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| << | < | > | >> |Indice1. Zia Mame e l'orfanello 11 2. Zia Mame e l'ora del bambino 31 3. Zia Mame nel tempio di Mammona 59 4. Zia Mame e la bella del Sud 89 5. Zia Mame letterata 125 6. Zia Mame in missione di soccorso 163 7. Zia Mame al campus 199 8. Zia Mame e la mia infelice storia d'amore 233 9. Zia Mame e la chiamata alle armi 273 10. Zia Mame e l'estate dorata 303 11. Zia Mame riveduta e corretta 343 Zia Mame e «Cedie» di Matteo Codignola 355 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Aveva piovuto tutto il giorno. Di solito me ne infischio, se piove o no, ma quella volta avevo promesso di montare le tende e di portare il bambino in spiaggia. Mi ero anche riproposto di applicare quei cavolo di stencil alle pareti loro riservate nella parte della cantina che il nostro mediatore aveva definito tavernetta, e inoltre volevo capire in che modo impegnare quella soffitta che secondo il mediatore, sempre lui, andava considerata un disimpegno, passibile di trasformarsi in stanza degli ospiti, studio, o laboratorio. Ma subito dopo colazione mi ero lasciato distogliere dai miei propositi. Tutta colpa di un arretrato di «Selezione». È una rivista che di solito non leggo. Mica per altro, non ne ho bisogno, dato che tutte le mattine sul 751 e tutte le sere sul 603 sento analizzare ogni suo articolo nei minimi dettagli. A Verdant Green – duecento case tirate su in quattro stili differenti – ne vanno tutti pazzi. In pratica non parlano d'altro. Eppure devo confessare che quel benedetto periodico, quando mi capita in mano, finisce per catturare anche me. Quella volta in particolare mi ero appassionato, nell'ordine, ai pericoli cui sono esposte le nostre scuole pubbliche, alle meraviglie del parto naturale e alle gesta di una comunità dell'Oregon che aveva sgominato un traffico di marijuana. Quindi ero passato a una certa figura che un certo famoso scrittore di cui ora mi sfugge il nome considerava il personaggio più indimenticabile da lui incontrato. Un momento, un momento. Indimenticabile? Be', era ovvio che l'autore non sapeva di cosa stesse parlando. Temo che il significato stesso della parola gli sfuggisse: a lui, come a chiunque non avesse conosciuto mia zia Mame. Però dovevo ammettere che fra il suo personaggio indimenticabile e il mio qualche parallelo si poteva tracciare. Il suo era una tenera zitella del New England che viveva in una tenera casettina bianca di legno, e che un giorno aveva aperto la sua tenera porticina verde per ritirare, come ogni mattina, la sua copia dello «Hartford Courant»: ma invece del giornale, si era ritrovata sulla soglia una tenera cesta di vimini, con dentro un tenero frugoletto. Il resto dell'articolo raccontava come e qualmente il personaggio indimenticabile avesse raccolto il frugoletto, e come negli anni successivi lo avesse cresciuto. A quel punto avevo chiuso «Selezione», e mi ero messo a pensare al tenero donnino che aveva tirato su me. Nel 1928, dopo un leggero infarto, mio padre era stato costretto per qualche giorno a letto. Insieme alle fitte intercostali doveva avere avvertito il barlume di una consapevolezza di ordine superiore, e intuito che forse non sarebbe vissuto in eterno. Così, non avendo nulla di meglio da fare, papà aveva telefonato alla sua segretaria, che era tale e quale a Bebe Daniels, e le aveva dettato un testamento. Appena finito di batterlo, la segretaria aveva preso con sé l'originale più quattro copie in carta carbone, si era messa la cloche e si era fatta portare in taxi da La Salle Street all'Edgewater Beach Hotel, dove aveva sottoposto il tutto alla firma di papà.
Era un testo molto breve e altrettanto singolare.
Recitava così:
«Alla mia morte desidero che tutti i miei beni terreni passino al mio unico figlio, Patrick. Nel caso il mio decesso avvenga prima che Patrick abbia raggiunto la maggiore età, nomino suo tutore mia sorella Mame Dennis, residente al numero 3 di Beekman Place, a New York. «È mio espresso desiderio che Patrick riceva un'educazione protestante e frequenti scuole tradizionali. Mame sa molto bene cosa intendo. Tutti i liquidi e le polizze di cui sono intestatario dovranno essere amministrati dallo Studio Knickerbocker, che ha sede a New York. Sono certo che Mame per prima coglierà la lungimiranza di questa mia disposizione. Con ciò ovviamente non intendo che mia sorella provveda di persona all'educazione di Patrick. Ogni mese, Mame presenterà allo Studio la documentazione delle spese sostenute per il vitto, l'alloggio, la scuola, i medici, i vestiti di mio figlio. Ma prima di procedere al rimborso lo Studio stesso potrà chiederle conto di ogni voce che dovesse risultare insolita, o eccentrica.
«Lascio altresì 5000 (cinquemila) dollari alla nostra fedele collaboratrice,
Norah Muldoon, affinché possa finalmente godersi il meritato riposo in quel
posto in Irlanda di cui non fa che parlarci».
