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| << | < | > | >> |Indice13 Introduzione 23 Premessa 1. Ridurre la politica a una tecnica 25 Premessa 2. Ridurre lo Stato a entità privata 27 Premessa 3. Fantasticare sulla "società civile" in uno stato di natura dove tutto è tranquillo 29 Premessa 4. Postulare che un "cittadino" abbandonato a se stesso acquisti nuovo vigore 31 Premessa 5. Rendere folcloristico il diritto dei popoli all'autodeterminazione 33 Premessa 6. Assegnare funzioni e prerogative secondo una definizione sui generis 35 Premessa 7. Porsi implicitamente come risposta alle presunte carenze dei soggetti 37 Premessa 8. Applicare una logica di esclusione facendola passare per il suo contrario 41 Premessa 9. Rendere la parte (l'impresa privata) maggiore del tutto (lo Stato) 45 Premessa 10. Privatizzare privando 47 Premessa 11. Avere interesse a difendere interessi 51 Premessa 12. Pretendere all'orizzontalità, fondare spietate gerarchie 57 Premessa 13. Eleggere i leader 61 Premessa 14. Privatizzare i progetti di società 63 Premessa 15. Inalberare il motto «Libertà, fraternità, ineguaglianza» 67 Premessa 16. Giustificare con l'etica del discorso un onere morale individuale 71 Premessa 17. Costringere al consenso 73 Premessa 18. Privatizzare le prerogative governative 75 Premessa 19. Riservare sempre il ruolo peggiore all'istituzione pubblica (lo Stato) 79 Premessa 20. Evitare il ritorno di manifestazioni popolari 81 Premessa 21. Più far decidere che decidere 83 Premessa 22. La governance governi e i media mediatizzino 87 Premessa 23. Assottigliare le parole e la loro cosa 91 Premessa 24. Predicare bene e razzolare male 93 Premessa 25. Sorvolare sulla storia e sulle condizioni di arricchimento dei potenti 97 Premessa 26. Naturalizzare l'economia di mercato 101 Premessa 27. Rinchiudere gli Stati nella competitività fiscale 103 Premessa 28. Riciclare i discorsi militanti senza nuocere al sistema di sfruttamento 105 Premessa 29. Lottare contro una corruzione... dove non esistono corruttori 109 Premessa 30. Invertire cause ed effetti creando un passato di pura fantasia 113 Premessa 31. Discutere a vuoto 115 Premessa 32. Favorire le ricerche universitarie... sovvenzionate 119 Premessa 33. Far assumere al dogma una parvenza di pensiero critico 121 Premessa 34. Darsi arie di teorici 127 Premessa 35. Pretendere invano all'interazionismo 129 Premessa 36. Effettuare una "selezione naturale" 131 Premessa 37. Addestrare le anime docili 133 Premessa 38. Fare ricorso scientemente a un pensiero disincarnato 135 Premessa 39. Rifuggire da ogni conclusione 139 Premessa 40. Estrarre dal bene comune patrimoni che prima erano essenzialmente condivisi 141 Premessa 41. Elaborare "norme" private di ispirazione imperialista 145 Premessa 42. Dimenticare il carico fiscale e la sua ragion d'essere 149 Premessa 43. Mostrarsi compatibili offshore 151 Premessa 44. Candidamente "dialogare" con matti e criminali 155 Premessa 45. Privatizzare un diritto "postmoderno" 157 Premessa 46. Determinare con il denaro l'accesso al diritto pubblico 159 Premessa 47. Limitare la lotta di classe agli attori imprenditoriali 161 Premessa 48. Rendere mediocri le classi medie 163 Premessa 49. Anestetizzare chiunque sia sensibile alla dissonanza cognitiva 167 Premessa 50. Fare del nulla una forza 169 Conclusione. «D'accordo... ma lei cosa propone?» 175 Note |
| << | < | > | >> |Pagina 13Introduzione"GOVERNANCE"... termine apparentemente inoffensivo, ma con conseguenze nefaste. La governance cancella il nostro patrimonio di riferimenti politici per sostituirli con i termini tendenziosi del management. Ogni materia ruoterà d'ora in poi attorno a sfide gestionali, divenendo così il modello di ogni politica. La perversione è totale. "Governance"... Termine privo di risonanza filologica il cui scopo è quello di mettere in scacco la lingua e disorientare il pensiero. Questa parola, nella sua forma originaria francese, gouvernance, tutt'al più significava nella Francia del XV secolo il fatto di mantenersi in buona salute. «Cavaliere, disse la voce, una cattiva gouvernance dell'essere umano lo porta a una fine sordida [...]». Era già presente anche nel XIII secolo come sinonimo di governo. Impiegato in questo senso dagli inglesi nel XV secolo, che se ne appropriarono, il termine scompare, per riapparire alla fine del XX secolo nell'ambito manageriale della lingua inglese, e quindi nel discorso sociopolitico della mondializzazione contemporanea. I teorici delle imprese, tra cui Oliver Williamson , riattivano per primi il termine "governance" nell'ultimo quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle organizzazioni e delle strutture aziendali, rifacendosi così ai lontani lavori sviluppati tra le due guerre dall'economista Ronald Coase sul "coordinamento" degli attori di un'impresa. Il mondo degli affari adotta a sua volta l'uso della parola, facendone un sinonimo di integrità e di rigore nella gestione degli enti privati. Siamo negli anni in cui gli investitori tentano di riscattarsi dai crimini commessi dai consigli di amministrazione di aziende come IBM, Kodak, Honeywell, e, in un periodo successivo, WorldCom e Enron. Per di più, gli azionisti, i creditori e i fornitori, incoraggiati dalla deregulation dell'economia nella pratica dell' institutional shareholder activism (i militanti