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| << | < | > | >> |IndiceTante Venezie ovvero grandezza e caduta del Moderno 7 Quante Venezie... 13 Identità veneta? 15 La letteratura 27 Il paesaggio 49 La Grande Guerra 69 L'ultima Venezia 83 I luoghi del teatro 99 Note 137 Nota dell'autore 141 |
| << | < | > | >> |Pagina 151. Molto si è discusso anche negli ultimi tempi dell'identità del Nord Est, ma poco si è riflettuto su che cosa essa davvero significhi nell'esperienza degli uomini, dei suoi abitanti; anzi spesso si è fatta confusione sulla stessa definizione dell'area, sulla sua identificazione geopolitica. Proviamo allora a restringere il campo, rinunciamo alle suggestioni di un'area tanto larga quanto indefinita, e torniamo al Veneto, a una regione riconoscibi}e nella storia e nel presente, perché già così, all'interno di confini ben più ristretti ma nitidi, non mancano fraintendimenti e incertezze. Balza subito agli occhi che l'identità veneta è ambigua e sfuggente; essa oscilla inquieta tra ansie di autosufficienza e di separatezza e volontà di proiettarsi all'esterno mescolandosi agli altri nel mondo; oscilla caparbia tra l'orgoglio di una tradizione secolare che resiste all'usura del tempo e l'ambizione di riconoscere le proprie tracce nella comune civiltà dell'Europa. | << | < | > | >> |Pagina 18Negli anni passati ci si è esercitati a lungo nella definizione di un «modello veneto» e, addirittura, ci si è persi vantando un «miracolo» tutto nostro, in controtendenza rispetto al Paese: ebbene queste orgogliose affermazioni di autosufficienza, di impermeabilità, se non di «primato», già costringono ad affannosi ripensamenti, a repentini voltafaccia: l'orgoglio appena si isola è ragione soprattutto di debolezza, rivela l'isolamento piuttosto che l'autonomia.D'altra parte non cede la tentazione di denunciare la propria marginalità e in qualche caso la propria arretratezza per averne in cambio sgravi e favori, finché si può. Troppo comodo: trasformando la propria doppiezza in questa miscela di orgoglio e umiltà, di separatezza e sudditanza, la strada che ci resta di fronte è corta e pericolosa, soprattutto senza sbocco. Proviamo a capovolgere il punto di vista: la lunga, caparbia resistenza al Moderno che ha caratterizzato la regione nel Novecento - ma forse anche prima -, e che è stata a lungo ragione di arretratezza, può rivelarsi ora - quando il Moderno manifesta la sua impotenza, la sua perversa vocazione al precipitare nel vuoto - una opportunità straordinaria, un'occasione unica; e d'altra parte la marginalità frontaliera del territorio, anziché costringerci in trincea, da quando a Est il vento è cambiato, può trasformarsi nel vantaggio di una prossimità geografica e culturale; persino la debolezza istituzionale quando il «sistema» si rivela inceppato semplifica il compito e anticipa i tempi del rinnovamento, consente di immaginare più in fretta un «sistema» diverso. Mi spiego: il Veneto è fuori dal giro della grande finanza lombarda, se mai c'è stato un momento di gioirne forse è proprio questo perché possiamo farne a meno più in fretta; possiamo insomma, non dover ridisegnare invivibili concentrazioni metropolitane giacché non le abbiamo, possiamo immaginare alternative al centralismo proprio noi che un centro e una capitale non l'abbiamo mai fino in fondo voluta. Per farlo, per cominciare a farlo è importante riconoscere la ricchezza e la forza di un'identità doppia, di una identità debole e forte al tempo stesso, non per rinunciarvi, ma per rinunciare a dover scegliere tra l'una e l'altra. Qui sta il punto di partenza, nell'immaginare senza complessi di inferiorità e al tempo stesso senza egoismi o malizia un Veneto ricco di irrinunciabili individualità e al tempo stesso capace di riconoscere che non c'è altro spazio, altra dimensione geopolitica nella quale esistere che quella nazionale ed europea, ora addirittura globale. | << | < | > | >> |Pagina 27Nel lungo periodo del riassetto istituzionale dei territori nord-orientali della penisola all'indomani del disgregarsi dell'impero romano, mentre proseguiva l'alternarsi dei predomini dei barbari e riemergevano le vocazioni delle città nel segno della tradizione, ma anche con sorprendenti innovazioni - basti per tutte lo sviluppo portuale di Venezia -, il ricorso alle parole scritte era nei fatti riservato a burocrati e notai che