Norah mi aveva spedito fuori a giocare, poi era venuta a chiamarmi e mi aveva portato da papà, che con voce rotta ci aveva dato lettura del documento. Quindi aveva aggiunto che essere affidato a una donna molto, ma molto particolare come zia Mame era un destino che non avrebbe augurato neanche a un cane, ma per disgrazia non avevo altri parenti, e se uno era un derelitto come me non poteva fare tanto lo schizzinoso. Alla cerimonia avevano presenziato, in veste di testimoni, la segretaria di papà e il cameriere del servizio in camera. Una settimana, e papà stava già dimenticando i suoi guai di salute sul campo da golf. Altri dodici mesi, e giaceva cadavere in una sauna dell'Athletic Club di Chicago. A quel punto ero da considerare, a tutti gli effetti, un orfanello. Del funerale non ricordo quasi nulla, tranne che faceva un caldo d'inferno e che gli appositi contenitori della limousine delle pompe funebri – una Pierce-Arrow – erano pieni di rose fresche. Quanto al corteo, consisteva essenzialmente in alcuni allegri omaccioni che passarono il tempo sussurrandosi a vicenda l'intenzione di farsi, una volta concluse le esequie, almeno nove buche. E naturalmente c'eravamo Norah e io. Norah piangeva come un vitello. Io no. Nei miei primi dieci anni di vita, con papà non avevo praticamente mai parlato. Ci incontravamo solo a colazione, dove lui generalmente alternava caffè, Alka-Seltzer e «Chicago Tribune». Se per un caso mi saltava in testa di chiedergli qualcosa, la sua risposta più meno fissa era: «Muto piccoletto, il vecchio non ne ha più» – espressione che ho cominciato a capire, con una certa difficoltà, solo qualche anno dopo la sua morte. Per il mio compleanno papà mi spediva con Norah alle matinée di un vaudeville con Joe Cook o Fred Stone, o magari al Sells-Floto Circus. Una volta, ricordo, mi portò a cena alla Casa de Alex insieme a Lucille, una signora molto bella che ci chiamava tutti e due «zucchero» e aveva un profumo buonissimo. A me piaceva, Lucille. Per il resto papà non lo vedevo quasi mai. Passavo gran parte del tempo fra la Chicago Boys' Latin School, il kinderheim dell'albergo e la nostra suite, dove vivevo attaccato alle gonnelle di Norah. Appena papà partì per il posto che Norah chiamava «l'Eterno Riposo», gli omaccioni mossero alla volta del campo da golf, e noi due tornammo in limousine all'Edgewater Hotel. All'arrivo Norah si cavò cappello e veletta e disse che potevo togliermi il vestito di serge. Quindi mi comunicò che Mr Gilbert, il socio di papà, stava arrivando con un altro signore, e mi pregò di non allontanarmi, perché dovevo firmare certi documenti. Andai in camera mia per esercitarmi con la firma sulla carta da lettere dell'albergo. Poco dopo di là entrarono Mr Gilbert e il suo amico. Sentivo che discutevano con Norah, ma non capivo quasi nulla. Fra un singhiozzo e l'altro, Norah parlava di un uomo caro, buono, anche generoso, e ancora caldo. Lo sconosciuto disse di chiamarsi Babcock e di essere la persona che doveva vigilare sulla mia buona condotta, il che mi mandò in sollucchero perché io e Norah avevamo appena visto un film dove un carcerato molto ammodo otteneva un certificato di buona condotta, e nel corso di una grande evasione salvava la figlioletta del direttore. Quindi Mr Babcock concluse che il testamento era un po' strano, questo sì, ma inattaccabile. Norah disse che in quelle faccende era una capra, ma fino a capire che stavano parlando di un sacco di soldi ci arrivava anche lei. Mr Gilbert intervenne precisando che a questo punto al ragazzo non restava che incassare, alla presenza di un rappresentante dello Studio, l'assegno intestatogli, dopodiché la transazione andava registrata presso un notaio, e la pratica si poteva considerare estinta. Che frase paurosa, pensai. Già, concluse Mr Gilbert, già già. Ricominciando a piangere, Norah ripeté che in effetti si trattava davvero di una grande fortuna, per un ragazzo così piccolo, e Mr Babcock ammise che sì, era una somma considerevole, ma del resto lui era abituato a trattare con gente come i Wilmerding e i Gould, e lì ballavano soldi veri. Secondo me anche nel nostro caso i soldi erano veri, altrimenti non sarebbero stati lì a fare tutte quelle manfrine. Un attimo dopo Norah venne in camera per dirmi di andare da bravo ometto a stringere la mano a Mr Gilbert e all'altro signore. Obbedii. Mr Gilbert commentò che mi stavo comportando come un vero soldatino, e Mr Babcock mi comunicò che a Scarsdale, dove viveva, aveva un figlio proprio della mia età, col quale sperava facessi presto amicizia. Mr Gilbert prese il telefono e chiese se potevano mandargli un notaio d'ufficio. Il notaio arrivò e mi fece firmare due pezzi di carta, poi borbottò qualcosa e timbrò i fogli. Mr Gilbert disse che avevamo finito e che se voleva arrivare in tempo a Winnetka doveva sbrigarsi. Mr Babcock puntualizzò che lui invece si sarebbe fermato al club, e che se Norah aveva bisogno di qualcosa lo avrebbe trovato lì. Ci stringemmo un'altra volta la mano, e Mr Gilbert ripeté la storia del soldatino. Poi presero le loro pagliette e uscirono. Appena rimasti soli, Norah mi confermò che mi ero comportato proprio bene, che se volevo potevamo cenare nella Marine Room, e poi magari andarci a vedere un film sonoro. E così mio padre uscì di scena. Non c'erano gran valigie da fare. La nostra suite consisteva in un ampio soggiorno e due camere da letto, ma i mobili erano tutti dell'albergo. Gli unici bibelot appartenuti a papà erano due spazzole militari d'argento e due fotografie. «Viveva come un beduino, viveva» continuava a ripetere Norah. Quelle due fotografie mi erano talmente familiari che non ci facevo neanche più caso. Una era di mia madre, morta nel darmi alla luce. L'altra ritraeva una signora dagli occhi sfavillanti, avvolta in una mantella spagnola e con una rosa dietro l'orecchio. «Sembra proprio un'italiana, sembra» commentò Norah. Quella era zia Mame. Norah e Mr Babcock si occuparono degli effetti personali di papà. Lui si prese le carte, l'orologio d'oro, i gemelli di perle e anche i gioielli di mia madre, sostenendo che li avrebbe tenuti fino a quando non fossi stato abbastanza grande per apprezzarli. Al cameriere toccarono i vestiti di papà. Le sue mazze da golf, i miei vecchi libri e i miei giocattoli finirono in beneficenza. Poi Norah tolse dalle cornici le foto di mamma e di zia Mame e le tagliò in modo che mi entrassero nel taschino della giacca: «Così avrai sempre i tuoi cari vicino al cuore» spiegò. Ormai era tutto sistemato. Passammo da Carson, Pirie e Scott, dove Norah comprò un vestito scuro più di stagione per me, e un cappellino a dir poco epico per lei. Mr Gilbert e l'ufficio ci organizzarono il viaggio a New York, e