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| << | < | > | >> |IndiceFilantrocapitalismo come ricolonizzazione. Prefazione di Vandana Shiva 13 Prologo emotivo 21 I parte. RICCHEZZE E PULSIONI FILANTROPICHE 27 1. Filantropia: generosità calcolatrice, più che amore per l'umanità 29 - La prima età dell'oro: l'avventura filantropica di Andrew Carnegie, 40 - Monopoli e filantropia: la Fondazione Rockefeller, 45 - La nuova età dell'oro: numeri e tendenze della filantropia moderna, 55 - Una galassia di filantropie, 59 - Come si distinguono le fondazioni?, 61 - Il filantrocapitalismo, 65 - Filantropia, libertà e uguaglianza, 69 2. Economia politica della filantropia del XXI secolo 78 - La pericolosa patologia della disuguaglianza, 91 - Forme ed effetti della disuguaglianza, 94 - Meccanismi dell'arricchimento globale e della disuguaglianza, 97 - La pacchia fiscale di Donald Trump, 99 II parte. L'OLIMPO DELLA GENEROSITÀ INGANNEVOLE 109 1. Fondazioni, lotta alla povertà e governance globale 111 - Il Global Compact delle Nazioni Unite, 119 - Che cosa sono, e come funzionano, i partenariati pubblico-privati?, 123 2. Il monopolio filantropico di Bill e Melinda Gates 130 - Il ribaltamento dell'Illuminismo, 131 - Global Alliance for Vaccine Immunisation: l'esordio del modello pubblico-privato in salute, 142 - La filantropia epidemica: donare per controllare la salute globale, 144 - I vaccini, panacea della salute mondiale?, 150 - La Fondazione Gates e la produzione della conoscenza scientifica, 157 - Potenza di propaganda e linguaggi della persuasione, 161 - Finanza filantropica e creazione di nuovi mercati per i poveri, 163 - Lo strano caso del Global Health Investment Fund (Ghif), 167 - L'idealismo mancato di Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), 173 - Bill & Melinda Gates: la distopia della Rivoluzione verde in Africa, 175 - I vasi comunicanti: espansione di Microsoft e agenda della Fondazione Gates in Africa, 179 - Il Santo Graal del mais resistente: il progetto Water Efficient Maize for Africa (Wema), 195 - Bill Gates: il kingmaker della lotta al covid-19, 200 3. La speciale relazione di Ted Turner con le Nazioni Unite 210 - Il camaleontismo filantropico di Ted Turner, 214 - La nuova interazione della UN Foundation con il sistema Onu, 218 4. Il rovescio del ricamo: il sistema filantropico di Bill e Hillary Clinton 226 - La precipitosa caduta dei finanziamenti, 240 - Le liaisons dangereuses della Fondazione Clinton, 243 - Le cattive amicizie dei Clinton: il caso Álvaro Uribe, 250 - L'intuizione di Bill Clinton per assicurare l'accesso ai farmaci essenziali, 252 5. Paperoni di tutti il mondo unitevi. Il Giving Pledge 261 - Una nuova generazione di filantropi sulla scena: Mark Zuckerberg e Priscilla Chan, 265 - The Giving Pledge, dieci anni dopo, 269 Conclusioni. OLTRE I FILANTROPROFITTI 273 - Il Davos Consensus & la Grande Abbuffata, 275 - Oltre i filantroprofitti, per una vera filantropia, 280 |
| << | < | > | >> |Pagina 21Questo libro trae ispirazione da sentimenti di dolore e di rabbia, inutile andarci intorno. Affossa le sue radici in tre decenni di impegno nel campo della solidarietà internazionale e della salute. Ancora di più, viene dal privilegio di una potente esperienza personale di anni, quella di mescolarsi e apprendere dalle etiche di vita delle varie moltitudini di poveri che la società di mercato ha sospinto verso le forme più variegate della miseria moderna. E dall'aver fatto mio il loro punto di vista. Ho imparato a diffidare della narrazione legnosa e riduzionista sulla «lotta alla povertà». La povertà ha dimensioni insostenibili ed effetti tragici, e va combattuta cambiando le politiche strutturalmente violente, non si discute. Ma occorre sapere che la povertà non è una banale questione di soldi e anzi, da un punto di vista finanziario, è molto più espugnabile di quanto pensiamo. Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell'1% del prodotto interno lordo mondiale, per invertire la rotta. Basterebbe intercettare e invertire subito i meccanismi di esuberante accumulazione di risorse e potere da parte di una minuscola élite della globalizzazione artefice di un sistema che produce disuguaglianze, quell'1% della popolazione mondiale che possiede ormai la metà della ricchezza del pianeta. È su quell'1% che vince sempre, che occorre volgere lo sguardo: un'infima minoranza che avrebbe molto da perdere se ci fosse un'autentica evoluzione sociale e una virata normativa verso la ridistribuzione delle ricchezze. Per questo essa si è messa a condurre questo processo di trasformazione a modo suo, spesso con il consenso di quanti ne hanno più bisogno, invocando il mantra della lotta alla povertà per cambiare il mondo purché nulla cambi: cioè restituendo un po' della ricchezza che continua ad accumulare in modo che non sia fermata l'ingiustizia che produce asimmetrica distribuzione di risorse, conoscenze, strumenti, potere. Insomma, questa élite ha deciso di impadronirsi anche dell'ultimo fortino rimasto indenne dalla logica estrattivista e produttivista del capitalismo finanziario: il mondo della solidarietà, del dono. Sotto le sembianze di avvenenti donazioni, questi plutocrati sono divenuti i sacerdoti di una fede che gode molta fortuna, ma è fuorviante. Da vincitori di un sistema ingiusto, pensano di usare i valori e gli strumenti di quel sistema per sconfiggere la disuguaglianza. Hanno compreso le prospettive mai esplorate prima di questa battaglia: a land of opportunities, una prateria di opportunità per il loro business e la loro reputazione. Hanno vinto la partita della globalizzazione economica, cimentandosi con poche mosse su un campo di gioco privo di regole e di arbitri, dove ogni fallo è possibile. Siccome impersonano storie di successo, dichiarano di «voler rendere questo mondo un luogo migliore». Sono sensibili alle sfide del pianeta, dicono, ne conoscono i problemi, intendono far parte delle soluzioni. Anzi, puntano a colonizzare la ricerca delle soluzioni, convinti che le loro idee, i loro rimedi siano la migliore promessa di futuro che la massa dei diseredati attenda. Ma siamo sicuri che non ci sia una strategia migliore? È l'élite più socialmente impegnata ma anche la più predatoria della storia quella che ha sapientemente concettualizzato e architettato il filantrocapitalismo. Perlopiù sono uomini, uomini bianchi (le poche protagoniste donne sono «mogli di»). Sono americani, perlopiù. Monopolisti nel settore economico di riferimento, hanno congegnato con le loro fondazioni la grande trasformazione della governance mondiale per arrivare a monopolizzare le leve della politica internazionale in nome dello sviluppo, e ora della sostenibilità. Con la suadente moltiplicazione di «iniziative concrete e misurabili» ispirate alla logica aziendale e al diritto privato, in due decenni questi plutocrati hanno disseminato qua e là soluzioni che nella maggior parte dei casi non intaccano, talvolta anzi persino rafforzano, le dinamiche di ingiustizia all'origine delle situazioni di cui pure i loro rimedi alleviano qualche sintomo. Un'iniziativa dopo l'altra, hanno definitivamente scompaginato la filiera della responsabilità pubblica nel governo del mondo. Ho assistito in presa diretta ai passaggi che hanno spianato la strada all'affermazione della nuova classe di paperoni sulla scena della diplomazia globale. Tutto è accaduto