registravano atti e decisioni in un latino sempre più curiale e meno solenne, cosicché le prime testimonianze dell'uso del volgare scritto restano affidate alla involontaria fedeltà del retro di un foglio dove si provavano i pennini: «alba pratalia araba [...] negro semen seminaba», recita nel IX secolo il cosiddetto indovinello veronese. [...] In quest'ambiente fervidamente operoso, che alla fine degli anni settanta aveva accolto con entusiasmo Angelo Poliziano, arrivò nel decennio successivo anche Aldo Manuzio , forte di un maturo progetto editoriale che intendeva avvalersi della tecnologia tipografica in funzione di un disegno di acculturazione che abbracciava senza soluzione di continuità il greco degli ateniesi, il latino dell'età aurea e argentea, per raggiungere finalmente il volgare dei primi e indiscussi capolavori contemporanei, dalla Commedia di Dante al Canzoniere di Petrarca. L'incontro di Manuzio con la Serenissima fu un evento clamoroso: senza l'intelligenza inventiva dell'uno l'editoria veneziana non avrebbe mai conquistato con tanta rapidità e autorevolezza il suo primato europeo, ma in nessun altro luogo al mondo il suo progetto sarebbe cresciuto tanto in fretta e avrebbe trovato le strade e le carovane già pronte per diffondersi ovunque senza ostacoli o resistenze: accadde come nei grandi romanzi d'amore, erano fatti l'uno per l'altra e si incontrarono. Sarà proprio l'avventura editoriale, generosamente proiettata sui mercati di tutta l'Europa civile, a mettere ordine all'epoca del poliglottismo, sollecitando una precisa e uniforme regolamentazione di ogni lingua, e quindi anche del volgare, fermandone la continua oscillazione, che riproponeva ogni volta il dubbio sulla correttezza del dettato che si aveva di fronte: non per caso sarà Pietro Bembo , principe indiscusso della letteratura rinascimentale veneta e compagno d'avventura di Manuzio, che paradossalmente sancirà il primato del toscano trecentesco, eletto a modello di ogni volgar lingua nella penisola e oltre. [...] Eppure a Venezia in quei pochi decenni tra la fine del Quattro e l'inizio del Cinquecento, pur così inquieti e confusi, si vennero diffondendo gusti, comportamenti e saperi definitivamente moderni, che consentivano l'affermarsi di una letteratura altrettanto moderna, nei canzonieri d'amore, che certo aspiravano alla luminosità del dettato petrarchesco e delle sue metafore, ma al tempo stesso si lasciavano trascinare nel turbamento dei sentimenti, nell'estasi dei piaceri e nella sofferenza delle pene, che cercavano ben altra espressività, ma anche in una trattatistica civile e morale, nella quale si condensarono i rivoli di molteplici esperienze negli uffici, nelle corti, nella curia, descrivendo modelli di comportamento e criteri di giudizio che all'uomo di lettere consegnavano una missione difficile di attento equilibrio tra ubbidienza ai doveri di cittadino e cristiano e libera fedeltà ai principi di verità e di bellezza. Della fecondità di una sperimentazione che spaziava in ogni campo del sapere anche scientifico fu allora esemplare testimone il frate Luca Pacioli , che a Venezia venne nell'agosto 1508 a illustrare la nuova scienza in un'indimenticabile conferenza nella chiesa di San Salvador davanti ad alcune centinaia di astanti e poi a stampare i suoi dieci libri della Divina proportione (1509), dove oltre alle regole di una geometria armoniosa, cui fa riferimento il titolo, parla della prospettiva nel disegno e nelle arti e persino della contabilità aziendale con la «partita doppia», giacché a Venezia anche le scienze esatte dovevano rivelarsi utili agli affari e ai commerci. [...] Invece no, nelle Venezie la fede per la repubblica letteraria prevalse persino su quella per la Serenissima e le regole di comportamento le elaboravano comunque i sapienti, sia che riguardassero il quieto vivere - basti il Galateo di monsignor Della Casa -, sia che attenessero alla vita di corte - e basti ancora il Cortegiano di Baldassarre Castiglione -, e persino, a proposito della volgar lingua, varrà a lungo più di tutti il Bembo delle Prose. Sarà, dunque, quella delle Venezie, una cultura aperta e poliglotta - nel senso che la lingua della scrittura, normata sull'esperienza dei nuovi classici, sarà sempre un' altra rispetto alle molte parlate nei diversi contesti - che cerca apertamente un proprio primato europeo, in