il 30 giugno eravamo pronti a muoverci. Il giorno della partenza da Chicago me lo ricordo molto bene, anche perché era la prima volta che mi lasciavano rimanere alzato fino a così tardi. Il personale dell'albergo aveva fatto una colletta per comprare a Norah un'impeccabile valigia di coccodrillo, un rosario di malachite e un immenso mazzo di rose American Beauty, e a me un libro, I grandi eroi della Bibbia, punto, Il Vecchio Testamento. Norah mi portò a salutare uno per uno gli altri bambini dell'albergo, poi, alle sette in punto, ci venne servita la cena in camera, che comprendeva tre dolci diversi – un pensierino dello chef. Alle nove Norah mi fece lavare un'altra volta mani e faccia, diede una spazzolata all'abito scuro nuovo di pacca, mi appuntò un san Cristoforo sul bavero, versò una prima lacrima, si infilò il cappello nuovo, raccolse le rose, fece un ultimo giro di ispezione nelle stanze, versò una seconda lacrima: e finalmente salimmo sul bus dell'albergo. | << | < | > | >> |Pagina 53La settimana dopo zia Mame si alzò nel cuore della notte per accompagnarmi alla scuola di Ralph. La sede era all'ultimo piano di un vecchio magazzino sulla Seconda, a un paio di isolati da casa nostra. Arrivammo un po' in ritardo — zia Mame era sempre in ritardo — e aprendo la porta ci ritrovammo davanti uno stuolo di ragazzini di varie età, tutti indistintamente nudi, che correvano e strillavano. Ralph ci venne incontro nudo come mamma l'aveva fatto e ci strinse calorosamente la mano.«Non è stupendo?» gongolò zia Mame. «Un Prassitele! Oh, tesoro, sono sicura che ti piacerà da morire». Una donnina bionda e tracagnotta, nudissima anche lei, arrivò di corsa a baciare zia Mame. Si chiamava Nathalie, e dirigeva la scuola insieme a Ralph. «Adesso vai con Ralph, tesoro, e divertiti. Ci rivediamo a casa per il tè». Zia Mame si allontanò tutta contenta, facendomi ciao ciao con la manina. E così rimasi solo. Solo, e vestito. «Vieni qui a spogliarti, vuoi?» disse Nathalie. «Poi raggiungi gli altri». Alla scuola di Ralph mi sono sempre un po' sentito un pollo da batteria, però non era una sensazione spiacevole, anche perché non dovevo fare assolutamente nulla. La classe era uno stanzone nudo con le pareti imbiancate a calce, un pavimento riscaldato di linoleum, lucernari al quarzo e tubi ai raggi ultravioletti che correvano lungo le parti libere del soffitto. Al posto di tavoli e sedie c'era qualche materasso su cui potevamo buttarci a dormire ogni volta che ci andava. Al centro della stanza troneggiava una grande struttura bianca che ricordava il bacino di una vacca, e sulle cui superfici avremmo dovuto compiere varie acrobazie. Chi voleva poteva anche insinuarsi al suo interno, e ogni volta che uno dei bambini più piccoli ci provava Ralph mollava una gran pacca sul sederone di Nathalie, e commentava: «Un altro ritorno al ventre materno, eh Nat?». Il bagno era comune – «stronca le inibizioni sul nascere» – e tutte le attività erano d'avanguardia. Ad esempio potevamo dipingere con le dita, o modellare la plastilina. Poi c'erano i cosiddetti gruppi di discussione guidata, dove i partecipanti raccontavano i loro sogni, oppure, a turno, dicevano a voce alta qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Ma chi non aveva voglia di socializzare era libero di non farlo. A pranzo mangiavamo carote crude, cavolfiore crudo (causa di terribili flatulenze, almeno per me), mele crude, e latte di capra crudo. Se due bambini si mettevano a litigare, Ralph li prendeva da parte e discuteva il problema insieme a loro, e a chiunque altro volesse partecipare al dibattito. Mi sembravano tutte fesserie, ma avevo un'abbronzatura integrale perfetta. Tuttavia non sono in grado di dire se la scuola mi abbia fatto più bene o più male, perché ci sono rimasto troppo poco. La mia carriera scolastica durò infatti solo sei settimane. Come quella di Ralph, peraltro. Partendo dal presupposto, del tutto arbitrario, che i loro alunni sgobbassero molto, Ralph e Nathalie avevano deciso di istituire uno spazio pomeridiano dedicato al Gioco Costruttivo, grazie al quale i piccini sarebbero rientrati a casa nel migliore degli umori possibili. L'idea era che tutti i bambini, ad eccezione degli antisociali cronici, partecipassero a un gioco di gruppo, dove avrebbero cominciato a capire la vita che li aspettava oltre il portone della scuola. A volte si giocava alla Fattoria, che consisteva nel curare le striminzite pianticelle di avocado di Nathalie, altre volte alla Tintoria, che consisteva nel lavare e candeggiare le mutande di Ralph. Ma il gioco di gran lunga più popolare era la Famiglia dei Pesci, che si supponeva ci avrebbe fornito alcune utili informazioni sui meccanismi riproduttivi delle specie inferiori. Era un gioco piuttosto semplice, e un ottimo esercizio. Nathalie e i pesci femmina si accovacciavano fingendo di deporre le uova, mentre Ralph, seguito dai pesci maschi, saltellava in mezzo a loro, remigando con le braccia e facendo vibrare le dita – «come se nuotaste, come se nuotaste» –, nel tentativo di fecondare le uova. Immancabilmente, succedeva un finimondo. La mia ultima mezzora alla scuola di Ralph era trascorsa proprio giocando alla Famiglia dei Pesci, con Nathalie e le ragazze stese sul linoleum, e Ralph che ci guidava in mezzo a loro: «Come se nuotaste, come se nuotaste! Adesso! Spargi il seme, spargi il seme! Patrick, non dimenticare quella piccola pesciolina laggiù, spargi il seme, spargi il se...». Improvvisamente ci accorgemmo che a qualcuno stava venendo uno stranguglione. «Oh, mio Dio!» esclamò subito dopo una voce familiare. Ci voltammo all'unisono e sulla porta, vestito di tutto punto e con l'aria di uno squalo feroce pronto a sbranare noi poveri pesciolini, c'era Mr Babcock. Più veloce della luce, il mio tutore mi abbrancò, trascinandomi fuori dalla mischia. «Cristo santo! Vestiti immediatamente. Voglio parlare subito con quella pazza di tua zia, e voglio che ci sia anche tu». Quasi mi scaraventò nello spogliatoio. «Quanto a te, lurido pervertito, non finisce qui, stai tranquillo!» urlò a Ralph. Quindi venne da me, e senza lasciarmi neppure il tempo di abbottonarmi mi trascinò giù per le scale, senza mollare la presa quasi fin sotto casa. Per colmo di sfortuna, quando Mr Babcock e io facemmo irruzione in salotto zia Mame, con addosso uno dei suoi completi più oltraggiosi, stava fumando roba un po' forte in compagnia di un celeberrimo rabbino lituano e di due ballerini del cast di Blackbirds. «Mio Dio,» strepitò Mr Babcock «avrei dovuto immaginarlo! Affidare un bambino a lei è come metterlo in mano a Gezabele in persona. Ma si può sapere cosa le frulla in quella zucca bacata?». Con un certo sforzo, zia Mame si alzò in