di class action in ogni campo), si preoccupano delle potenziali derive cui possono essere soggette le istituzioni private di cui condividono la sorte. Il licenziamento degli amministratori delegati o le dichiarazioni fallimentari non sembrano bastare a rassicurare i mercati. Si annuncia allora la messa in campo di programmi di corporate governance, ossia l'applicazione di metodi di sana gestione dei fondi affidati dagli investitori alle imprese, attraverso procedimenti, norme, politiche, regolamenti e professioni di fede, di tipo etico. Questa riconfigurazione delle regole poggia sulla volontà delle istituzioni private di autoregolamentarsi. Esse sono dunque invitate a creare meccanismi di dirigenza delle rispettive organizzazioni; al punto che la "buona governance" giunge a giustificare per le imprese l'adozione di misure aggiunte di sorveglianza dei propri dipendenti preferibilmente per via elettronica e informatica al fine di metterli sotto controllo e di "ottimizzare" le loro operazioni anche minime. La governance diventa allora per l'impresa privata ciò che la politica è per la società nel suo insieme. E basterà un solo passo, presto varcato, perché il sintagma venga rovesciato, giungendo dunque a vedere nella politica l'analogo della governance d'impresa. Introdotta nell'ambito della vita pubblica da Margaret Thatcher all'inizio degli anni Ottanta, la governance darà così giustificazione a un mutamento del ruolo dello Stato. Ma la parola "mutamento" è un eufemismo, che maschera in realtà una vera e propria rivoluzione. Col pretesto di riaffermare la necessità di una sana gestione delle istituzioni pubbliche, il termine designerà non solo la messa in opera di meccanismi di sorveglianza e di controllo, ma anche la volontà di gestire lo Stato secondo modalità di efficienza aziendale. I tecnocrati della prima ministra «affibbiarono perciò il grazioso nome di governance alla gestione neoliberale dello Stato, che si tradusse in una deregulation e in una privatizzazione dei servizi pubblici, oltre che in un richiamo all'ordine delle organizzazioni sindacali». Cosa più importante, "governance" designerà la volontà politica di adattare le istituzioni alle necessità dell'impresa stessa, allo scopo di aiutarla a spiccare il volo, identificando la sua performance con la pianificazione nazionale e mondiale, nel presupposto che dal suo sviluppo dipenda quello del corpo pubblico preso nel suo insieme. Successivamente, l'Unione europea pubblicherà un Libro bianco sulla governance con l'obiettivo di farne accettare le premesse alle popolazioni del continente in una modalità pseudopartecipativa, cosa che Denis Saint-Martin qualificherà come «colpo di stato concettuale». La sociologia delle imprese aziendali, volendo essere critica, travalica allora i confini del proprio campo per investire l'insieme delle modalità politiche organizzative e non più soltanto questo o quel tipo circoscritto d'istituzione. | << | < | > | >> |Pagina 19Contrariamente ai termini "democrazia" o "politica" che essa tende a occultare, "governance" non definisce niente in modo netto e rigoroso. L'estrema malleabilità della parola elude il senso, e questo sembra precisamente il suo scopo. Tutto avviene come se si sapesse ciò che si vuol dire proprio nel bel mezzo di una totale vanità semantica. Ci si convince. A causa della sua indeterminatezza, l'espressione offre scarsi appigli alla discussione o alla disputa, pur rilasciando un messaggio fondamentale: si tratta di una politica "senza governo", promossa a livello mondiale, che membri sociali isolati in rappresentanza di interessi diversi praticano secondo una modalità gestionale o commerciale. Spregiudicati finanziatori non hanno dovuto faticare molto per trovare nel popolo degli universitari, dei giornalisti e dei responsabili aziendali, ribattezzati "società civile", individui pronti a diffondere la Buona Novella. Confiscare in questo modo i termini tradizionali del pensiero politico a profitto di un nuovo lessico si chiama forse rivoluzione. La nostra attualità viene da qui, ma in una modalità indiscernibile. Perché in nome della governance, non si tratta più di erigere il mito di un nuovo contratto sociale, ma di pretendere che, strappato questo contratto, si apra la felice età della contrattazione plurale e della discussione perpetua.Fino ad allora, la gestione governativa era sempre stata intesa come una pratica al servizio di una politica dibattuta pubblicamente. Ma poiché la politica si è lasciata rovesciare da quella pratica al punto di cancellarsi a suo vantaggio, è lecito dire che la governance aspira a un'arte della gestione in quanto tale. Nessun registro discorsivo sembra in grado di dominarla. Una simile mutazione promuove il management d'impresa e la teoria della tecnica aziendale al rango di pensiero politico. Ne conseguono infinite semplificazioni. La morale della storia, quella della "governance", postula implicitamente la fine stessa della storia. Si parla soltanto di interessi specifici per cose circoscritte. Nessuna agorà è richiesta per discutere del bene comune. Questo fenomeno è tristemente corroborato dalla monotonia del discorso politico e dalla mediocrità dei "partiti politici di governo". Gli anonimi "esperti di semantica" della governance riescono perfino a cancellare la brevissima genesi del loro termine