con una regia molto precipitosa, sotto i miei occhi. A Seattle, nel novembre 1999, la società civile di tutto il mondo si imponeva con forza al cospetto della comunità internazionale, riunita per la prima conferenza tra gli stati membri dell'Organizzazione mondiale del commercio, con l'insopprimibile domanda di globalizzare finalmente i diritti e la giustizia. Nelle stesse settimane, a New York, le Nazioni Unite, l'organizzazione che dovrebbe racchiudere e delineare il governo del mondo, capitolavano velocemente sotto la pressione di pochi stati per inaugurare l'integrazione dei vincitori del libero mercato nei consessi negoziali della politica internazionale. L'arrivo dirompente e distruttivo del covid-19, esattamente a 75 anni dalla nascita delle Nazioni Unite e a 25 dall'entrata in vigore dell'Organizzazione mondiale del commercio, sollecita molteplici spunti di riflessione sul governo del mondo. Una pista di osservazione poco battuta, ma a mio avviso determinante, riguarda oggi più che mai la riflessione sull'egemonia culturale, finanziaria e politica del filantrocapitalismo. La ricerca di soluzioni veloci che interrompano la diffusione del contagio conferisce una spinta inesorabile al colonialismo filantropico, oggi praticamente senza argini, nemmeno all'interno delle confessioni religiose. I filantropi che salvano il mondo la fanno da padroni nella gestione della pandemia grazie all'impenetrabile complesso industriale vincolato alle loro donazioni e al potere di seduzione che esercitano, mentre la comunità internazionale si dimena nel caos di micidiali pulsioni nazionaliste e buona parte della società civile, ormai assoggettata, dipende dai filantroprofitti per continuare a vivere. La pandemia ci impone un ragionamento di senso sul filantrocapitalismo, perché questo ristretto entourage è connesso a doppio filo con il mondo della tecnologia digitale, della biotecnologia, della finanza, i tre ambiti che definiranno il futuro del pianeta. Il ribaltamento del rapporto di potere tra i pochi titani della ricchezza globale e i molti esponenti della funzione pubblica non è uno scenario promettente. L'assenza di un dibattito serio sul filantrocapitalismo nel nostro paese, al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, è imbarazzante. Abbiamo bisogno per esempio di prendere le distanze dalle braccia ingenuamente spalancate dei nostri leader - come di tutti i leader mondiali - nei confronti di Bill Gates, alle cui gesta filantropiche nessuno si sogna di porre domande, prima ancora che condizioni. Abbiamo bisogno di marcare le distanze anche dalle teorie complottiste su Bill Gates e compagni, dietrologie che «la buttano in caciara» e appannano le ragioni di una riflessione basata sui fatti. Il fenomeno scoppiato con la pandemia è spia di una generale assenza di riferimenti conoscitivi per leggere la complessità e della montante insofferenza verso la biforcazione di destini che non ha ragione di esistere. Questo stato di cose non è una fatalità della storia. | << | < | > | >> |Pagina 55La nuova età dell'oro: numeri e tendenze della filantropia modernaDall'inizio del nuovo millennio la filantropia è esplosa. Oltre ogni ragionevole dubbio, si tratta di un fenomeno strettamente correlato alla concentrazione di potere economico e finanziario dovuto alla globalizzazione, che ha prodotto inaudita accumulazione dei capitali e drastica riduzione delle misure di giustizia sociale, anche nei paesi dotati di sistemi di welfare. In un ricorso storico di cui avremmo fatto volentieri a meno, la disuguaglianza crescente che Barack Obama innalzava al rango di «sfida che definisce la nostra epoca» è tornata sulla scena come levatrice principale di una nuova schiera di filantropi che, forti di inarrivabili ricchezze, si fanno avanti con soluzioni per ogni ambito della vita umana. I soldi parlano e la loro filantropia si inventa nuove definizioni, afferma inedite pratiche, acquista nuova coscienza di sé come vero e proprio settore d'impresa in costante crescita: per numero di entità, per quantità di fondi erogati, per diversificazione delle attività. In due decenni, una nuova generazione di imprenditori iper-agenti filantropici si è guadagnata un ruolo di assoluto predominio nelle sedi della politica internazionale, a cominciare dalle Nazioni Unite. Il denaro ha conferito loro un potere a sé stante che è in grado di possedere e prendere il posto del potere politico. Così si sono messi in testa di «salvare il mondo e trasformare la cooperazione internazionale». Con spregiudicato protagonismo hanno conquistato un'ingombrante rilevanza nel dibattito politico che ha partorito l'accordo mondiale degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Oss), siglato a New York nel settembre 2015. Non si hanno informazioni dettagliate sulla quantità totale dei fondi con cui ogni anno i principali attori della filantropia globale finanziano lo sviluppo, ma l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse/Oecd) ha calcolato una stima attendibile di questa cifra, fissandola nell'ordine di 23,9 miliardi di dollari nel triennio 2013-2015, cioè intorno ai 7,8 miliardi di dollari per anno. Una piccola doccia fredda per il mondo filantropico, tanto opulento quanto ancora opaco, che declamava invece un impegno finanziario di 60 miliardi di dollari l'anno (i governi, nel 2016, hanno versato 146 miliardi di dollari, tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare!). Salute ed educazione, aree di elezione su cui la filantropia ha costruito la propria storia, rimangono priorità, accanto alla nutrizione. Tra 2013 e 2015, il 54% delle erogazioni totali è stato diretto alla salute, specie quella riproduttiva, e ad interventi collegati alla popolazione, con un focus al controllo delle malattie infettive. Solo il 18% delle donazioni è stato indirizzato alle organizzazioni multilaterali, ma si tratta di fondi vincolati, ciò che permette alle fondazioni di esercitare un controllo rigoroso sull'uso del loro denaro. Vale la pena segnalare, fra l'altro, che il 2014 e 2015 - anni di punta del negoziato verso gli Obiettivi dello sviluppo sostenibile - sono stati anni di una certa esuberanza elargitoria. Il Wealth-X and Arton Capital Philanthropy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi (in gergo, Ultra-high net worth: Uhnw) siano incrementate del 3% nel 2015, rispetto al 2014 che aveva registrato già un aumento del 6,4%. Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità: gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe. Insomma, la filantropia forse combatte la povertà, ma di sicuro rimpingua le tasche dei donatori! [...] Il rapporto Ocse rileva altresì che le risorse provenienti dalle fondazioni sono molto concentrate: l'81% delle donazioni filantropiche erogate complessivamente tra il 2013 e il 2015 discendono da 20 entità. La Fondazione Bill & Melinda Gates fa la parte del leone, con una massa totale di finanziamenti dall'inizio delle attività di 50,1 miliardi di dollari, una dotazione finanziaria di 46,8 miliardi di dollari e una capacità di erogazione nel 2018 di 5 miliardi di dollari (dati agosto 2019). Tra il 2013 e il 2015, la Fondazione Gates ha potuto destinare 11,6 miliardi di dollari allo sviluppo globale, più di quanto non riescano a fare le agenzie delle Nazioni Unite.
E allora, di fronte a tanta effervescenza finanziaria, qual è il problema?