piedi. «Prego, Mr Babbitt? Cosa intende dire?» chiese cercando, con modesti risultati, di darsi un contegno. «Lo sa meglio di me cosa intendo dire, porca vacca. Due settimane fa ho chiamato la Buckley per sapere se per caso questo teppistello avesse voglia di venire con me e mio figlio al rodeo, e da quel momento l'ho cercato in tutte le più infami scuole per ritardati della città, fino a che oggi – dico, oggi – l'ho trovato nella più infame di tutte, nudo come un verme e con quello sporcaccione che spargeva... oh mio Dio, non ci posso neanche pensare!». Zia Mame fece un passo avanti e prese fiato, come faceva sempre prima di lanciarsi nelle sue arringhe più veementi. Ma avrebbe potuto risparmiarsi la fatica. «Domani,» disse Mr Babcock «anzi stasera, anzi adesso, io – intendo io personalmente – porterò questo ragazzo in collegio. Avrei dovuto immaginarmelo, che avrebbe tentato qualche trucchetto da quattro soldi, è tipico di quelle come lei, ma le garantisco che non succederà mai più. Iscriverò il ragazzo al St. Boniface e mi assicurerò che ci rimanga. Riuscirà a mettere le sue sporche mani su di lui solo a Natale e d'estate, e con l'aiuto di Dio spero di scongiurare anche questa disgrazia. Su, ragazzo, andiamo». «Zia Mame, zia Mame» urlai tentando inutilmente di divincolarmi. «Stattene buono qui, piccola canaglia. Ora ti porto al St. Boniface, e ti garantisco che farò di te un bravo ragazzo timorato di Dio, dovessi spaccarti tutte le ossa che hai in corpo. Vieni, usciamo da questa fumeria». | << | < | > | >> |Pagina 90Alcuni osservatori malevoli sostenevano che zia Mame avesse sposato Mr Burnside per una questione di soldi. Ora, che Beau fosse di gran lunga lo scapolo sotto i quarant'anni più facoltoso a sud di Washington poteva avere avuto il suo peso nella scelta, non dico di no. Ma zia Mame lo amava davvero. In lui aveva trovato contemporaneamente un padre, un figlio, un fratello, un Babbo Natale e un amante.Il nuovo marito di zia Mame era il tipico sudista grande e grosso, simpatico, espansivo, di buon carattere. Non si poteva non volergli bene. Veniva da un'ottima, antica e naturalmente decaduta famiglia della Georgia, ma a suo onore va detto che era l'unico fra quei discendenti di generali a non ciabattare per il profondo Sud vaneggiando del bel tempo andato in cui quei cani di yankee non si erano ancora portati via la terra e le donne. Mentre i vecchi feudatari della zona ancora piagnucolavano perché il cotone non rendeva più, Beau si era messo a coltivare prima soia e poi arachidi. Al compimento del diciannovesimo anno, e senza dover ringraziare nessuno, aveva liberato la terra dei Burnside sia dai gravami che dall'erosione, e non solo, aveva cominciato a farla fruttare. Durante l'ultimo anno al Politecnico della Georgia Beau era andato in Texas per rimettere ordine nella proprietà abbandonata di un suo cugino migrato altrove, e aveva scoperto il petrolio. A ventun anni era un milionario. Zio Beau sembrava trasformare in oro tutto quello che toccava. Era il primo a stupirsene, anche se certo la cosa non lo metteva di malumore. «Tutta fortuna, cocca» ripeteva sempre a zia Mame. Per lui comunque il denaro aveva senso solo se poteva condividerlo. Oltre a provvedere al mantenimento della vecchia madre, e dello sterminato branco di fannulloni con cui aveva legami di parentela, contribuiva in modo sostanziale a tutti i principali enti di beneficenza del Paese. E chiunque fosse in grado di rappattumare una storia lacrimevole che stesse vagamente in piedi poteva contare sul suo aiuto. Zio Beau aveva pagato tutti i debiti di zia Mame, venduto la bicocca di Murray Hill – una donna perbene non viveva in un posto del genere, secondo lui –, rispedito Norah nella contea di Meath con una pensione più che rispettabile e il libretto di risparmio di nuovo integro. Quindi aveva sistemato zia Mame in una decina di stanze al Regis, incoraggiandola a riprendere il suo tenore di vita di un tempo. E lei non se l'era fatto ripetere due volte. Zia Mame in effetti era tornata zia Mame, anche se con qualche lieve variazione sul tema. Nel 1932 un certo romanticismo era di moda, ma la zia si spingeva decisamente oltre; aveva i capelli più morbidi e più voluminosi di prima; in ogni sua stanza c'era un numero eccessivo di camelie; sui vestiti spiccavano organza e balze; sotto le gonne frusciavano le crinoline. Quando zio Beau insistette perché si lasciasse fare un ritratto, zia Mame scelse un pittore da salotto, e non uno dei modernisti a oltranza che le circolavano per casa. Però il quadro finito sembrava dipinto, anziché col pennello, direttamente col tubetto, e zia Mame ebbe più volte occasione di rimpiangere a voce alta la dipartita di Winterhalter. Anche il suo modo di parlare era un po' diverso: più biascicato, più morbido, meno scandito. Mi chiamava quasi sempre «ciccino» e, uno o tanti che fossimo, usava molto spesso la locuzione «voialtri». Per il mio tredicesimo compleanno mi fece recapitare una balla di regali, fra i quali spiccavano un'importante collezione di soldatini confederati d'antiquariato – che possiedo ancora –, tre volumi sul generale Lee, e addirittura una prima edizione molto ingiallita del Piccolo colonnello. Dove stesse andando a parare mi era perfettamente chiaro. Nel giugno di quell'anno dovevano consegnarmi il diploma. Me la sarei cavata benissimo da solo, ma zia Mame mi scrisse una lettera debordante comunicandomi che lei e zio Beau avevano deciso di prendere la macchina e venire al St. Boniface, in modo da essere presenti alla grande cerimonia. «E ho una grande sorpresa in serbo per te, ciccino» continuava. «Appena finito con la scuola tu, tuo zio Beauregard e io partiremo direttamente per la Georgia, dove passeremo l'estate in una grande piantagione e potremo finalmente conoscere la mia adorata, tenerissima suocera. Scusa se vado un po' di fretta, ma stanno per arrivare le Figlie della Confederazione – abbiamo organizzato una riunioncina qui da noi. Non vedo l'ora di passare un po' di tempo insieme a voialtri». Alla consegna dei diplomi si presentò l'incarnazione stessa della Donna del Sud. Zia Mame portava infatti un abito da cocktail bianco che pareva fatto di zucchero filato, con guanti, cappello e persino un parasole di pizzo da roteare vezzosamente, mentre il ventaglio – anch'esso di pizzo – le scivolava di mano a intervalli regolari, scatenando ogni volta una gara di salamelecchi fra i cicisbei del St. Boniface. E quando le fu comunicato che avevo vinto il premio di Inglese, zia Mame apostrofò il mio professore di inglese in questi termini: «Oh, se voialtri sapeste fino a che punto siamo fieri di questo ragazzo. Del resto alla sua età anche il suo povero genitore ebbe modo di