feticcio. Vanamente si cercherà nei manuali della governance una storia del concetto che risalga a prima della commissione del 1995. Il passato manageriale della nozione è taciuto per poterle così assegnare una portata politica piena e intera. Se la gestione tecnicistica prevale sulla politica, è ovvio che la coscienza pubblica si ritrovi immersa in un angusto presente. Un presente sconnesso, etereo, che non ha niente a che fare con la presenza, ma che vi si libra al di sopra, o addirittura la contraddice indifferentemente. Si spiega così come mai questa nuova matrice si sia costituita, nella forma di un sostantivo, a partire da un participio presente, quello del verbo "governare". Essere governante = "governanza", governance. Il participio presente è il tempo verbale più debole, il meno afferente. Così, ricondotta a un presente coniugato in permanenza, la governance non designa neppure più l'atto di governare, ma il "governare" come stato. L'esperienza ne esce svuotata di ogni significato, come se improvvisamente si dicesse "la camminanza" invece che "la passeggiata". Per questa ragione, anche se stampata a lettere maiuscole, la GOVERNANCE non turba nessuno e non procura alcun effetto. In ogni caso non suscita neppure una delle passioni e delle idee sollevate storicamente dalla Repubblica, dal Leviatano o dal Capitale. Nondimeno, conviene studiare questa modalità operativa della politica del XXI secolo alla luce del pensiero politico tradizionale se si desidera comprenderne le premesse inquietanti che guidano d'ora in poi i nostri ragionamenti. Una premessa è un'asserzione di partenza da cui derivano una serie di conseguenze. Noi oggi facciamo collettivamente le spese di quelle che fondano sordamente la governance. Si tratta in questo caso, alla peggio, di una rivoluzione anestetizzante. | << | < | > | >> |Pagina 25Premessa 2.
Ridurre lo Stato a entità privata
Nella prospettiva della governance, è dato per scontato che l'unico interesse rappresentato dallo Stato sia quello di un clan chiuso in se stesso. Lo Stato si rivela come l'appellativo particolare di una consorteria priva di qualunque legame con il resto della società. Θ un postulato issato perentoriamente al rango dell'evidenza: «I nostri dirigenti politici non incarnano necessariamente valori comuni: essi difendono progetti privati» scrive il politologo e consulente Gilles Paquet, trascurando completamente il fatto elettorale che lega in modo minimale il governo alla popolazione o il legame d'influenza che lo associa tanto spesso alle lobby private. L'ONU non sfugge all'implacabile logica promossa dai pionieri della "governance globale": essa si rivela come «appartenente a se stessa, essendo proprietà di funzionari ed essendo anche, in certa misura, superflua». La dottrina della governance riconosce certo le istituzioni pubbliche, ma per isolarle e neutralizzarle subito dopo. Essa le presenta alla stregua di «diversi settori della società» e di «cittadini atomizzati». Viene qui richiamata la teoria ultraliberale di Thomas Paine , letta però fuori contesto. Si può capire che questo personaggio britannico e i suoi compagni isolati nelle colonie americane del XVIII secolo sentissero il bisogno di fare a meno di strutture, riflettendo così situazioni vitali contingenti. L'unico governo che avevano era effettivamente una forza imperiale straniera che li opprimeva. Avevano quindi ragione di concludere che «gran parte dell'ordine che regna tra gli uomini non è effetto del governo». Ma l'esistenza di un governo ostile non rendeva per questo superflue delle forme di impresa pubblica: Paine, per quanto individualista ante litteram potesse essere, premetteva nondimeno che «nessun uomo è capace, senza l'aiuto della società, di soddisfare i propri bisogni». Il problema circostanziale affrontato da Paine l'ingerenza di uno Stato inadeguato negli affari di una comunità viene introiettato dalla governance come un dato fondamentale, diventando perfino una premessa: lo Stato esiste come una polarità di interessi marginali in un mondo che evolve senza di esso, mantenendo con quest'ultimo solo rapporti di interesse di tipo privato. Non si tratta dunque di uno Stato che è perverso in quanto denuncia la teoria della governance, ma di uno Stato che è in sé un'entità necessariamente perversa. Di qui, l'auspicio di un contenimento dello Stato. Simili asserzioni non sono prive di secondi fini. Esse aprono la strada a nuove forme di potere chiamate a svilupparsi nello spazio lasciato libero da strutture pubbliche così isolate. «La governance è più che un governo, più che un'amministrazione pubblica, più che un modello o una struttura di governo». Lo Stato, ridefinito secondo il principio latente della governance, acquisirà in seguito la funzione principale di legittimare le modalità di funzionamento dei potenti che lo porteranno quindi a intervenire il meno possibile di sua iniziativa negli affari del mondo. La "governance", in quanto neologismo indeterminato, consiste così nel nominare il nuovo ordine politico che deve disegnarsi al di là dello Stato, ma, più che per istituzionalizzare un ordine comune, per mettere i popoli ulteriormente fuori dalla portata di strutture pubbliche attraverso le quali essi potrebbero cercare di costituire sovranamente la propria soggettività storica. | << | < | > | >> |Pagina 35Premessa 7.