qualche modo già riconosciutole dal successo della produzione editoriale e anche dal moltiplicarsi dei teatri pubblici che conquistarono un pubblico numeroso e infine dalla diffusione universale dei dipinti persino di scuola o di innumerevoli stampe e incisioni; mentre resteranno confinati nei circuiti familiari e domestici i testi popolari col loro dialetto più aspro e l'antica saggezza dei proverbi, le immagini sacre degli ex voto e dei santini, la commedia dell'arte o all'imrrrovviso, affidata all'invenzione degli attori sollecitata da semplici canovacci, che si ingentilì mescolandosi con la tradizione urbana delle momarie. | << | < | > | >> |Pagina 61L'unità d'Italia, che peraltro in questa parte della penisola giunse in ritardo di oltre un quinquennio a conclusione di una guerra - la terza dell'indipendenza - poco eroica e particolarmente sfortunata, non fu sufficiente a cambiare le cose e, anzi, venne piuttosto vissuta come l'ulteriore riprova che il futuro non riservava magnifiche sorti ma nuovi e più avidi dominatori, i quali quel poco entusiasmo che avevano da dare lo avevano intanto rapidamente esaurito durante le prime annessioni: il lungo tramonto dell'Ottocento diventò la statica scena del mancato incontro delle Venezie con la modernità, e se è vero che i primi grandi stabilimenti tessili sorsero ai piedi del Grappa, dove i torrenti rallentando la loro corsa cedono arrendevoli la residua energia, attorno ad essi non crebbe la città industriosa, perché bastò ingrossare gli antichi paesi pedemontani, come Schio o Valdagno, per accogliere quegli operai contadini che sarebbero diventati i metalmezzadri, senza soluzione di continuità.La tradizione risorgimentale si esaurì, dunque, nelle Venezie senza che fossero necessari veri e propri ripensamenti, ridotta al rinnovarsi di quegli antichi sentimenti di fedeltà che escludevano qualsiasi spregiudicato avventurarsi nel nuovo, al punto di privilegiare quel piccolo mondo antico, dove appunto il rischio è rigorosamente escluso, persino i tormenti teologici e religiosi all'insegna del modernismo si risolsero, anche nell'esperienza di Fogazzaro, in profondi turbamenti interiori che si pacificarono soltanto nell'ubbidiente riconoscimento del magistero ecclesiastico: il paesaggio come scenario delle conquiste del progresso umano lascia dunque il campo a una natura illuminata da una malinconica luce crepuscolare nella quale dissolvere le proprie tristezze. Il moderno investirà con la sua travolgente eccitazione le Venezie soltanto con le aggressive iniziative del futurismo marinettiano, che nell'aprile 1910, mentre raccoglieva seguaci nelle Venezie, scelse come bersaglio polemico, simbolo del peggior passatismo, la città lagunare cui dedicò un celebre manifesto e un discorso che ne proclamavano la necessaria distruzione: «Noi ripudiamo l'antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari... Ripudiamo la Venezia dei forestieri... cloaca massima del passatismo... Noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa dominare il mare Adriatico. Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi... Venga finalmente il regno della divina Luce Elettrica a liberare Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobigliata».
A capovolgere ogni idillio pedemontano provvide una volta per tutte la
Grande Guerra, la prima inequivocabilmente
mondiale,
senza limiti né confini, che durante un intero quinquennio mostrò
il volto letteralmente tragico e mostruoso della
modernità fino alle sue estreme conseguenze: gli aerei e i dirigibili che
bombardavano dall'alto, le mitragliatrici che sparavano a raffica anche nel
buio della notte, i cannoni di lunga gettata che
arrivavano dove non avrebbero mai immaginato,
le trincee dove si viveva nel fango in attesa della
morte e altre inedite esperienze convinsero anche i più entusiasti degli
interventisti che la svolta - il
flesso -
della storia, la fine del feudalesimo, l'affermarsi della democrazia occidentale
avevano un prezzo inimmaginabile, che imponeva un riconteggio del dare e
dell'avere non confrontabile con le loro illusioni e tale da segnare per sempre
il resto di un'esistenza che portava con sé un complesso di colpa da cui nessuno
poté più liberarsi, e tanto meno gli animi generosi dei triestini irredenti come
Scipio Slataper o i fratelli Stuparich.
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