distinguersi per meriti letterari, giù da noi». In Georgia ci andammo sull'immane catafalco di zio Beau, una Dusenberg, fermandoci di tanto in tanto per ammirare un augusto monumento su questo o quel venerato campo di battaglia dove i nostri valorosi ragazzi del Sud erano andati incontro alla morte battendosi per gli ideali in cui credevano. Il panorama a me pareva una fetecchia, ma zia Mame, che aveva già avuto modo di ammirarlo in precedenza dai finestrini di un vagone letto, ci intrattenne a lungo sui nobili valori e le antiche memorie che permeavano quella terra. Quando la macchina si fermò davanti al colonnato di Peckerwood, la piantagione dei Burnside, un meraviglioso, decrepito maggiordomo ci si fece incontro per occuparsi delle valigie, mentre una gigantesca signora dalla pelle nera, che sembrava uscita dalla réclame di un budino, ci ballonzolò intorno ripetendo qualcosa come «'envenudi, 'envenudi» almeno una trentina di volte. Zia Mame era completamente a suo agio. Grazie al petrolio texano, allo zucchero di Cuba, al mercato azionario di New York e alle miniere canadesi, che contribuivano in varia misura al suo benessere, zio Beau era riuscito a riportare Peckerwood allo splendore anteguerra. Oltre alle piantane di cristallo, c'erano tende di damasco, sedie di palissandro e tavoli Sheraton. Zia Mame disse che era proprio carino. Mi accompagnarono nei miei appartamenti – una stanza enorme, con un letto a baldacchino, un comò Chippendale, e le finestre che affacciavano sullo smisurato terrazzo del secondo piano. L'unico tocco moderno, ahimè nordista, era una sontuosa vasca da bagno. Lì per lì zia Mame non parve gradire fino in fondo la sua sistemazione. Come da tradizione di famiglia, il primogenito e la sua sposa erano infatti stati alloggiati nel cosiddetto Cottage Nuziale, subito dietro il labirinto, mentre lei avrebbe preferito la casa padronale. Ma ritengo che in un secondo momento abbia ringraziato i suoi santi. «Scusa, Beau, ciccino,» cominciò a protestare già disfacendo le valigie «a quando l'incontro con quella deliziosa vecchiettina della tua mamma?». Ora, la madre di Beau si poteva definire in molti modi, ma «deliziosa» no, e qualsiasi forma di diminutivo suonava decisamente fuori luogo, se applicata a lei. Vecchia invece lo era, e suppongo che Dio, nella sua infinita misericordia, avesse avuto le sue ragioni per concederle la gioia tardiva della maternità – anche se, a costo di sembrare blasfemo, mi sono spesso sorpreso a domandarmi quali. Come impianto, la madre di Beau ricordava molto da vicino un frigorifero Generai Electric, e più in generale sembrava un incrocio fra Caligola e un cacatua. Mamma Burnside aveva due occhietti a spillo, un imperioso naso aquilino, la pelle cadente e l'alito cattivo. Portava una parrucca nera dura come un baccalà e un vestito nero anch'esso, e non molto più morbido. Trascorreva le sue giornate in un soggiorno oscurato, le mani grassocce – con le dita tempestate di anelli, sotto la cui cracia a volte si intravedevano brillanti – appoggiate sul ventre pingue. Pur éssendo una donna cupa e taciturna, qualora gliene saltasse il ghiribizzo era in grado di trattare i seguenti argomenti: a) i suoi leggendari antenati; b) la crescente testardaggine dei negri; c) gli yankee; d) lo squallore umano di chiunque avesse mai avuto modo di conoscere, a eccezione di se stessa; e) le deplorevoli condizioni dei suoi intestini. Ma in genere rimaneva in silenzio, le labbra serrate in segno di disapprovazione, gli occhietti neri e perfidi che dardeggiavano come quelli di una vecchia cocorita cattiva. La dimora di Peckerwood aveva anche un altro occupante. Si trattava dell'inevitabile parente povera, la cugina Fan – una scialba, timida, rinsecchita zitella che espiava la propria miseria sottoponendosi alle ininterrotte vessazioni di Mamma Burnside. A suo modo – un modo assai masochistico – la cugina Fan era un esserino tenero e patetico. Avrà avuto un QI non superiore a trentacinque, e nel poco tempo libero che le lasciava il soddisfacimento degli stolidi capricci di Mrs Burnside si divideva tra la beneficenza a favore dei negri e le preghiere a un suo Dio episcopale, forse anche benevolo, ma a quanto pare sordo come una campana. Dopo essere stato in bagno, e avere disfatto la valigia, sentii bussare alla porta. «Mi presento» disse. «Sono Fanny Burnside, la cugina di Beau. Mi spiace non essere venuta ad accogliervi, ma ero di sopra. La cugina Eufemia – scusate, volevo dire Mrs Burnside – aveva bisogno di me per la purga. Voi siete il nipotino di Beau, vero?». Risposi in senso affermativo, e le chiesi come andava. «Forse potremmo scendere in veranda a fare due chiacchiere. Fino alle quattro Mrs Burnside riposa». Così la cugina Fan e io andammo a sederci nel portico, ognuno sulla sua dondolo, e là rimanemmo fino a quando, dalla parte del cottage, vedemmo arrivare zia Mame e zio Beau. Zia Mame, spaventosamente su di giri, baciò più e più volte Miss Fan, chiamandola sempre e solo cugina Fanny. Il vecchio domestico di colore portò una grande caraffa di bourbon e qualche bottiglia di Coca. Col passare dei minuti, zia Mame diventava sempre più affabile. «Ma sapete cugina Fanny che siete proprio un'adorabile pulcettina?» trillò. Miss Fan rise per pochi secondi. Si vedeva benissimo che zio Beau era smisuratamente orgoglioso di zia Mame, la quale ricambiava chiamandolo micione e sistemandogli i capelli ramati in tanti artistici riccetti. In evidente imbarazzo, Miss Fan ridacchiava, dichiarandosi felice che suo cugino avesse trovato una mogliettina così deliziosa. Un istante dopo, dalle viscere della dimora arrivarono fino a noi dei colpi spaventosi, e il volto incolore di Miss Fan assunse una sfumatura grigiastra. «Spero che le nostre chiacchiere non abbiano svegliato la cugina Eufemia. Non si alza mai così presto». Ciò detto, si alzò ed entrò in casa. L'incontro fra zia Mame e sua suocera ebbe qualcosa di epico. Miss Fan infatti riapparve ciabattando in veranda, nel momento esatto in cui zio Beau proponeva un altro giro di bourbon. «È pronta a ricevervi, voialtri». «Oh, Beau, ciccino, che emozione!» gongolò zia Mame. «Non posso aspettare un minuto di più». Per quanto mi riguardava avrei aspettato fino alla fine dei tempi, ma pazienza. Con qualche apprensione, Miss Fan ci scortò tutti e tre nel salone sul retro dove Mrs Burnside, assisa in trono, ci stava aspettando. «Oh mamma, mammina» squittì zia Mame, precipitandosi a baciarla. Nel caso la sua pestilenziale fiatella npn fosse bastata a spegnere gli ardori della nuora, Mrs Burnside esordì come segue: «Sembrate più vecchia di quanto pensassi». Zia Mame vacillò. Non diceva mai quanti anni aveva, e i suoi documenti, all'apposita