Porsi implicitamente come risposta alle presunte carenze dei soggetti
La teoria delle organizzazioni aziendali e del management rivendica l'origine moderna del discorso sulla governance. Declinata su diverse pratiche, questa teoria costituisce l'attrezzatura della comunità dei gestori, in particolare per «considerare un impiegato come un capitale piuttosto che come una risorsa». Una certa sociologia delle organizzazioni s'impegnerà in seguito a dimostrare scientificamente che l'impiegato diventato «capitale» è completamente fuori strada quando esprime un parere contrario sulle logiche di sfruttamento da cui è dominato. Proviamo a seguire il ragionamento di un'autorità in materia, Michel Crozier. Quest'ultimo giura solennemente di impostare il proprio discorso al di là di ogni ideologia. La sua premessa: i «sistemi» aziendali soffrono d'inerzia a causa delle eccessive prerogative conferite agli «attori». Curiosamente, tutti gli esempi addotti di strategie controindicate e di errori manageriali mettono in scena piccoli attori: il caporeparto, l'operaio, il sindaco di un piccolo comune, il prefetto di una regione periferica. Al contrario, il dirigente di un'impresa, il rappresentante di istituzioni internazionali, il grande banchiere o il leader sindacale sembrano esogeni al sistema. Quando si passa agli esempi, i superiori prendono decisioni che vanno nel senso delle qualità dall'esperto «perfettamente dimostrate» e «seriamente sperimentate», mentre i subalterni applicano «la strategia egoistica dell'attore», «barando». Nei manuali che essa stessa confeziona, l'élite viene presentata come teoricamente infallibile. Gli elementi presentati come disfunzionali corrispondono a coloro che personalmente non hanno interesse che il sistema si sviluppi in quel determinato senso. Costoro devono dunque sopportare l'obbrobrio di accuse quali la disobbedienza, l'instabilità, l'incompetenza, la furberia e l'irresponsabilità. Così, quando Crozier segnala che gli ingranaggi istituzionali restano costituiti da persone, non lo fa tanto per umanizzarne le prese di decisione sistemiche, quanto per guardare con apprensione la portata nefasta che questa umanità potrebbe avere sugli interessi delle aziende, nel caso in cui dovesse prevalere. Θ sulla base di questa tipica rappresentazione che oggi si cerca di modellare il cittadino della governance. | << | < | > | >> |Pagina 41Premessa 9.
Rendere la parte (l'impresa privata) maggiore del tutto (lo Stato)
Il termine "governance" riduce l'inesauribile polisemia del termine "società", estraendone uno dei sensi, che successivamente occulterà tutti gli altri. Del resto, è curioso che lo stesso termine "società" designi sia entità commerciali distinte, sia strutture e disposizioni di una società nel suo insieme. All'inizio della nostra era, il termine societas indicava particolari alleanze tra associati che cercavano, di impadronirsi del potere, di delinquere o di condurre operazioni commerciali. Da quest'ultima accezione (ma forse da tutte e tre) deriva oggi il termine sociétà, quando si tratta di designare un'organizzazione finalizzata alla produzione, alla distribuzione e alla commercializzazione di beni e servizi. Ma il termine sociétà ha assunto anche il senso di tutto ciò che rientra nella vita pubblica in generale. Più precisamente, la modernità riconosce sotto l'appellativo sociétà la res publica subentrata all'ordine dialettico antico, in cui si opponevano, da un lato, la sfera della vita domestica (l'economia come gestione di una famiglia e di una stirpe, l' oikos-nomos) e, dall'altro, quella della vita politica (la polis). Ora tutto è diverso. Per Hannah Arendt , la società moderna è più soggetta a poste in gioco di tipo amministrativo che a considerazioni politiche. Da essa prende corpo una specie di governo anonimo che gestisce il conformismo. Le due accezioni del termine "società" trovano qui il loro punto di incontro. Le "leggi" sociali rientrano in una scienza del controllo delle masse più che in quella del diritto e del dibattito politico di cui un tempo godevano gli "uomini liberi" di Atene. Mentre il pensiero politico si trova a essere superato dagli sviluppi della società moderna, un certo ambito privato cesserà invece di essere relegato nei margini di ripiego scelto da soggetti che intendano sottrarsi al pesante conformismo dello spazio civico. Il "settore privato" non ha ormai più niente a che fare con iniziative marginali, ma con qualcosa al contrario di così socialmente centrale che risulta incomprensibile il motivo per cui si continua a qualificarlo con l'epiteto di "privato". Ciò è vero sul piano della ricchezza economica. Se la ricchezza è sociale, mentre la proprietà è privata, gli oggetti in gioco restano