Una galassia di filantropie
La teoria contemporanea identifica almeno cinque funzioni essenziali della filantropia. La prima e più importante riguarda la promozione del cambiamento sociale (social change), per esempio a favore di fasce svantaggiate della società. La seconda è l'innovazione sociale, lo stimolo a ricercare nuovi approcci per affrontare determinati problemi (grazie alla Fondazione Scaife che investì nel laboratorio di Jonas Salk si arrivò, negli anni Cinquanta, alla scoperta del vaccino contro la poliomielite). La terza funzione investe la possibilità di ridistribuzione delle risorse: la filantropia come fattore di riequilibrio di disparità di reddito, insomma. La quarta rimanda alla libera partecipazione degli individui al bene comune; l'esercizio della filantropia produce il beneficio di un protagonismo plurale nella società aperta, l'assunzióne di responsabilità dei singoli come valore civile e indicatore di emancipazione. Last but not least, la quinta funzione ha a che fare con la legittima esigenza di autorealizzazione del donatore, la valorizzazione della sua autostima, il riconoscimento pubblico della sua attitudine. La varietà di attori in campo esige uno sforzo di differenziazione. I numeri sulle fondazioni che abbiamo presentato riflettono una realtà caleidoscopica, una diversità oggettiva di obiettivi, interessi, profili di presenza nella società, modalità di finanziamento. Variegata è la gamma dei temi di cui si occupano le fondazioni nel mondo: dalla scienza al cambiamento climatico, dalla cultura alla promozione religiosa, dall'infanzia alla natura e i parchi, dalla formazione alla medicina, dall'arte alla stampa, oltre che la lotta alla povertà. Multiforme la gamma degli obiettivi che perseguono, con programmi diretti e operazioni sul campo, con finanziamento di realtà associative, oppure tramite campagne tematiche per la sensibilizzazione dell'opinione pubblica, e iniziative di sostegno a nuclei di «resistenza» in ambito politico ed economico. Intorno al concetto di fondazione si muove un mondo e sarebbe fuorviante negarne il valore in specifici ambiti di intervento. Penso al sostegno delle fondazioni ad azioni di solidarietà internazionale, alla promozione dei diritti e della presenza civica nei processi diplomatici, a filiere di ricerca politica in settori chiave che la cooperazione pubblica allo sviluppo ha definitivamente accantonato. Neppure si può sottovalutare il ruolo che esse hanno avuto in passato e tuttora mantengono, non solo negli Stati Uniti, nel promuovere pratiche di democrazia, lotte alle discriminazioni, forme di attivismo sociale progressista, soprattutto a favore di piccole realtà impegnate sul piano nazionale. O la loro dedizione alla libertà di stampa, con il finanziamento di inchieste o altre attività dei difensori dei diritti umani in paesi con regimi autoritari. In ultima analisi, nella galassia del mondano entourage della filantropia è possibile identificare ed estrarre espressioni illuminate della filantropia, che genuinamente coltivano l'aspirazione alla pace e alla promozione del pubblico interesse. Ma questa è solo una parte della storia, come vedremo in seguito. [...] Si chiama billionaire effect: persino i più spietati Ceo americani si sono allineati, anzi sono oggi i sacerdoti della religione del «capitalismo compassionevole», o inclusivo che dir si voglia. Larry Fink, a capo di BlackRock, il più gigantesco gestore di fondi al mondo, predica da qualche anno che le corporations devono darsi un fine da perseguire, insieme, e oltre, all'obiettivo del classico profitto. La sua predicazione ha fatto strada. Il 19 agosto 2019, più di 180 leader delle più importanti multinazionali di Business Roundtable - per capirsi, gente alla guida di Amazon, JP Morgan Chase, Walmart, Mastercard - si sono ritrovati per sovvertire decenni di ortodossia e annunciare una conversione sentimentale. In una dichiarazione approvata all'unanimità, i membri di Business Roundtable hanno affermato che lo scopo delle megacorporations non è più solo servire gli interessi degli azionisti, ma relazionarsi «in un'ottica di valore» nei confronti di clienti, fornitori, staff, comunità. È fatta, vien da dire! Finalmente, una «componente di bene» sta al cuore del nuovo modello di business. Nessuno può negare che le élite del nostro tempo siano quelle più socialmente impegnate della storia. Peccato che siano anche le più predatorie. Queste élite, sottolinea Anand Giridharadas, rifiutando l'idea che i potenti dovrebbero sacrificarsi per il bene comune, si aggrappano a un sistema di formule sociali che permette loro di monopolizzare il progresso, salvo poi condividerne qualche briciola simbolica con coloro che restano indietro - molti dei quali non avrebbero bisogno delle briciole se la società funzionasse per il verso giusto. La forsennata riattivazione dei sentimenti filantropici ha inevitabilmente aperto il varco a uno tsunami di preoccupazioni da parte della società civile, del mondo accademico e dei media internazionali più accorti. Al tempo del capitalismo ultrafinanziarizzato e senza regole, all'indomani di ripetute vicende giudiziarie che hanno travolto le imprese transnazionali con scandali finanziari e violazioni dei diritti umani, che cosa vuol dire intendere i principi di buona gestione e di responsabilità sociale come forma di democratizzazione e di validazione del mondo imprenditoriale? Il settimanale The Economist, nel commentare la nuova filosofia del Business Roundtable, non ha esitato a scrivere che, per quanto benintenzionata, questa nuova forma di capitalismo collettivo finirà per produrre più danno che benefici. Rischia di consolidare una classe di Ceo avvezzi a non render conto del loro operato e privi di legittimità. Il tema dell'autogoverno delle imprese (corporate governance) richiede insomma grande attenzione. Prima di tutto perché sfugge a qualunque regolamentazione. Nell'attuale società globalizzata, sempre più orientata al mercato, le corporations hanno conquistato enorme capacità di influenza nei processi che determinano le scelte strategiche della politica internazionale: di fatto partecipano attivamente a fondamentali passaggi di questi processi. La filantropia di investimento, o filantrocapitalismo, lungi da fornire un surrogato allo stato sociale in sfacelo o una formula residuale di garanzia dei diritti, rappresenta l'espressione più sofisticata di un ordine economico mondiale che mira alla difesa del proprio interesse come spazio vitale non negoziabile. In ultima analisi, la conferma della deregolamentazione dei mercati che divide il mondo tra sommersi e salvati, così che i ricchi possano gestire entrambi a loro piacimento. | << | < | > | >> |Pagina 69In una prospettiva squisitamente politica il filantrocapitalismo, lungi dal «salvare il mondo» come sostengono Bishop e Green, esaspera gli squilibri di potere e le patogenesi della globalizzazione. La teoria gramsciana ci ricorda che le élite usano la propria egemonia culturale per organizzare il consenso, e che il consolidamento della loro posizione di potere non si esprime con la forza materiale ma con l'indottrinamento razionale e la spinta di una retorica sentimentale. Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d'azione sconfinato. Esercitano un ruolo talmente ingombrante nella produzione di conoscenza, nell'affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale, da essere ormai insopportabile. La loro azione ha modificato il pensiero e il modo di vivere dei subordinati, tra questi i governi che non governano più, così da scongiurare cambiamenti più profondi e radicali della società.Da un punto di vista del pensiero e del modello etico liberale, la questione dell'agibilità dell'intervento privato di queste immense accumulazioni di potere e di ricchezza nello spazio pubblico resta dirimente. Difficile che rappresentino un beneficio per la libertà, il pluralismo e la democrazia.
«La ricerca dimostra che dare rende felici. Sii egoista e fai donazioni»,
recita il poster di un college in un campus americano.