voce, riportavano solo la dicitura «maggiorenne», cui nessuno trovava mai niente da ridire. Sospetto che all'epoca fosse fra i trentacinque e i quaranta, ma ne dimostrava molti meno. Mrs Burnside rivolse a suo figlio una delle sue occhiate più torve. «Sì, Beauregard, mi avevi indotto a ritenere che fosse più giovane, assai più giovane. E figliolo mio, lascia che te lo dica, sembri stanco, stanco morto». Dopo averla baciata sulla fronte, Beau mi presentò. Io le agguantai quella sua mano grassoccia, producendomi in un inchino da scuola di ballo. «Sembri abbastanza a posto. Per essere uno yankee, chiaro» mi disse. Nel frattempo, ripresasi dalla prima bordata, zia Mame ripartì valorosamente alla carica. «Ma che bella, anzi, che magnifica casa neoclassica mam – volevo dire Mrs Burnside». Dalla sua parlata erano improvvisamente scomparsi i «ciccino», i «voialtri» e tutti i manierismi sudisti. «A noi piace» disse piatta Mrs Burnside, voltandosi verso Beau per dare la stura, è il caso di dire, a un torrenziale aneddoto sui suoi intestini. | << | < | > | >> |Pagina 142Il tè e la cena furono due momenti a dir poco strani. Lo spettacolo di zia Mame e Agnes Gooch che si coprivano di ridicolo davanti a Brian era a suo modo interessante, ma anche orribile. Agnes, con quella pelle flaccida, quei capelli morti color topo, quegli occhialini, quel vestito all'uncinetto informe e del blu sbagliato, quella volgare proprietà di linguaggio, era la tipica dattilografa innamorata di un uomo che aveva dieci anni più di lei. Così come zia Mame, con quella carnagione perfetta, quell'acconciatura impeccabile, quella magnifica linea, quegli occhi sfavillanti, e poi quegli abiti di sartoria portati con i gioielli giusti, e quel fascino naturale e allegro, era la tipica donna bella, sofisticata e non più giovane frastornata da un uomo che aveva dieci anni meno di lei.Durante le vacanze zia Mame non mi frequentò granché, ma in compenso fece il diavolo a quattro per costringermi a vivere in simbiosi con Brian. In pratica ci gettò uno nelle braccia dell'altro – contro la mia volontà e, ne sono certo, anche contro la sua. Una volta, mentre lei andava dal parrucchiere, lo costrinse a portarmi a fare un bel giro per Central Park. La giornata è rimasta negli annali solo per tre ragioni: la sua sgradevolezza, il tweed a spina di pesce di Brian, e la leccata di baffi – letterale – che il suddetto si concesse nell'incrociare una graziosa bambinaia che spingeva il carrozzino sulla Settima Strada. Un altro giorno zia Mame decise che Brian e io avremmo gustato al meglio la compagnia reciproca nella splendida cornice medioevale dei Cloisters. Fu un pomeriggio agghiacciante. Mi facevano male i piedi, i Cloisters puzzavano come gli spogliatoi del St. Boniface e Brian, agli oli delle vergini su tavola [? ndl] in arrivo da misteriosi conventi italiani, mostrò di preferire i belletti di due vergini in arrivo dallo Hunter College che giocavano a nascondersi fra le urne marmoree del dodicesimo secolo, ridacchiando come cretine. Che Brian esercitasse un suo magnetismo lo avevo già intuito, anche se, come molte signore non capiscono perché mai gli uomini perdano le bave per certe loro simili, io non riuscivo a capire che cosa mai le signore ci trovassero in lui. Oltre a essere un'acciuga, era un leccapiedi, un impostore, un magliaro, un bugiardo e, cosa più grave di tutte, era noioso come le tasse. Il resto delle vacanze fui costretto a trascorrerlo, con soddisfazione se possibile anche minore, insieme ad Agnes Gooch, che in media tre volte al dì mi faceva grossomodo lo stesso discorso: «Gesù, come passa in fretta un anno, non ci si crede. Diavolo, sembra ieri che mammina e Edna e io spacchettavamo i regali, e poi sai, mettevamo via il nastro, perché se lo stiri bene bene poi puoi usarlo anche l'anno dopo. Ed eccoci qui di nuovo». Di per sé, il Natale fu molto allegro, e zia Mame superò se stessa, riuscendo a farci sentire tutti e quattro in Irlanda, o almeno nell'Ulster. In ogni camino ardeva un ciocco, tanto che a un certo punto fummo costretti a spalancare le finestre, perché l'aria si era fatta irrespirabile. Brian ci si presentò in completo a quadri di lana secca, mentre Agnes arrivò in metropolitana da Kew Gardens dopo un incantevole venticinque mattina trascorso in compagnia di mammina e di Edna. Rifulgeva in un abituzzo che aveva pensato bene di ricavarsi da una pezza di lana di un senape offensivo, cui le applicazioni di perline sul petto non giovavano. E a ognuno aveva portato un regalo fatto con le sue manine. A me toccò una sciarpa all'uncinetto con i colori del St. Boniface, a zia Mame una vestaglia d'angora verde acqua. Brian invece si vide consegnare un paio di pianelle con trapunte sia le sue iniziali sia il trifoglio irlandese, e per sdebitarsi si produsse in un sorriso così devastante che alla donatrice si piegarono le ginocchia. Ad Agnes zia Mame regalò un bacio, una busta e una pezza di tweed verde – il che, dato il livello della sua produzione nel ramo maglieria, andava considerato un tragico errore. A Brian toccarono un bacio e una busta più panciuta di quella di Agnes - oltre a una fantastica Bentley spider che ci guatava dal marciapiede sotto casa. Rimase talmente di sasso da non riuscire neanche a sorridere. A me arrivarono un bacio, una busta, le due giacche più di tweed mai create, un paio di scarponi talmente pesanti che era impossibile anche solo sollevarli da terra, un panciotto a quadri e una scatola con dentro sette pipe, ognuna delle quali portava il nome di un giorno della settimana – lunedì, martedì, mercoledì e così via. In sostanza, il kit completo del Piccolo Brian, meno la Bentley. Brian aveva dedicato a ciascuno di noi una copia del Tulipano ferito. Passammo al cenone, piuttosto impegnativo, al termine del quale zia Mame disse che avrebbe trovato divino che io portassi Agnes al Radio City Music Hall, così avremmo visto un bel filmone e anche quell'adorabile, adorabile presepe vivente che organizzavano per Natale. Pur preferendo circa un milione di volte Agnes a Brian, trovavo il garrulo cicaleccio di lei snervante quanto il malsano silenzio di lui. Ma se non altro Agnes, a differenza di Brian, era una brava persona. Per tutto il viaggio in taxi continuò a blaterare Gesù, che caro e che dolce era Brian, e che peccato non potesse portarselo a casa, perché mammina e Edna sì che gli avrebbero fatto metter su qualche chilo, e Gesù che Natale fantastico era stato, e non pensavo anch'io che un Natale con la neve era la cosa migliore, visto che il freddo uccide tutti i germi? Giusto perché era Natale, dopo lo spettacolo la portai a bere qualcosa all'Algonquin. Agnes rimase molto colpita dall'imponenza vecchio