fondamentalmente gli stessi. Le risorse, di cui viene messo in discussione lo statuto ossia se esse rientrino nel dominio pubblico oppure no , sono oggetto di un passaggio al privato allorché diventano fatti di proprietà. L'epiteto "privato", quando è utilizzato per caratterizzare un'appropriazione della ricchezza comune, assume allora un senso che non ha più niente a che fare con l'atteggiamento del ritrarsi consistente nel volersi distinguere dal tutto sociale. Arendt lo mette bene in evidenza: «la distinzione tra proprietà e ricchezza [...] perde il suo valore di uso privato che era determinato dalla sua posizione, per acquisire un valore esclusivamente sociale». Privatizzando elementi della vita pubblica, l'impresa privata li sottrae alla collettività. La società privata opera dunque una sottrazione di ricchezze a beneficio della proprietà; essa non si disimpegna dalla vita pubblica, ma al contrario vi si impegna allo scopo di assicurarsene la colonizzazione. La società viene così dominata dalle società. Il programma manageriale nella società moderna, sostituendosi al fatto politico, contribuisce allora a gettare le basi di un ordine gestionale che, radicalizzandosi, verrà in seguito battezzato "governance". Tale colonizzazione raggiunge in realtà tutte le sfere del linguaggio, al punto che la governance cerca attualmente di codificare le modalità di funzionamento della collettività nel suo insieme a partire dal lessico organizzativo già a suo tempo sviluppato per facilitare la gestione delle società private. La società moderna, così concepita, apparirà come un'entità globale di cui la società privata, referenziale, è l'autoritaria sineddoche. Un equivoco questo, che ritroviamo in alto loco: «L'errore della Banca mondiale è di non separare con chiarezza le riforme settoriali o locali (un'amministrazione come quella doganale) dalle riforme globali». In un simile contesto, il cittadino, privo di una definizione fondamentale, deve ridursi al ruolo di giocatore, nel senso competitivo di player, e al ruolo di partner, nel senso commerciale di stakeholder, per scoprirsi alla fine fagocitato nella logica dell'impresa. | << | < | > | >> |Pagina 45Premessa 10.
Privatizzare privando
Si finge di credere che sotto il vocabolo della governance si celino modalità attraverso le quali sarebbe possibile una convivenza... precisamente in un modo che contraddice questa possibilità. La governance designa ciò che resta del desiderio di condivisione nel contesto della privatizzazione economica. Il collettivo allo stato fantasmatico. Un miraggio. Giacché la privatizzazione del bene pubblico non è né più né meno che un processo di privazione. Mentre il liberalismo economico promuove quest'arte della privazione negli ambienti di chi ne trae profitto, la governance serve ad ammortizzarne lo choc, peraltro solo per lo spirito, in quanto non si oltrepasserà mai su questo punto l'ambito del lavoro retorico. Privare, in latino, designa l'azione di mettere da parte il contrario di spartire. Privatizzare un bene consiste nel privare qualcuno di qualcosa a vantaggio di qualcun altro, dal momento che non viene pagato nessun diritto di cessione. Il privatus designa di conseguenza colui che è privato di qualcosa privatus lumine, il cieco privato della vista di cui parla Ovidio. Anche quando i costi relativi al bene sono ammortizzati da tempo, ad esempio nel caso di un immobile, gli inquilini continuano all'infinito a finanziarlo a vuoto, invece di limitarsi ai costi reali, ossia a quelli di manutenzione. O addirittura si strapagano esercenti di beni fabbricati e distribuiti da subalterni scandalosamente sottopagati. Il profitto delle multinazionali, da questo punto di vista, deriva da una specie di imposta privata estranea a qualunque interesse pubblico. Si tratta, in altre parole, di logiche mafiose legalizzate. Dallo stesso privare latino proviene del resto l'espressione "privilegio". La parola letteralmente significa legge (lex) privata (privus): il privilegio corrisponde all'atto di privare (escludere) un altro di un bene o di un favore in virtù di una regola generale (legge). In altri termini, è, in diritto, una disposizione giuridica che fonda uno statuto particolare come quello della nobiltà nell'Antico Regime. Di qui le espressioni care a coloro che ne traggono un grande beneficio: «rispettare la legge», «agire nel quadro della stretta legalità» ecc. | << | < | > | >> |Pagina 62Premessa 15.
Inalberare il motto «Libertà, fraternità, ineguaglianza»
Resta inteso che i partner della buona governance sono
formalmente ineguali. Θ uno strappo fondamentale che
viene fatto alla teoria della sovranità politica, in contraddizione assoluta con
i principi democratici più elementari.