Filantropia, libertà e uguaglianza
La filantropia è convenzionalmente associata alle nozioni di libertà e uguaglianza. Alla libertà, prima di tutto, perché è un atto del tutto volontario, e non potrebbe essere diversamente. Non può esserci coercizione nell'atto del donare. La filantropia rimanda storicamente alla libertà di associazione, all'istinto umano di unirsi per risolvere insieme i problemi. Abbiamo visto questa spinta in azione nel contesto americano del XIX secolo. La filantropia mira alla piena realizzazione delle persone, alla possibilità creativa per chi dona di tradurre operativamente i propri valori; nel caso di istituzioni, di svolgere in senso compiuto la propria mission. Poi c'è l'altra connessione, con l'uguaglianza. La quintessenza della filantropia, lo dice la parola stessa, è quella di saper guardare con empatia alle situazioni di difficoltà, alle persone svantaggiate. Questo è vero per molte tradizioni filantropiche - basti pensare all'inderogabile imperativo morale di assistere i poveri nelle tradizioni religiose, all'archetipo culturale del dono codificato in pratiche diffuse. Questa convinzione è ancora molto radicata. Sono in molti a credere che l'azione filantropica sia auspicabile, anzi necessaria, per il potenziale redistributivo che esprime. In effetti la ridistribuzione avviene nel caso di un trasferimento diretto di soldi dai ricchi ai poveri oppure quando la filantropia si attiva per rimuovere le cause strutturali della povertà, così da evitare che i poveri debbano continuare a dipendere dalla carità o benevolenza altrui per vivere. La narrativa del legame tra filantropia, libertà e uguaglianza è molto seducente, ma la realtà delle cose è più complessa e un po' meno rosea. Vale la pena ricordare che se nel mondo vigesse un'equa ridistribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia, nelle sue molteplici versioni. Neppure si darebbe tanto margine di manovra per l'insaziabile brama di controllo delle élite della plutocrazia globale, sempre pronte a predisporre formule e soluzioni ai problemi che esse stesse hanno contribuito a produrre. Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza. Ha ragione da vendere la sociologa McGoey quando sostiene che l'esuberanza filantropica è l'altra faccia della medaglia della sperequazione sociale che avvilisce e umilia larghe fette della popolazione globale. Salvo rare eccezioni, la filantropia non è affatto amica dell'uguaglianza. Può anzi esserle del tutto indifferente, quando non ostile. Paradossalmente, può addirittura esacerbare la dis- uguaglianza. Il sistema di incentivi fiscali che nutrono e alimentano la filantropia è il primo problema. In che senso?, vi state chiedendo. Aiutare ad aiutare è giusto, no? Sì e no. Dipende dall'architettura dei sussidi fiscali a sostegno delle fondazioni e di quanti erogano donazioni. | << | < | > | >> |Pagina 76La povertà del nostro secolo è diversa dalla povertà di qualsiasi altro tempo. Non è, come in passato, frutto della scarsità naturale, bensì di un insieme di priorità imposte al resto del mondo dai ricchi. Alcuni di questi predatori-filantropi proclamano gli effetti benefici del loro ricorso ai paradisi fiscali, perché così facendo liberano più risorse da destinare all' altruismo. Altri sostengono che la loro filantropia è «una forma di autotassazione», sicché giustamente sono esonerati dalla piena contribuzione fiscale - secondo una teologia meritocratica per cui, se uno è povero, alla fine se lo merita.Di fronte alle scomposte dinamiche di accaparramento su cui si regge l'attuale sistema economico, dobbiamo rompere la cortina di conformismo legislativo con qualche domanda. Ha senso che «i salvati» di un super-capitalismo truccato, progettato apposta per creare disuguaglianze, abbiano un ruolo di primo piano nella lotta alla povertà, cui contribuiscono per molte vie? E soprattutto, ha senso che partecipino a questo obiettivo con escamotage premiali che consentono di sottrarsi alla contribuzione fiscale, più di quanto già non facciano? Che cosa legittima politicamente l'idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune? Non è sotto gli occhi di tutti, ormai, l'urgenza di produrre maggiori entrate pubbliche con regimi di tassazione progressivi, con strategie di trasferimento fiscale più eque, così da agire sul livellamento delle disuguaglianze e sulle condizioni esistenti di disparità (per esempio: le pari opportunità, la rimozione di ogni discriminazione razziale o di genere, le tasse sulle rendite, ecc.), per promuovere una giustizia distributiva? Nella loro incarnazione contemporanea, le fondazioni filantropiche non rispondono più all'esercizio della libertà individuale, quanto del potere. Un potere che impone scrutini, accountability. Un potere che esige indagini più accurate e costanti, non agevolazioni fiscali. L'esistenza e il potere di fondazioni filantropiche dotate di enormi risorse, la cui capacità di influenza sulle politiche pubbliche è senza freni, incarnano una tensione forte con le condizioni e le attese di una democrazia liberale, che sulla carta prevede l'uguaglianza tra le persone cittadine, uguaglianza politica, economica, sociale. Proprio perché questa tensione ha superato ogni livello di sostenibilità funzionale e di accettabilità etica, è indispensabile l'introduzione di nuove strutture normative che comportino meccanismi di addomesticamento dei plutocrati. Così che costoro possano servire, e non sovvertire, le finalità democratiche. | << | < | > | >> |Pagina 97Meccanismi dell'arricchimento globale e della disuguaglianzaSe la disuguaglianza è inesorabilmente cresciuta negli ultimi anni, ciò è imputabile a precise scelte politiche dei governi. Senza interventi correttivi, è destinata a crescere ancora. Il taglio delle tasse, ad esempio, è una promessa che ha un potente riscontro nella dialettica elettorale e gode di una decisa appetibilità nella discussione pubblica - abbiamo visto il fenomeno anche in Italia -, ma è priva di qualsiasi evidenza di giustizia. Ogniqualvolta viene adottato un taglio delle tasse, infatti, la misura porta acqua al mulino di chi, l'acqua, già ce l'ha. Una delle fonti più comuni di accumulazione della ricchezza proviene per l'appunto dalla cosiddetta tax avoidance, cioè dalla possibilità di usare le scappatoie delle legislazioni fiscali per eludere il pagamento delle tasse. Peraltro, i regimi fiscali prevedono ormai riduzioni sempre più consistenti delle aliquote per le fasce più alte di reddito. Negli Stati Uniti, dopo la fine della Seconda guerra mondiale e durante i gloriosi decenni di espansione economica post-keynesiana, l'aliquota massima delle imposte federali sul reddito non è mai scesa sotto il 70% - stava al 91% durante il decennio di Eisenhower e Kennedy (1953-1963). È poi precipitata al 50% negli anni Ottanta di Ronald Reagan, per scendere ancora al 40% nel 1996 e infine al 35% nel 2008. Sul piano storico, gli scaglioni di reddito e le relative soglie hanno costruito nel tempo l'architettura di una progressività fiscale completamente stravolta: In breve, negli Stati Uniti la progressività era molto più forte e la disuguaglianza molto più bassa nei decenni di crescita economica più sostenuta. Il repubblicano Eisenhower governò il paese con un sistema che oggi sarebbe considerato comunista, e il sistema fiscale statunitense era molto più progressista sotto Reagan che sotto Obama. Nella realtà, la maggior parte dei miliardari paga molte meno tasse grazie a un escamotage che permette di non annoverare come reddito il capitale guadagnato tramite hedge funds, i fondi speculativi. La ricerca degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman evidenzia che le 400 famiglie più ricche d'America hanno pagato nel 2018 un'aliquota effettiva del 23%, cioè un punto percentuale in meno di quello versato dalle famiglie delle fasce sociali meno abbienti (24,2%). Una decina di anni fa, Warren Buffett aveva sollevato il polverone rivelando che pagava meno tasse della sua segretaria, grazie a deduzioni e scappatoie del sistema fiscale americano. Alle primarie del Partito democratico per le elezioni presidenziali 2016, c'era stata l'implacabile denuncia del senatore Bernie Sanders contro la classe dei miliardari ad attizzare le folle. Sanders ricevette milioni di piccole donazioni a suo favore, una base di sostenitori diffusa e alternativa ai grandi potentati che