stile del salone, e addirittura entusiasta nel vedere che i clienti bevevano comodamente seduti in sofà e poltrone. Proprio come stare a casa, disse, però in una bella casa, non una bettola. Quindi mi ripeté per le rituali tre volte che in fatto di alcolici mammina era severissima, e mi fece promettere che sulla strada del ritorno le avrei comprato un pacchetto di mentine. A quel punto, facendo sobbalzare il cameriere, ordinò una cosa che si chiamava Pink Whiskers. L'intruglio aveva un aspetto mefitico, almeno per me, ma Agnes lo tracannò con gusto – senza togliersi i guanti, e mantenendo il mignolo ostentatamente arcuato. Arrivata all'ultima goccia, affermò di sentirsi molto meglio: e, dopo un ruttino, disse non so quale scemenza sul palcoscenico e la bella vita. La mia mente si stava perdendo in una lontana regione astrale, ma fu bruscamente riportata sulla terra quando Agnes sbatté sul tavolo il bicchiere vuoto e strepitò: «Biondo, 'sta roba mi brucia viva. Ne voglio subito un altro!». Quindi, per qualche misteriosa ragione, aggiunse: «Maddài!». Il cameriere mi chiese se zia Mame sapeva dov'ero. «Guardi che Miss Gooch è l'Alice Toklas di zia Mame» risposi. «Vero, buon uomo, vero» intervenne Agnes. «Oh, non farmi rid...». Quindi tirò su col naso e aggiunse: «Ma come sei carino». Non mi restava che ordinare un altro bicchiere. «In fatto di alcolici questa vecchia zitella non capisce un'acca. Per me sanno un po' tutti di medicina, ma alle Prudential c'era una ragazza – Phyllis – che mi parlava sempre di questo Pink Whiskers che le faceva bere il suo fidanzato, un meccanico. Comunque aveva un nome così carino che non potevo non provarlo». Il cameriere portò il secondo Pink Whiskers, ma fece appena in tempo a posarlo sul tavolo che Agnes se l'era già scolato. Già che c'era, la sua amica Phyllis avrebbe potuto spiegarle che gli alcolici sono un fatto di tenuta, non di scatto, ma pazienza. «Gesù, mi sento così allegra, così felice, così giovane che potrei addirittura ballare». E qui ritenne fosse il momento di un altro «Maddài!». «Agnes, non credo che all'Algonquin ci sia l'orchestra» mi affrettai a puntualizzare. «Devo andare dove neanche lo zar entra a cavallo» strillò, per poi chinarsi su di me e mordicchiarmi un lobo: «Da bravo, cocchino, offrimene un altro». La trasformazione di Agnes Jekyll in Agnes Hyde era talmente sbalorditiva che feci esattamente quel che mi veniva chiesto, cioè suonai il campanello e ordinai un terzo Pink Whiskers. Il cameriere mi squadrò con aria truce: «Giusto perché è il nipote di sua zia, altrimenti questa signora con me avrebbe chiuso. Non c'è niente di peggio delle maestrine». Agnes si ripresentò un po' prima di quanto avrei voluto, il naso reso grigioazzurro da una cospicua applicazione di cipria. «Come sei carino» disse risistemandosi sul divano. Con la forza della disperazione tentai di cambiare argomento. «Senti un po', Agnes, a che punto siamo col libro? Credi che zia Mame e Brian lo porteranno in fondo?». Agnes si tolse gli occhiali e li sbatté sul tavolo con una tale violenza che, involontariamente, controllai se fossero ancora interi. «Senti a me,» disse «se tu ti trovassi chiuso in una stanza con Brian, avresti tutta questa fretta di uscire?». Mi morsi la lingua per non risponderle «Be', francamente sì». Agnes sbuffò e tolse l'ombrellino arancione dal bicchiere. Quindi mi rivolse una lunga occhiata assassina. Altro che incolori, i suoi occhi erano due lampi grigi, profondi e magnifici. E anche enormi. Qualche ciocca di capelli era andata fuori posto, e nonostante il naso coperto da tre dita di cipria piantato in mezzo a quella faccia scialba, per un attimo – giusto uno – mi sembrò bellissima. «Senti a me, Mrs Burnside non gli stacca gli occhi di dosso a Brian. È una cosa orrenda. Disgustosa. Accidenti, potrebbe essere sua madre...». «Be', adesso esageri» protestai a nome della famiglia. «E io... io lo amo da morire-e». Detto questo scoppiò in un pianto irrefrenabile, da cui si riprese solo per chiedermi: «Vedi se me ne portano un altro». Quindi si alzò e barcollò verso il bagno. | << | < | > | >> |Pagina 266«Soda, Mame?» chiese premurosa Mrs Upson.«No grazie, Doris» disse zia Mame avviandosi giù per il prato, in direzione del barbecue e di Mr Upson. La cortina fumogena era talmente densa che ci nascondeva i due alla vista, anche se sentivamo distintamente zia Mame tossire e schiarirsi la gola. A un certo punto la vedemmo anche riemergere, con gli occhi rossi come cipolle, fare rifornimento, e tornare impavida verso le fiamme, portando con sé altri due bicchieri di whisky belli pieni. Per preparare bistecche ben cotte – cioè, nell'accezione di Mr Upson, carbonizzate e coperte di cenere fuori e completamente crude, oltre che gelide, dentro, - ci volle un'eternità. Alla fine ce ne toccò una a testa, e la prima constatazione fu che una mente criminale sapeva come sperperare venti dollari di ottimo manzo. La seconda, che forse il fumo e lo scotch avevano sopraffatto Mr Upson. Seduti intorno al tavolo di vetro e ferro addentammo con una certa determinazione le bistecche, biascicando complimenti gutturali e poco sentiti. Durante il fiero pasto, Mr Upson trangugiò un altro paio di bicchieri, tanto che la sua signora fu costretta a chiedergli «Claude, sei sicuro?». Per il resto, cenammo in religioso silenzio. Emily accusò diversi, fastidiosi disturbi gastrici – lo credo –, mentre la quiete venne alla fine rotta da Boyd, che aveva la deplorevole abitudine di parlare con la bocca piena. «Cribbio, pa', sai la proprietà qui dietro? Venerdì stavo facendo un giro sulla 507 con Charlie Haddock, e sai cosa mi ha detto? Che la vogliono vendere a certi tizi del New Jersey, di Summit mi pare. Lui si chiama Bernstein, e di nome fa A-bra-ham». «Oh, no» sospirò Mrs Upson. «Bernstein?» esclamò Mr Upson sbattendo la forchetta sul tavolo. «State parlando dei Bernstein di Summit?» disse zia Mame. «Li conosco molto bene. Lui è un editor, lei una specialista di Rimbaud. Sono una coppia deliziosa, con due bambini che si chiamano...». «Alt! Qui c'è poco da scherzare» esclamò Mr Upson. «Non sto scherzando. I Bernstein sono amici dei Co...». «È impossibile, Boyd. Qui ci sono vincoli ben precisi, lo sai». «Qui, ma lì no. Lì non è Mountebank». «Oh papà, non è spaventoso?» intervenne Gloria. «Non lo permetterò» le rispose Mr Upson. «Li caccerò via, a costo di aspettarli in strada col fucile...». «Dado,» intervenne zia Mame «cosa ti prende? Sono persone squisite. Lei è una bruna simpaticissima, e anche la miglior cuoca...». «Che sia bruna non ho dubbi. Sarà la solita labbruta bisunta cafona...». «Ma guarda che ti sbagli. Sylvia è divina, davvero, e Abe a Harvard era in classe con