Il sofisma: poiché i "partner" concordano sulla bontà del
"progetto" al quale partecipano, poiché hanno "interesse"
che in un modo o nell'altro tale progetto si realizzi (siano
essi ambientalisti, sindaci di paese, parlamentari, investitori
o fornitori di materie prime), essi saranno tutti d'accordo
che gli attori in grado di portare a termine il progetto vengano al primo posto.
Una società mineraria se si tratta di
colonizzare un'intera contrada, una società forestale se si
tratta di radere al suolo una foresta. Nell'integrazione economica difesa dai
pionieri della governance, «alla fine degli
anni Settanta le società transnazionali hanno acquisito un
nuovo ruolo mobilitando capitali, generando tecnologie e
divenendo attori internazionali legittimi all'interno di un
sistema emergente di governance mondiale». Questa è la
funzione che viene loro riconosciuta dai membri cooptati
di un forum deliberante. Ne consegue un aspetto esplicitamente non egualitario a
fondamento della teoria della governance, diffuso senza mezzi termini dai
"creativi" cui è stato affidato il compito di confezionare le brochure
informative sulla governance:
Il termine "partenariato" non implica una distribuzione uguale di potere,
risorse, competenze e responsabilità. In realtà, i partenariati possono
inglobare un'ampia gamma di disposizioni, da associazioni o reti informali fino
a intese formali legali. I partenariati sono questioni di potere, sia
individuale sia collettivo, e se il potere è sempre presente, raramente è
uguale. Un partenariato riuscito accorda valore ai diversi tipi di potere
portati da ogni individuo o organizzazione, riconoscendoli esplicitamente.
Il carattere disinvolto e la scrittura cristallina di questa premessa tolgono il fiato: poiché la governance non consiste più in una politica pubblica e neppure in un mitico contratto sociale, ma espressamente e scientemente nella pianificazione di processi di mediazione tra attori disuguali, i risultati possono solo concorrere all'elaborazione di decisioni, piani, protocolli, regolamenti, «politiche e processi» che accentuano queste disuguaglianze. Le organizzazioni che rappresentano la gente qualunque, ossia la "società civile" nel gergo della governance, si vedranno affidati solo problemi insignificanti e questioni di scarso interesse: «Le organizzazioni della società civile sono riconosciute sempre più spesso come l'attore più appropriato quando si tratta di occuparsi di problemi di politiche e di programmi pubblici per lo più fuori dalla portata della burocrazia statale, suscitando un interesse relativamente scarso da parte del settore privato». Questa perdita assoluta di interesse per la cosa comune verrà coperta con un'espressione alla moda la "democrazia partecipativa" per ammettere il principio democratico solo quando esso verte su margini affaristici e giurisdizionali insignificanti. Questa frammentazione ineguale dei campi d'azione, dal punto di vista degli scribi della governance, sarà un modo di far poggiare il fatto stesso delle disuguaglianze strutturali su un senso di "responsabilità" degli attori: «Una governance decentralizzata dà potere alle istanze locali che devono accettare maggiormente rischi e responsabilità, a mano a mano che si cessa di tenerle sotto tutela, rendendo conto del modo con cui esse sono riuscite (o no) a contrastare i rischi di una congiuntura turbolenta. Decentralizzazione vuol dire fine dell'omogeneizzazione, ma anche possibilità di disuguaglianze maggiori, meno normalizzazione ma più disparità» scriverà, paternalistico, un professore canadese di governance. | << | < | > | >> |Pagina 96Premessa 26.
Naturalizzare l'economia di mercato
Gli obiettivi più triti del capitalismo industriale rinascono
nell'ordine della governance come fossero fenomeni di natura. I saggi
dell'elitaria Commission on Governance postulano che l'espansione delle società
multinazionali contribuisca alla creazione di ricchezze. A profitto di chi? Per
pudore, essi non citeranno i privilegiati del capitale, nelle mani dei
quali si concentrano i profitti. Verranno ignorate, inoltre,
le crisi devastatrici provocate dall'economia di mercato,
attribuendone la causa alle carenze del Fondo monetario
internazionale (FMI) che avrebbe il dovere di prevederle.