finanziano di solito le elezioni, a dimostrazione dell'ondata di insofferenza nei confronti di questa situazione. Che i ricchi paghino meno tasse dei poveri non è più la storia personale di Buffett. È la norma, in quel che resta della grande democrazia americana: un trionfo dell'ingiustizia fatto sistema. | << | < | > | >> |Pagina 103Ma che c'entra tutto questo con la filantropia, vi chiederete? I filantropi non sono quelli che usano il loro denaro per fare del bene? C'entra eccome. I tycoon delle multinazionali che si cimentano con il proposito di salvare l'umanità dall'indigenza sono gli stessi che si muovono con scaltrezza in questo scenario di turbocapitalismo e di disuguaglianza crescente. Come i loro soldi, agiscono da una parte all'altra del pianeta con tentazioni egemoniche per il controllo del mercato - chi non ricorda il caso di Bill Gates costretto dalla Commissione europea a pagare la prima severa multa per abuso di posizione dominante della Microsoft nel marzo 2004? - o delle materie prime. Sono loro i personaggi che con le rispettive fondazioni si spendono per costruirsi una discreta immagine come campioni della lotta alla povertà, ammantati dalla reputazione benigna che i leader politici conferiscono loro. Capita ogni tanto però che gli appassionanti giochi di evasione o elusione fiscale di questi sacerdoti dell'agenda sociale vangono alla luce.Il rapporto 2019 di Mediobanca snocciola cifre colossali di tasse non pagate dai giganti del websoft, dal 2014 a oggi: decine di miliardi trattenuti grazie a ingegnosi «slalom fiscali», imposte agevolate o vere e proprie fughe nei paradisi fiscali. Ce n'è per tutti: dai filantropi della prima ora a quelli di ultima generazione come Jeff Bezos e Mark Zuckerberg - in base all'indagine, Facebook ha avuto un'aliquota fiscale media dell'1% nei paesi extra Ue in cui ha operato. E poi c'è il caso del leader degli U2 Bono, noto fustigatore di governi inadempienti con gli impegni dello sviluppo, il cui nome è apparso nella lista di Paradise Papers. «Essere filantropi e attivisti non significa essere degli sprovveduti negli affari», era stato del resto il commento della star irlandese rispondendo nel 2011 a chi (gli attivisti di Art Uncut) lo criticava per aver spostato la sede finanziaria della band fuori dalla natia Irlanda. Esiste insomma una robusta correlazione fra ricchezze stratificate nelle tasche di pochi e inesorabile impoverimento di intere società, non più solo nel Sud globale, come abbiamo visto. Non può essere sottovalutata, o liquidata come ideologica, la necessità di fissare occhi più disincantati sulla filantropia e uno sguardo più critico sulla stessa agenda per lo sviluppo globale che, come esamineremo in seguito, si configura come il principale terreno di gioco del filantrocapitalismo. | << | < | > | >> |Pagina 111Togli i ricchi, e non ci saranno neanche i poveri. Pelagio, De divitiis Lo scopo dei belligeranti è la conquista dell'intero mondo attraverso il mercato. Gli arsenali sono finanziari. La mira di chi conduce la guerra è governare il mondo da centri di potere nuovi e astratti: megalopoli del mercato, che non saranno soggette ad altro controllo che a quello della logica dell'investimento. Nel frattempo nove decimi delle donne e degli uomini del pianeta vivono con i segmenti scomposti di un puzzle che non sta insieme. John Berger, Contro i nuovi tiranni Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi. George Orwell, 1984 Riprendiamo a questo punto il nostro ragionamento sulle fondazioni. Abbiamo raccontato quali effetti ha prodotto la nascita delle prime istituzioni della filantropia moderna, alle prese con i problemi sociali causati dai dirompenti processi di industrializzazione, tra la fine dell'Ottocento l'inizio del Novecento. Abbiamo visto come la salute, soprattutto l'eradicazione di vecchie e nuove malattie, sia stata da subito il terreno prioritario di lavoro di queste fondazioni. Mutuando dalle concezioni imprenditoriali tipiche del modello industriale, e con grande libertà di manovra, le fondazioni hanno saputo cogliere con prontezza la necessità di agire in un campo, quello sanitario, abbandonato a sé stesso e popolato solo di immensi bisogni. Le fondazioni pianificavano i loro interventi con il coinvolgimento di personale professionalizzato e la loro strategia nei programmi sanitari finì per influenzare la formulazione degli approcci teorici e pratici in materia di salute internazionale, al punto che la prima mobilitazione dei governi nella lotta alle malattie scaturisce proprio dal dinamismo delle fondazioni, e dalla pressione che in quella fase hanno saputo esercitare sui decisori politici. Questo è di certo il caso della Fondazione Rockefeller. Se non fosse stato per il ruolo svolto dalla Fondazione Rockefeller contro specifiche malattie nella prima metà del Novecento, la stessa nozione di «salute pubblica» si sarebbe fatta strada con molta più fatica, e forse con molti più oppositori. Il dato storico è che l'evoluzione di modelli, concetti e strutture che hanno codificato gli assetti delle istituzioni sanitarie internazionali che oggi conosciamo va esclusivamente attribuita alla visione del filantropo Rockefeller: In pratica, la Fondazione Rockefeller era coinvolta in tutti gli aspetti della salute pubblica: idee, teorie, ricerca, formazione professionale, pratica, programmazione, organizzazione e creazione istituzionale. In qualità di unica agenzia sanitaria operativa sul piano internazionale fino alla fondazione della Organizzazione mondiale della Sanità nel 1948, la Fondazione Rockefeller ha contribuito di fatto a delineare e disegnare la salute pubblica globale con una capacità di influenza ben superiore ad ogni altra organizzazione del suo tempo. E non finisce qui. Forse non tutti sanno che la Rockefeller è stata il primo e unico finanziatore privato delle Nazioni Unite nei primi decenni della loro esistenza; grazie alla sua donazione di 8,5 milioni di dollari fu possibile acquistare, alla fine degli anni Quaranta, il terreno lungo l'East River per la costruzione del Palazzo di Vetro. La sua capacità di influenza fu sconfinata negli anni del dopoguerra e si estese presto anche al campo dell'agricoltura, con approcci innovativi che hanno poi dominato tutto il XX secolo. L'avvio del Programma Messicano per l'Agricoltura nel 1943 aprì la strada alla cosiddetta Rivoluzione verde, una strategia che dagli anni Cinquanta diventerà decisiva, e anche molto controversa, come vedremo, nei rapporti Nord/Sud. L'iniziativa della Rivoluzione Verde mirava a trapiantare nel mondo - a partire da America Latina e Asia - un approccio di sviluppo agricolo imperniato sull'uso di nuove tecnologie di ingegneria genetica, sull'espansione dell'industria agraria e sulla massimizzazione dei raccolti. La Fondazione s'impegnò a diffondere e di fatto imporre questa strategia ai paesi dell'emisfero sud come soluzione globale per combattere la malnutrizione e la fame nel mondo. In realtà era molto di più. Nel rigido quadro della Guerra fredda, la Rivoluzione verde doveva agire anche come potente leva geopolitica per arginare l'espansione del comunismo. Era basata sulla combinazione di tre elementi: sviluppo di semi ibridi, metodi di miglioramento della fertilità del suolo e uso estensivo di fertilizzanti e pesticidi, e ricevette dalla Fondazione una valanga di finanziamenti per provarne la praticabilità tecnologica, per sovvenzionare la comunità scientifica, per costruire nuove istituzioni locali con il compito di incarnarne il verbo, nei paesi del Sud del mondo. Un'azione mastodontica, che la Fondazione Rockefeller ha condotto inizialmente con la Fondazione Ford e oggi con la Fondazione Bill & Melinda Gates. La collaborazione tra fondazioni su queste filiere di egemonia è uno dei tratti più evidenti della storia della filantropia moderna. | << | < | > | >> |Pagina 127Hanno capitali flessibili. Hanno entrature dirette al mondo delle imprese, da cui provengono. Sanno mobilitare le forze di mercato. Sanno tesserne di nuove, coinvolgendo il corporate profit nella gestione aziendale dello sviluppo globale. Grazie alla mediazione della filantropia è possibile per le multinazionali creare «un mercato secondario dei comportamenti etici delle imprese» saldamente ancorato ai valori ideologici ed economici del capitalismo deregolato, ai modelli culturali della privatizzazione e della finanziarizzazione.