Autore Cesare De Michelis
Titolo Editori vicini e lontani
EdizioneItalosvevo, Trieste-Roma, 2016, Piccola biblioteca di letteratura inutile 5 , pag. 108, intonso, cop.fle., dim. 12x18,8x0,8 cm , Isbn 978-88-99028-17-6
LettoreCristina Lupo, 2017
Classe libri












 

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Indice


Per cominciare                       9


Giuseppe Maria Galanti              15

Edoardo Perino                      19

Adriano Salani                      22

Rocco Carabba                       26

Roberto Bemporad                    32

Piero Gobetti                       35

Dai Calabi ai Mauri                 40

A. F. Formiggini                    44

Valentino Bompiani                  46

Alberto Mondadori                   52

Roberto Cerati                      56

Giulio Bollati                      61

Giovanni e Dino Fabbri              65

Gianni Bosio                        68

Gianni Sofri                        71

Giovanni Gandini                    75

Roberto Calasso                     79

Marco Cassini                       84

Gian Arturo Ferrari                 87

Klaus Wagenbach                     91


Per concludere                      95



 

 

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Pagina 95

PER CONCLUDERE



La questione è antica, risale all'affermarsi del moderno circa quattro secoli fa, quando la clessidra della storia venne improvvisamente capovolta, col risultato che il bene non stava più alle nostre spalle, come gli uomini avevano creduto per millenni, ma piuttosto appariva all'orizzonte, come una meta lontana che orientava gli sforzi dell'uomo e definiva il suo traguardo: non più Odissea il destino diventava sfida e avventura, rischio, ricerca, solo talora scoperta.

Il tempo del moderno, da subito e per sempre, fu il territorio del progresso, nel quale il risultato si misurava oggettivamente secondo una scala di valori che poteva esprimersi numerariamente: basti soltanto inseguire il destino semantico del talento, da quando apparve per misurare il peso bilanciando il piatto dell'esperienza a quando servì a esprimerne il valore di scambio trasformandosi in moneta sonante, fino a diventare metafora e a indicare la qualità dell'invenzione e della creazione.

Il problema che subito apparve impervio fu lo stabilire a chi toccava non tanto la misura quantitativa, che moltiplicò gli strumenti sempre escludendo l'arbitrio della scelta, ma invece la definizione della qualità, o della competenza, che ogni volta si rivelava opinabile e sfuggente: nella tradizione classica l'estetica era stata comparativa e imitativa, fondandosi su un modello cui avvicinarsi, in quella moderna essa divenne filosofica o ideologica, non senza confusioni, fu quindi «prescrittiva» a seconda della meta che il progresso doveva raggiungere.

L'editoria appartiene interamente alla modernità e con essa fu costretta a convivere dalla sua origine meccanica – il piombo, il torchio ecc. –: non stupirà quindi che da subito si misurò col pubblico contando le copie secondo il prezzo piuttosto che il pregio e scalzando prima nei fatti che nei progetti l'unica istituzione che della qualità si era fatta garante, l'Accademia cioè, o quella che sin dal Quattrocento pretese di essere la repubblica letteraria.

L'autorevolezza, e persino l'autorità, non poté più far conto sulla competenza riconosciuta dalla comunità dei sapienti, secondo i principi dell'autogoverno corporativo, ma dovette affidarsi al consenso, misurabile col conteggio delle scelte individuali: nacque in politica la democrazia e in letteratura l'affermarsi dei nuovi generi popolari – dal romanzo, alla commedia, al melodramma, al giornale – che trionfarono in un mercato dell'intrattenimento che prescindeva da qualsiasi istanza di verità o di bellezza.

Tutto questo cominciò subito, sin dall'inizio, diventando progressivamente un principio sempre meno discusso; certo a lungo il mercato dovette convivere con la resistenza delle accademie, che continuarono e forse ancora continuano, per intendersi, fino agli «amici della Domenica» di casa Bellonci o all'orgoglio sapiente dei Lincei, i quali peraltro vendono e contano sempre meno.

La stessa nozione di letteratura, così come oggi la evocano gli autorevoli editori di cultura o di qualità, assomiglia sempre più a un reperto archeologico incapace di raccogliere la molteplice varietà dei testi che ad essa pretendono di appartenere: d'altronde, finché il moderno non aveva raso al suolo ogni ordinamento del sapere, la letteratura coincideva con l'universo della parola scritta senza ambire a un primato di natura estetica, tanto che versi e racconti potevano venir considerati con sufficienza frutti di un estro fantasioso o bizzarro, scherzi leggeri, divertenti forse, ma certo imparagonabili con le opere di pensiero e di verità.

Ormai l'avventura della modernità si è conclusa e in questo inizio di millennio tutti assistiamo preoccupati e curiosi a una trasformazione del mondo nel quale siamo nati e cresciuti, tanto più noi settantenni che nell'ultimo mezzo secolo abbiamo goduto in occidente di una pace e un benessere straordinariamente durevoli e confortanti e che pertanto in questo subbuglio siamo così a disagio da rimpiangere non tanto la stagione trascorsa, come son soliti spesso gli anziani, ma più ancora un remoto passato talmente vagheggiato da diventare irrimediabilmente più ideologico che ideale.

Vale anche per gli editori, che di fronte a un mondo instabile dove vorticosamente cambiano le tecnologie e i valori e traballa il loro prestigio sociale e culturale, che non trova più nessun ruolo pedagogico sul quale fondarsi, tutti, persino quelli assai più giovani di noi settantenni, piangono malinconici, se non disperati, sui troppi libri non necessari, sul dissolversi di ogni società – figurarsi se letteraria –, sull'effimera durata dei canoni e dei programmi formativi, volti sempre più alla pratica del lavoro e non alla selezione delle élites, e ancora sul degrado morale e ambientale, cui naturalmente si oppongono con le armi che hanno a portata di mano, i buoni libri durevoli scelti dagli editori di cultura per la battaglia delle idee.

La sfida che ci sta di fronte è certo più entusiasmante di questi ipocondriaci piagnistei, perché si tratta tra le nebbie di un presente confuso e assai difficile da interpretare di disegnare le mappe di una nuova geografia del sapere, di individuare i sentieri e le loro destinazioni, di rimettere ordine dopo uno sconquasso che troppo a lungo è stato scambiato per l'aurora del nuovo, sapendo che non ci sono, né si intravedono, profeti per l'avvenire, i quali al più smerciano progetti consunti e riciclati, e che pertanto la ricostruzione sarà lunga e faticosa, ma anche che all'inizio di una appassionante avventura abbiamo la fortuna di essere eredi di una tradizione di civiltà che non va semplicemente restaurata, ma che può consentirci, se ben coltivata, di evitare errori e sbandamenti che invece rallenteranno il cammino di chi si illude di poterne fare a meno.

Insomma, dopo un secolo di vane e terribili rivoluzioni, anche gli editori potrebbero vivere una stagione di operosa riedificazione di quel sistema di valori, che, senza illusioni di sbrigative scorciatoie, possa diventare fondamento di una cultura e di una civiltà solide ed equilibrate, della quale i libri — cartacei ed elettronici — serberanno ancora la memoria, riuscendo a distinguere con convincente sicurezza quel che è destinato a passare da quanto, invece, è necessario che resista e duri.

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