E si aggiungerà, senza batter ciglio, che alla stregua degli
Stati che lo dirigono, «il FMI dovrebbe avere un peso maggiore nel contrastare
gli choc internazionali, mentre dispone invece solo di risorse limitate». Si
procederà quindi a giustificare l'assenza di condivisione di quelle ricchezze
su scala mondiale con la troppo debole integrazione delle
economie a un sistema unico, integrazione incoraggiata in
primo luogo dall'OMC. Si assegneranno infine al progetto
di buona governance i termini stessi della sua teleologia,
ossia l'incorporazione di ogni cosa a un sistema economico
unificato d'ispirazione capitalista. Gli esperti minerari della Banca mondiale
elaborano proposte in particolare «perché la buona governance porti alla
crescita». Interrogarsi su questa dottrina storicamente costosa per i popoli e
per l'ecosistema è improvvisamente bandito da ogni ordine
del giorno, come anche l'indebitamento cronico cui essa
costringe le popolazioni da decenni. Ogni sforzo è proteso
in primo luogo a sviluppare l'impresa privata. Gli interessi di
quest'ultima sono eretti a finalità. Vero è che i mercati finanziari
condizionano la prosperità del Paese: essi determinano
il corso delle materie prime che il Congo è costretto a svendere alle economie
straniere. I sostenitori dell'economia
di mercato si autopromuovono allora in ogni occasione ad
agenti decisionali capaci di risolvere determinati problemi,
ossia i loro. Il versante retorico di questa strategia consiste
nello spiegare l'impoverimento cronico del popolo congolese e il fenomeno
endemico della corruzione con un'utilizzo
improprio del capitale investito e delle ricadute finanziarie,
perché non corrispondente al «modo razionale e sostenibile» della grande impresa
privata. Tutto concorre insomma a modellare lo Stato affinché esso sia sempre
più conforme agli interessi dell'industria mineraria e a quelli della finanza,
pur nello sdoganamento delle proprie responsabilità. I programmi di buona
governance della Banca mondiale ingiungono così allo Stato di pianificare il
proprio quadro amministrativo e regolamentare alle convenienze delle potenze
del denaro. L'istituto di Washington lo invita perfino a porre
fine alla sua posizione storica di «redditiere» corrotto. Esso
procederà di conseguenza alla difesa e all'illustrazione di un
codice minerario congolese esageratamente vantaggioso per
l'industria; i suoi rappresentanti si compiacciono di vedere
lo Stato congolese istituire una fiscalità quasi nulla per le industrie
straniere presenti nel Paese. Il problema, tuttavia,
è che, storicamente, l'applicazione di queste proposte, quando messa in pratica,
ha portato direttamente proprio a ciò
che si voleva evitare: quando lo Stato abbandona ogni missione sociale al
principio della libera impresa, la corruzione
si rivela per gli attori del Paese l'unico modo per spremere
quel poco che rimane delle ricchezze estratte dal territorio.
Sia come sia, accentuare la causa del fenomeno e negare
il ruolo fondamentale dell'impresa nella trasformazione in
una cleptocrazia degli ordinamenti congolesi è una delle
"soluzioni" avallate dagli autoproclamatisi esperti. Benché
nessun regime fiscale degno di questo nome giunga a favorire l'elaborazione di
un vero sistema di giustizia sociale,
l'imposta ufficiosa costituita in ultima istanza dalle desolanti
forme di corruzione viene a essere combattuta nel nome
della buona governance. Tutto si risolve in una questione di
concorrenza e, alla fin fine, di redditività degli investimenti.
E ciò vale anche per ciò che riguarda la tanto conclamata
lotta contro la corruzione:
Θ importante instaurare la buona governance non solo dal punto di vista
morale, ma anche per istituire un'industria mineraria efficace, di elevate
prestazioni e competitiva sul piano internazionale. Il costo supplementare
indotto da una bustarella versata a un agente doganiere o una donazione
azionaria fatta a un alto responsabile dello Stato può sembrare uno spreco
tollerabile a breve termine; invece esso porta inevitabilmente a un'escalation
di pagamenti illeciti che rappresentano, alla lunga, uno svantaggio
concorrenziale considerevole per il settore minerario congolese.
Chiusi nella loro logica capitalista e sordi ad altri interessi che non siano i propri, i sostenitori dell'industria mineraria, come quelli della buona governance, cercano di guadagnare su tutti i tavoli portando le popolazioni alla rovina. La Banca mondiale valuterà in seguito i programmi di buona governance secondo una metodologia tendenziosa in grado di garantirle anticipatamente buoni risultati. | << | < | > | >> |Pagina 114Premessa 32.
Favorire le ricerche universitarie... sovvenzionate
Tutto ciò che riguarda la governance vira a vantaggio del
settore industriale o finanziario e viene definito come sua
iniziativa. Le rappresentazioni tendenziose della
partecipazione,
dell'
uguaglianza,
dello
sviluppo
e dell'
organizzazione
prodotte dalla governance si sono subito imposte nello
spazio culturale mondiale. Lo snaturamento delle istituzioni di ricerca e
d'insegnamento universitario costituisce a questo riguardo un esempio di alto
livello. La Svizzera, paese classificato primo per il decennio 1990-2000 nello
studio sociologico britannico intitolato
The Scientific Impact on Nations,
ad esempio, ha riformato un modello di ricerca che pure era esemplare. I fondi
stanziati per la ricerca erano utilizzati in modo ottimale nei laboratori. I
temi di ricerca erano di competenza di ricercatori sostenuti dai
loro pari, con riferimento all'evoluzione del sapere nella
loro specifica disciplina. Le ricadute di questa organizzazione del lavoro
intellettuale erano verificabili da parte di
tutti i cittadini. Perché allora trasformare in quegli anni
la prestigiosa Ιcole polytechnique fédérale de Lausanne in
Swiss Federal Institute of Technology in Lausanne? Perché
imporre dirigenti statunitensi all'"impresa"? Perché ridisegnarne l'organigramma
secondo una dinamica
top-down
e una cultura costosa della
good governance,
del
controlling
burocratico, dell'
accountability,
della
transparency
e del
robust monitoring?