[...] Come i re taumaturghi, i filantropi di ultima generazione sono riusciti a validare un'immagine di sé quasi miracolistica. Un mito di massa, la loro superiore capacità di guarigione dovuta alla natura stessa dell'opulenza accumulata, che starebbe a dimostrare l'indiscussa destrezza nel puntare ai risultati e conseguirli. Altro che burocrazia e lenti processi di consultazione. Come nel caso dei sovrani del Medioevo raccontati da Bloch, la rappresentazione collettiva del successo dei filantropi globali attribuisce a questo fenomeno piena dignità storica. I paperoni benefattori del nostro tempo leniscono i dolori muscolari del mondo contemporaneo, afflitto dalla disuguaglianza e dalla scarsa competenza di mercato. Restituiscono la salute a comunità senza risorse e senza nome. La virtù medicante del loro ottimismo sembra il rimedio più efficace per guarire la malattia della povertà. Non scalfisce gli ingranaggi che la provocano e pertanto interviene solo su alcuni sintomi, distraendo efficacemente l'attenzione da aspirazioni troppo velleitarie di trasformazione della realtà. Il potere di guarigione, si sa, ha un significato politico che non si discute. | << | < | > | >> |Pagina 130Con Bill Gates entriamo in un capitolo a parte del filantrocapitalismo. Che la posizione di Gates nel panorama della filantropia moderna sia del tutto eccezionale rispetto agli altri player è un dato assolutamente condiviso da chi conduce la ricerca in questo campo. Lo esprimono del resto i valori finanziari della sua azione filantropica. Lo dice la tentacolarità di penetrazione che l'ex monopolista di Microsoft è riuscito a orchestrare negli ultimi due decenni attraverso l'aggancio con altri attori della filantropia globale, in tutti gli ambiti della vita umana. Lo racconta la capacità di influenza che alcune delle iniziative da lui volute e create, specialmente nel campo della salute e dell'agricoltura, esercitano su scala mondiale, una leva politica decisamente superiore a quella di molti governi. Una egemonia che trova i suoi oppositori. Con l'arrivo del covid-19 si sono affermate sui social media, anche in Italia, diverse teorie a proposito di Bill Gates, il miliardario più odiato dai cospirazionisti. Secondo alcuni tormentoni, egli sarebbe il principale artefice della pandemia, scatenata per ridurre la popolazione mondiale. Altre teorie del complotto sostengono che Gates intenda usare la campagna di vaccinazione per impiantare microchip in miliardi di persone e seguirne i movimenti. La visibilità del più affermato filantropo globale sulla vicenda del nuovo coronavirus è fuori discussione. Gates è stato uno dei primi a preconizzare, nel 2015, la minaccia di un nuovo virus che avrebbe messo sotto scacco il pianeta - il primo era stato David Quammen con il suo Spillover nel 2012. È Gates, in termini assoluti, uno dei principali investitori nelle aziende biotech che ospitano la ricerca per il vaccino contro il covid-19; per sostenere la ricerca e sviluppo di nuovi rimedi contro il nuovo coronavirus ha donato 530 milioni all'Oms. Fa capo a lui la Global Alliance for Vaccine Immunisation (Gavi), la più importante iniziativa pubblico-privata globale per la produzione di vaccini nel mondo, e fa capo alla sua fondazione anche la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations. (Cepi), nata nel 2017, dopo l'epidemia di ebola, per accelerare la scoperta di vaccini in caso di epidemie. Nel caso di Bill Gates, possiamo comodamente parlare di un modello di turbo-filantrocapitalismo senza argini apparenti, a cui il covid-19 ha impresso un'ulteriore spinta. | << | < | > | >> |Pagina 135La fondazione riceve iniezioni di denaro da giganteschi profitti capitalizzati nel tempo. Bill Gates ha accumulato ricchezze mastodontiche come fondatore di Microsoft, nel cui consiglio di amministrazione è stato attivo fino alla metà di marzo 2020, quando è stato dato l'annuncio del suo ritiro da Microsoft per dedicarsi completamente alla filantropia, in pieno covid-19. Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l'equivalente della metà dell'incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi di dollari annui sui beni venduti in America. Il danno erariale di Microsoft alla fiscalità generale in quegli anni è stato superiore a quanto la Fondazione Gates ha investito ogni anno in azioni di filantropia, peraltro con notevoli agevolazioni o esenzioni fiscali. È importante rammentare questa circostanza: la Fondazione Bill & Melinda Gates riceve - come tutte le fondazioni - consistenti fondi pubblici per le sue attività private, senza peraltro che il pubblico che li cofinanzia abbia la minima voce in capitolo su scelte e priorità di intervento.[...] La Fondazione Gates opera attraverso quattro programmi: 1) sviluppo globale; 2) salute globale; 3) politica e advocacy globale; 4) programma negli Stati Uniti. Non esiste ormai ambito dello sviluppo in cui non agisca con un ruolo da superpotenza, senza il cui sostegno è impensabile agire, nulla si muove. Questa soggezione non vale più solo per la costellazione di organizzazioni che da essa dipendono per i fondi, ma per un numero crescente di governi, non solo tra i paesi a medio e basso reddito. Da 25 anni, la Fondazione Gates occupa una posizione di incontrastata egemonia, con 1541 dipendenti (nel 2017) tra la sede principale di Seattle e i sette uffici sparsi nel mondo (Washington, Londra, New Delhi, Pechino, Addis Abeba, Johannesburg e Abuja), e una dotazione di 50,7 miliardi di dollari (al 31 dicembre 2017). Il patrimonio include le donazioni di Bill Gates, circa 35,8 miliardi di dollari in azioni Microsoft (al dicembre 2019), e la megadonazione di 30,7 miliardi di dollari che fu annunciata alla fine di giugno del 2006 da Warren Buffett, proprietario della holding Berkshire Hathaway. L'83% del patrimonio del secondo uomo più ricco del mondo (Buffett) fu destinato alle attività benefiche del primo miliardario del pianeta (Gates). Si trattò della più straordinaria donazione individuale della storia, ricordano Bill e Melinda Gates. Ma fu soprattutto il miglior investimento che Warren Buffett potesse fare, per mettere al riparo i guadagni accumulati con le bolle speculative che sarebbero esplose di lì a poco. Una mossa geniale che incorporerà la holding Berkshire Hathaway di sua proprietà nell'apparato di investimenti della Fondazione. Si trattò evidentemente di un passaggio storico per Seattle, con l'entrata di Buffett negli assetti della Fondazione e la successiva decisione di Bill Gates di lasciare Microsoft per dedicarsi alla filantropia a tempo pieno. La Fondazione si struttura da allora in due entità separate: la Bill & Melinda Gates Foundation vera e propria, che seleziona priorità strategiche, progetti da finanziare ed eroga fondi; e la Bill & Melinda Gates Foundation Trust, il fondo fiduciario gestito da Buffett, incaricato di occuparsi degli asset patrimoniali della Fondazione, curando gli investimenti per finanziarne la capacità di elargizione. E qui viene il bello. I dati della US Government's Securities ands Exchange Commission illustrano come il patrimonio del Bill & Melinda Foundation Trust sia investito in settori industriali alimentari e di prodotti al consumo nocivi per la salute, tali da contribuire alla crisi delle malattie croniche (cancro, diabete, malattie cardiache, ecc.). Dalle visure emerge che gli investimenti diretti del Gates Foundation Trust includono: • 466 milioni di dollari negli stabilimenti Coca-Cola che operano nel sud degli Usa; • 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, di farmaceutici e di alcolici negli Usa; • 280 milioni di dollari nella Walgreen-Boots Alliance, una grande multinazionale per la vendita di farmaci al dettaglio; • 650 milioni di dollari in due giganti della produzione di schermi televisivi, GroupTelevisa ($433 ml) e Liberty Global PLC ($221 ml). Inoltre, tramite Warren Buffett, un quarto del patrimonio della Fondazione si trova investito nella Berkshire Hathaway Inc., la holding di Buffett che detiene azioni per 17 miliardi di dollari nella Coca-Cola Compamy negli Stati Uniti, e 29 miliardi di dollari in fondi investiti in Kraft Heinz Inc., una delle prime dieci aziende nel comparto alimentare. Come rilevato in una lettera della società civile all'Oms, preoccupata per le liaisons dangereuses dell'agenzia con il filantropo di Seattle, la Fondazione