Samuel...». «Ma davvero li conosci?». «Certo! Abe fa un lavoro magnifico da...». «Ma sono ebrei». «Ovvio che sono ebrei. Lei è parente non ricordo come di Rabbi Wise, e...». «Ma ti vuoi cacciare in quella testa dura che sono ebrei? E che stanno per venire a vivere vicino a me?». «Claude, per favore» provò a dire Mrs Upson. «Ma sì Dado, certo che ho sentito cosa diceva Floyd – Boyd –, che stanno per comprare il terreno qui a fianco. Oh, ti piaceranno moltissimo. Sono una delle giovani coppie più divertenti che...». «Ehi, finché si scherza si scherza, ma se tu davvero pensi che io voglia una banda di rabbini che mi scarica la merda nel prato...». «Dado, ma di che parli? Ti sto dicendo che sono amici miei. Sono le persone più perbene al mondo». «Ma sta' zitta!». «Claude!» disse Mrs Upson. «Un momento» dissi facendo per alzarmi. «Ti prego, papà ha i cinque minuti» fece Gloria. «Non mi importa cos'ha, non gli permetto di rivolgersi in quel modo a mia zia». «Boyd,» ruggì Mr Upson «vediamo di mettere insieme una ronda, un gruppo di vigilantes, così teniamo quei giudei e tutta la loro fetida razza alla larga da qui...». «Ma non sarai così ingenuo da pensare che gli ebrei siano una razza, vero?» intervenne zia Mame. «Qualsiasi antropologo...». «Non mi rompere con l'antropologia. Finché avrò vita combatterò ogni schifoso nasuto che cerchi di mettere piede sulla terra dei bianchi. E perdio...». «Fammi capire, mi stai dicendo che il Connecticut è roba tua? Cosa saresti, una specie di divinità che si arroga il diritto di decidere chi può comprare la terra e chi no?». «Mame, la casa di un uomo è il suo regno. Magari ti suonerà antiquato, ma è vero. E non ho lavorato come una bestia tutta la vita a costruirmi questo posticino per farmelo insozzare da una ghenga di usurai che pretende...». «Claude,» disse zia Mame con gli occhi ridotti a una fessura, e la voce più metallica che le avessi mai sentito «ti ho già detto tre volte che gli schifosi rabbini di cui parli sono amici miei. Li conosco da un sacco di tempo. Sono persone interessanti, intelligenti, e colte. Prima di giudicarli, aspetta di conoscerli». «Ah, ma davvero? Adesso la fai facile, ma vorrei vederti se venissero a vivere vicino alla tua bella casa di Washington Square. Cosa faresti, eh?». «Gli direi, "Benvenuti in Washington Square, Sylvia, e finché non vi siete sistemati venite pure a cena da me..."». «Merda!». «Claude!» disse Mrs Upson. «'fanculo, Doris, lasciami parlare!». Si girò verso zia Mame. «Tu te ne stai seduta lì a fare i tuoi discorsi da "New Republic" del cazzo, mentre un povero cristiano si trova di fronte a un serio...». «Vorrei che non usassi la parola cristiano a sproposito» disse zia Mame molto secca. «Ecco, vedi Mame...» provò a interloquire Mrs Upson. «Per favore, non potremmo cambiare discorso?» disse Gloria. «Ma sì, parliamo d'altro. Non so, di negri?» fece zia Mame. «Non ti intromettere, piccina» fece Mr Upson. «E tu, stammi bene a sentire, io ci sono stato a cena da te, l'ho vista la tua lussuosa casa europea, e sarò anche un ottuso assicuratore che non pensa in grande come te e Franklin Delano Rosenfeld, ma non mi pare che a tavola ci fossero giudei. Se non sbaglio c'erano un nobile inglese e un principe francese e una famosa attrice!». «Suppongo sarebbe crudele aggiornarti sul fatto che quella Vera Charles per cui tu e Doris stravedete in realtà si chiama Rachel Kollinsky, ed è figlia di un attorucolo ebreo». «Impossibile!» esalò Mrs Upson. «Affari tuoi» ruggì suo marito. «Comunque gli attori non contano, sono una razza a parte. Ma se si tratta di avere ebrei sul pianerottolo, praticamente in casa...». «Claude,» disse zia Mame con tutta calma «ti rendi conto che in questo stesso momento, in Germania, c'è un pazzo che si chiama Adolf Hitler e dice le stesse cose che dici tu?». «Non provarti a buttarla in politica. I sinistrorsi li fiuto a un chilometro di distanza». «Sì, sono una devota del presidente Roosevelt. E allora?». «Io parlavo di ebrei, e non mi sembra che sugli ebrei Hitler abbia delle idee così sballate, anzi». «Non parla sul serio, vero?» intervenni. «Li sta massacrando». «Non ho detto che vorrei massacrarli». «Credevo di sì, visto che ti ho sentito parlare solo di fucili, ronde e vigilantes» disse zia Mame gelida. «Cristo santo, sai cosa? Forse hai ragione». «Scusa, ma quanti ebrei conosci, Claude?». «Non ti preoccupare, li conosco bene. Sgomitano, vogliono comandare, alzano la voce...». «Come la stai alzando tu?». «'fanculo! Io parlo di una banda di rabbini che vuole trasferirsi qui, fianco a fianco con persone civili, decenti». «E per civiltà e per decenza intendi questo?». Zia Mame prese un attimo fiato, come faceva quando stava per dire qualcosa di serio. Avrei voluto morire, ma al tempo stesso ero ammirato. «Claude, ho conosciuto, e conosco, decine di ebrei, e purtroppo anche parecchi gentili che di loro dicono le stesse cose che dici tu. Conosco quegli insulti, dal primo all'ultimo. Come sono gli ebrei? Ah sì, malvagi, avari, avidi, rumorosi, volgari, pacchiani, dispotici. Ma devo ancora incontrarne uno solo, dal più miserabile ambulante della Prima strada al più ricco filantropo della Quinta, che ti batta, su questo terreno». «Mame!» ansimò Mrs Upson. «Cristo santo, non intendo stare in casa mia a farmi insultare un minuto di più. Vattene via, torna a Rabbinopoli e sbattiti tutti i rabbini che vuoi...». «Chiudi quella boccaccia» dissi saltando su dalla sedia. Mr Upson stramazzò sulla sua con due occhi così, mentre Boyd si alzava, fulminandomi con lo sguardo. Gloria si mise a urlare. «Ri... riprenditi l'anello e vattene! Vai a sposarti un'ebreuccia, se ti piacciono tanto. Sarai molto più contento così. Tanto non sei come noi, e non lo sarai mai!». «Gloria...». «Cara Gloria, Patrick non se ne rende ancora conto,» disse zia Mame alzandosi da tavola «ma dovesse vivere cent'anni nessuno gli farà mai un complimento migliore. Ti ringrazio da parte sua. Ora spero che mi scuserete. Patrick, vieni anche tu o devo farmi chiamare un autista cristiano – anzi ariano, se possibile?». «No no, vengo anch'io». Partimmo a tutta velocità, lasciando che il vento sulla faccia ci rinfrescasse le idee. Dopo un po' zia Mame disse: «Patrick, come sai tutti gli anni spendo parecchio in beneficenza. E per parecchio intendo parecchio». «Mmm». «Bene, che ne diresti se offrissi un bel po' più di quello che offrono Abe e Sylvia, comprassi quella proprietà e ci facessi costruire un ostello per i rifugiati ebrei?». «Direi che mi sembra un'idea fantastica». «Bene. Ci speravo».
Le baracche del Connecticut erano già lontane, e
l'anello di brillanti che avevo in mano mandava una luce fredda.
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