Perché modificare tanto radicalmente la funzione stessa dei professori per farne
agenti di ricerca dediti quasi esclusivamente al
networking, fundraising, marketing
e
management?
Perché cedere alla tentazione di una "scienza
bling-bling",
attratta dalle scoperte appariscenti atte più a soddisfare le
public relations
che il pensiero critico? Perché valutare d'improvviso l'istituzione in funzione
di criteri concernenti soltanto obiettivi di visibilità il
QS World University Ranking
senza nessuna attenzione per il rigore dei lavori che vi vengono condotti
realmente? Perché trasformare
l'insegnamento in una caccia ai
superb students?
Perché un numero così elevato di una simile leadership "perversa"? Libero
Zuppiroli, professore di rilievo tra le vittime di questa
grande trasformazione, considera la risposta evidente: «Si trattava in realtà di
mettere questa ricerca al servizio delle grandi società multinazionali». Al
punto di snaturare l'istituzione stessa e di impedire ai suoi artigiani onesti
di fare ciò per cui sono retribuiti: ricerche serie e orientate
all'interesse comune più che a strette considerazioni commerciali. La
constatazione è universale dal momento in cui
si universalizza il modello di governance delle istituzioni
di ricerca. L'Europa è entrata in questa cultura della concorrenza universitaria
col favore del processo di Bologna,
lanciato nel 1998 per uniformare i corsi universitari dei vari
Paesi, e della strategia di Lisbona, fondata nel 2000 per assecondare le
istituzioni di ricerca europee nella concorrenza
da loro istituita nei confronti degli altri continenti. I ricercatori
quebecchesi Eric Martin e Maxime Ouellet osservano inoltre che
la riforma della governance deve essere intesa come l'importazione in seno
alle istituzioni pubbliche, in questo caso universitarie, di un modo di
regolazione delle pratiche sociali esistenti in seno alle organizzazioni
private. Questa colonizzazione è parte di un piano di riconfigurazione dei
rapporti interni dell'università e della deviazione della sua missione sociale
verso finalità che non sono più la trasmissione e la conservazione della
conoscenza e della cultura, ma la produzione di un sapere mercantile.
L'appellativo di "governance delle università" viene allora
affibbiato alla gestione delle istituzioni universitarie da parte di attori
dell'ambito privato, ai quali questa posizione di
forza permette una vera appropriazione nel settore delle
ricerche e della conoscenza. Non c'è da stupirsi che nelle istituzioni in cui la
scienza del
business
ha assunto un posto preponderante, un ministro in carica se ne esca a parlare
del
business of science.
Θ ciò che fa Gary Goodyear, ministro canadese delle Scienze e della Tecnologia,
quando afferma che «il Canada e i canadesi beneficiano al massimo dei
dollari fiscali» collocati nelle istituzioni di insegnamento e
di ricerca. I «canadesi» ai quali egli pensa corrispondono
«naturalmente» al «versante affaristico dell'innovazione».
L'università diventa del tutto naturalmente un'impresa il cui
valore è considerato in funzione di un potenziale di rendita
a breve termine. I progetti di ricerca e sviluppo sono valutati in funzione del
loro potenziale mercantile. L'accesso ai risultati di ricerca viene condizionato
da una cultura del brevetto delle scoperte che è amministrativamente gravoso,
intellettualmente sterile e giuridicamente costoso. Alcune
società private fanno firmare intese di riservatezza ai testimoni che assistono
alle sedute di laurea su tesi che esse hanno
parzialmente finanziato. Ciò consente chiaramente all'impresa di approfittare a
proprio vantaggio di un'istituzione di ricerca finanziata per la maggior parte
dai contribuenti.
Perché non spetta più a questi ultimi definire le istituzioni di
patrimonio comune. Il settore privato ne fa uso come moneta di scambio per
ottenere capitali a rischio nel settore della ricerca, ipotecando per questa via
quelle istituzioni, pure originariamente votate alla ricerca indipendente. La
più zelante delle "imprese" di ricerca, l'Università di Montréal, ha
ceduto il controllo dei suoi consigli decisionali e dei comitati
di influenza, in questi ultimi anni, di volta in volta a gestori
provenienti soprattutto dai settori bancario (Banque nationale), farmaceutico
(Jean Coutu), industriale (Air Canada e SNC-Lavalin), dell'industria del gas
(Gaz Métro) o mediatico (Power Corporation e Transcontinental). Essa lo ha
fatto ricalcando il modello di governance promosso dall'Institut
sur la gouvernance d'organisations privées et publiques
(IGOPP, già citato sopra), fondato assieme alle Hautes études
commerciales di Montréal. Il rettore dell'Università di Montréal, forse ispirato
dal presidente-direttore generale di una
televisione privata francese, Patrick Le Lay di TF1 autore
di una dichiarazione celebre secondo cui il suo canale televisivo doveva
«vendere alla Coca-Cola tempo disponibile del cervello umano» affermò
nell'autunno 2011, a proposito del personale e degli studenti della sua
università: «I cervelli debbono corrispondere ai bisogni delle imprese».
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