Bill & Melinda Gates è beneficiaria delle vendite di prodotti che sono soggetti agli standard e alle regolamentazioni dell'Oms nonché alle politiche dei governi su nutrizione, farmaci e salute. Strane coincidenze e contraddizioni, in questa trama di conflitti di interesse che non sembrano interessare a nessuno! Bill Gates, Melinda Gates e Warren Buffett formano l'inespugnabile trinità che dal 2006 governa la Fondazione. I possessori della ricchezza sono i veri soggetti dominanti. Esercita l'egemonia un ceto che si è liberato di ogni contrappeso. | << | < | > | >> |Pagina 150I vaccini, panacea della salute mondiale?Al World Economic Forum del gennaio 2010, Bill e Melinda annunciano il Decennio dei Vaccini e s'impegnano a destinare 10 miliardi in dieci anni alla ricerca e all'introduzione di nuovi prodotti. L'iniezione di fondi galvanizza i governi, solletica le istituzioni internazionali, che incrementano i fondi per sostenere i vaccini finanziando così in prevalenza strutture e centri di ricerca nel Nord del mondo. La Germania incrementa il sostegno a Gavi da 5,1 milioni di dollari nel 2010 a 26,7 milioni nel 2011, ciò che innesca il rilancio di nuovi fondi dei Gates (24 milioni di dollari), in una corsa virtuosa che approda al G8 con la famosa Iniziativa Muskoka per la salute materno-infantile del giugno 2010, grazie a cui Gavi quasi raddoppia in un anno le proprie entrate (da 641,8 milioni di dollari nel 2010 a 1046,6 milioni di dollari nel 2011). La Fondazione Gates diventa membro di Health 8 (H8), l'incontro informale sulla salute connesso al G8 con lo scopo di seguire l'attuazione degli Obiettivi sanitari dello sviluppo del Millennio (Mdg). Ovviamente, tutto questo brulicare di fondi e di iniziative non può non investire l'Oms. L'agenzia proclama la collaborazione con la Fondazione Gates e Unicef per il Decennio dei Vaccini; con la Fondazione Gates disegna un Piano di Azione Globale (2010) per stimolare la comunità internazionale sui vaccini, approvato dall'assemblea mondiale dei 194 stati dell'Oms nel maggio 2012. In un batter d'ali, la strategia di erogazione di fondi, la selezione degli ambiti di ricerca, la creazione l'una dopo l'altra di nuove strutture ai cui vertici sono insediate persone della Fondazione o scelte dalla Fondazione ridisegnano completamente lo scenario multilaterale della salute e i meccanismi decisionali che contribuiscono a determinarlo. I vaccini sono la chiave di volta, l'«elegante innovazione» sognata a Microsoft, l'intervento «catalitico» che può stimolare il progresso della salute globale come quello di un'impresa, secondo i filantropi di Seattle. Nel dicembre 2014, Bill Gates spiega «il Miracolo dei Vaccini» nel suo blog personale con queste parole: I vaccini salvano vite, e questa è una ragione sufficiente per assicurarsi che arrivino dove servono. Ma non è questo il solo beneficio. I bambini in salute trascorrono più tempo a scuola, apprendono meglio. Quando migliora la salute, i paesi poveri possono investire di più sull'educazione, sui trasporti, possono fare altri investimenti che incrementano la crescita, cosa che li rende meno dipendenti dagli aiuti esterni. I vaccini fanno tutto questo, per un pugno di spiccioli a bambino, in alcuni casi. Ecco perché dico che se si vogliono salvare vite e migliorare la vita nel mondo, i vaccini sono un investimento fantastico. Dove sta il problema? I vaccini sono potenti strumenti di salute pubblica, e il ragionamento non fa una piega, direte voi. Non ci sono dubbi in merito. E allora? Allora, gli scenari sono più complessi. La salute di una società è un ambito squisitamente politico che richiede interventi economici e sociali di equità, come il covid-19 ha dimostrato, ed è mistificatorio pensare che uno strumento tecnico, per quanto importante, possa fornire la soluzione. Il ribaltamento di prospettiva che Gates impone con l'egemonia di cui gode la sua narrazione è piuttosto fuorviante. Certo, il boom dei vaccini stimolato dai Gates ha incrementato il numero dei bambini immunizzati e ha dinamizzato il fiacco mercato globale dei vaccini, trasformandolo. Come ci ricorda Medici senza frontiere (Msf), però, nel 2014 la copertura vaccinale pediatrica completa costava 68 volte di più rispetto al 2001 e il prezzo dei nuovi vaccini, pur sviluppati con i fondi pubblici della cooperazione, rappresenta un'oggettiva barriera all'accesso. Un caso per tutti: per la ricerca e sviluppo del vaccino ad ampio spettro contro la polmonite (Pneumococcal conjugate vaccine, Pcv), Pfizer e Gsk hanno ricevuto un incentivo di 1,2 miliardi di dollari e guadagnato circa 50 miliardi di dollari in dieci anni dalle vendite stimolate tramite Gav, e i governi che ne hanno fatto richiesta. Eppure, ciò non ha impedito a Pfizer di impuntarsi con contenziosi per ottenere l'esclusiva brevettuale del vaccino in India e Corea del Sud. Inoltre il costo di questo essenziale dispositivo pediatrico, negoziato con tenacia da Msf per uso umanitario, è rimasto un ostacolo per diversi paesi del Sud globale fino a quando il duopolio delle multinazionali non è stato scardinato dalla decisione dell'Oms di validare la nuova produzione di Pcv dell'indiano Serum Institute, a un prezzo decisamente inferiore, alla fine del 2019. Altra questione: i vaccini da soli non vanno lontano, se non c'è un sistema sanitario che ne possa garantire la somministrazione diffusa, soprattutto nelle zone più periferiche. Questo resta un tasto dolente per Bill Gates. L'impegno per i sistemi sanitari non lo ha mai appassionato - anche se gli va riconosciuto qualche recente progresso in merito -, i fattori ambientali e sociali della salute non sono nel suo spettro di attenzione. Voglio dire che un vaccino contro il rotavirus per prevenire la diarrea infantile può essere elegante, ma non rimpiazza gli interventi necessari a drenare le cause della diarrea - un sistema fognario, la disponibilità di acqua pulita, un'abitazione e una nutrizione adeguate. Niente da fare: il punto di caduta per Gates è che gli investimenti devono essere orientati ad approcci immediati, quantificabili e incentivanti nell'ottica del ritorno economico, e questo con i vaccini si può fare: per ogni dollaro investito in vaccinazioni è stato calcolato un ritorno di almeno 16 di beneficio socio-economico netto. | << | < | > | >> |Pagina 200Bill Gates: il kingmaker della lotta al covid-19Da quando il covid-19 è piombato sulle nostre vite, abbiamo usato a piene mani la metafora della guerra come riferimento simbolico per tentare di spiegare la sfida senza precedenti cui siamo sottoposti nel gestire l'emergenza del virus che ha sconquassato il mondo. Abbiamo ricevuto e riceviamo ancora, da diverse parti del mondo, bollettini quotidiani che riportano la conta dei morti, come soldati persi in battaglia. Siamo stati serrati dentro le nostre case per evitare gli attacchi del nemico invisibile. Le corsie degli ospedali sono state rappresentate come trincee, fronti di guerra popolati di guerrieri o di eroi che l'hanno spuntata contro il virus. Già ai tempi della pandemia provocata dal virus Hiv/aids Susan Sontag era entrata nelle pieghe dei meccanismi che inducono alla metafora della guerra, per spiegare le dinamiche di una crisi sanitaria: «La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo». In una guerra, si sa, c'è chi vince e c'è chi perde. La lista dei contagiati continua a crescere (circa 56 milioni di casi totali nel mondo a fine novembre 2020, con picchi giornalieri di oltre 660.000 nuovi casi) e il numero dei decessi è, alla stessa data, di 1,5 milioni. Il covid-19 ha accentuato, come mai prima, la connessione tra le vulnerabilità ecologiche, epidemiologiche ed economiche imposte dalla globalizzazione senza regole. Ha accentuato le disuguaglianze che separano tra loro regioni del mondo, ma soprattutto le dirompenti disparità tra gruppi sociali all'interno dei singoli paesi. Persino le misure di confinamento per il controllo del contagio hanno rivelato la loro impraticabilità, per miliardi di persone che vivono di ciò che racimolano giorno per giorno, e le profonde crepe di un sistema in crisi su scala planetaria. Nel capitalismo della catastrofe che vediamo affermarsi a causa del covid-19, tuttavia, un vincitore c'è, indiscusso, e si chiama Bill Gates. Nel 2015, Gates aveva intuito che un virus sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iperglobalizzato. Un patogeno respiratorio simile al virus della spagnola, l'epidemia influenzale a forte infettività che nel 1918 non guardò in faccia a nessuno, e produsse un impatto enorme mentre nel mondo divampava ancora la Prima guerra mondiale. Era solo una questione di tempo, gli scenari che aveva commissionato gli restituivano la prospettiva di un contagio che avrebbe colpito i centri urbani in tutto il pianeta. Gates lo vide arrivare: nel giro di mesi, milioni di persone avrebbero perso la vita. Raccontò la sua profezia in una Ted Talk divenuta ormai famosa, rilasciò interviste e scrisse articoli sulla stampa scientifica. Formulò proposte e soprattutto cominciò a investire milioni nella ricerca per i vaccini. