno un
che di surreale. Rimango a bocca aperta quando mi si parla del sushi come il
proprio piatto preferito. La cucina giapponese, e quella orientale in genere, è
forse la più sana, varia, equilibrata e saporita. Ridurre una cucina nazionale a
un piatto di antipasti, lo trovo se non altro limitante. E parla uno che di pesce
crudo ne mangia a tonnellate.
Cene carbonare
Da quattro anni, con l'associazione Terreni Fertili, organizziamo un
minuscolo festival indipendente, il Soul Food. Festival sul cibo e la
sostenibilità ambientale.
Come parlare di cibo, in modo informale, a un pubblico largo? La soluzione più
forte l'abbiamo trovata nelle cene carbonare. Bisogna volerlo veramente, di
essere carbonari. Un messaggio avvertirà del luogo, solo all'ultimo. Il
carbonaro è
gourmet, ma non solo di carbonara. Nelle cene carbonare esiste un banditore con
il suo annuncio pubblico. Allora il carbonaro sa che si deve ricominciare dal
basso. Dai tarallucci e vino. Pare sia segno di compromesso il taralluccio e
vino. Noi delle cucine carbonare iniziamo proprio da lì. Da un discutere attorno
a un tavolo per cercare di capirci qualcosa in più di questo mondo affaticato.
Abbiamo sempre bisogno di carbonari e carbonare, di case accoglienti e cucine
piene di guanciali e maccheroni, di profumi di Africa e spezie d'Oriente. Non
abbiamo bisogno dei sotterfugi del potere, ma delle loro cantine sì, piene di
buon vino, dove poterci incontrare e discutere. Ognuno porterà il bicchiere da
casa. I carbonari non hanno proprietà. I carbonari... solo accolgono.
Rage Against the Machine
A memoria, l'ultimo vero gruppo politico degli ultimi decenni assieme alla
Mano Negra. Il loro primo album ha avuto un impatto devastante, quasi quanto i
Nirvana. Avevano sviluppato alla perfezione il cross-over tra punk, metal,
funk e hip hop. Il cantante, Zach de La Rocha, sapeva posare il flusso di parole
sul ritmo. Erano veri e propri manifesti politici, come sino ad allora solo i
Public Enemy avevano osato fare. Provate ancora adesso a passare
Killing In the Name.
L'effetto è collettivo, istintivo e liberatorio. Un sano rifiuto. Dopo un
secondo disco meno esplosivo, ma interessante, si sono dissolti, restando
comunque un riferimento universale nel rock di fine secolo.
|