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato. L'unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle che ora domina la scena, e la scienza, nelle scelte strategiche per l'identificazione dei rimedi al male che aveva annunciato. [...] Il momento giusto arriva di lì a poco. Poiché tira davvero una brutta aria nella gestione della crisi da parte dei governi anche in Europa. Bill Gates, globalista per deformazione professionale oltre che per vocazione filantropica, tira i fili dalla sua posizione per intrecciare gli elementi di una battaglia comune contro il covid-19. C'è da prendere elegantemente le distanze dall'inconcludente e pericoloso nazionalismo sanitario dell'Amministrazione americana, isolandolo, e poi c'è da rimettere al centro la possibilità di un'azione internazionale concordata per salvare la funzione dell'Oms, sotto attacco. Soprattutto, c'è da garantirsi l'imprimatur globale definitivo nella decisiva battaglia contro il covid-19. Il lancio alla fine di aprile, in pieno lockdown, di «Access to Covidl9 Tools (Act) Accelerator» - sotto l'egida dell'Oms, della Fondazione Gates, della Commissione europea e del presidente francese Emmanuel Macron - si conforma a questa esigenza. Che è geopolitica, nel senso che risponde soprattutto alla geopolitica di Seattle. Mentre l'evoluzione virale del covid-19 infuria, Act Accelerator emerge, nel giro di pochi mesi, come la prima manifestazione politica di un impegno della comunità internazionale per velocizzare lo sviluppo, produzione e accesso equo ai nuovi diagnostici, vaccini e rimedi di cura contro il nuovo coronavirus. L'idea è di intervenire «in tempi record, sia di scala come di accesso, per salvare milioni di vite e migliaia di miliardi di dollari, e restituire il mondo a un senso di normalità». [...] L'Oms di fatto scompare operativamente, salvo apporre il logo legittimante all'operazione. Altro dettaglio non secondario, la Fondazione Bill & Melinda Gates è di nuovo la prima finanziatrice dell'Oms da quando Donald Trump ha deciso non solo di sospenderne (a metà aprile 2020) il finanziamento, ma anche di abbandonare (a metà maggio dello stesso anno) l'organizzazione della salute che gli Stati Uniti contribuirono a far nascere, 72 anni fa. Il resto della storia, in costante evoluzione mentre scriviamo, riguarda l'esasperata identificazione di rimedi terapeutici contro il covid-19, e la febbrile ricerca del vaccino contro Sars-CoV-2, in un costante braccio di ferro con un attore potente e senza scrupoli, l'industria farmaceutica. Il covid-19 ha sfiancato quasi tutti i settori dell'economia, ma le aziende farmaceutiche sono in totale fibrillazione e potrebbero trarre lauti benefici dalla pandemia, visto che puntano al covid-19 come all'opportunità di business che capita una volta nella vita, come ha commentato Gerald Posner, autore di Pharma: Greed, Lies and the Poisoning of America. In tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma, erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico. Il resto della storia è una vecchia sceneggiatura che rimanda alla questione dirimente per il futuro, oltre il covid-19: se i prodotti che scaturiranno dalla frenetica corsa al vaccino saranno blindati dalle logiche proprietarie del monopolio brevettuale, o se saranno trattati come beni comuni accessibili a tutti, considerata la finalità per cui impazza oggi la ricerca e considerato il sostanzioso finanziamento pubblico cui i leader del mondo guidati dall'Unione europea si sono impegnati finora (8 miliardi di dollari). L'Europa sa bene quanto possano agire da barriera i brevetti. In un suo rapporto del 2009, la Commissione europea aveva calcolato che l'80% delle 40.000 richieste di brevetti prese in esame riguardava la loro estensione su prodotti già in commercio, per usi secondari o per forme diverse dello stesso prodotto (per esempio, nel caso di un farmaco, la versione in sciroppo di una precedente pastiglia), con una perdita di circa 3 miliardi di curo l'anno solo nel settore farmaceutico, dovuta alla ritardata disponibilità sul mercato dei più economici farmaci equivalenti. Al netto della retorica sui vaccini bene comune (The People's Vaccine), questa sarà la grande partita. Da un lato l'Oms, su proposta della Costa Rica e con l'adesione di 35 governi (tra cui Belgio, Norvegia e Olanda), ha annunciato il 29 maggio 2020 la creazione di un archivio globale volontario (patent pool) per l'accesso d'emergenza alle tecnologie, così da velocizzare la scoperta dei rimedi per contrastare il covid-19. Dall'altro, il Ceo di Pzifer, parlando a nome delle case farmaceutiche, bolla l'iniziativa come un'alzata di ingegno «senza senso e pericolosa». I governi donatori sembrano far finta di nulla. Richard Wilder, direttore della partnership Cepi per i vaccini pandemici, affossa la proposta come «inefficace e non necessaria». Eppure, nella sua posizione, dovrebbe essere il primo a sostenere l'idea che l'intelligenza collettiva può accelerare la scoperta del miglior vaccino per il Sars-CoV-2. Sarà un caso che, prima di occuparsi di vaccini, Wilder era a capo dell'ufficio sulla proprietà intellettuale a Microsoft? La fortuna di Bill Gates poggia sui brevetti. Incapaci di ritrovare le capacità di giudizio e di rigenerare la creatività, le masse impoverite delle società di mercato, ulteriormente sfiancate dalla pandemia del nuovo coronavirus nel Nord e nel Sud del mondo, si scoprono indifese in un mondo senza punti di riferimento, un mondo in cui sono state lentamente sfibrate di tutte quelle forze vitali, individuali e sociali, che contribuivano al loro benessere, o almeno a una vita degna. Appare semplicemente pauroso pensare che sia la classe di Davos, i paperoni dell'1% che hanno inventato il nuovo mito della filantropia, a dominare la scena. E che siano loro a toglierci le castagne dal fuoco di questa crisi, preparando la posizione di potere per le crisi già annunciate per il futuro. Il potere plutocratico della Silicon Valley si organizza. E questa è una serissima minaccia per la democrazia. | << | < | > | >> |Pagina 275Il raggiungimento della perfetta giustizia, della perfetta libertà e della perfetta uguaglianza è il semplicissimo segreto che garantisce con massima sicurezza il più alto livello di prosperità a tutte e tre le classi. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni O uomo colmo di tutto, tu non sai pensare. Salmo 49,21 E - vi preghiamo - quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto «è naturale» in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come immutabile. Bertolt Brecht, L'eccezione e la regola Adam Smith è generalmente ricordato come il santo patrono del libero commercio, il profeta indiscusso del profitto. La sua metafora della «mano invisibile» è stata rilanciata da schiere di economisti e generazioni di politici per suffragare la nozione che il capitalismo funziona, pur con i suoi eccessi e la produzione di disuguaglianze. La storia, però, dell'identificazione di Smith con la dottrina del liberalismo economico più spinto è una sorta di commedia degli equivoci. Smith fu un liberale in quanto sostenitore di tutte le battaglie a favore della libertà sia nel senso di difesa dei diritti degli individui sia nel senso di libertà politica, dell'eguaglianza, della giustizia, ma non in quanto fautore del laissez-faire che si affermò nella Gran Bretagna dell'Ottocento. Era un feroce avversario dei ceti dominanti del suo tempo (in primo luogo i mercanti) e di ogni argomento a favore della non ingerenza della collettività nei loro affari. Sognava una società giusta e condannava la ricchezza concentrata in poche mani gelose di preservare i propri privilegi, a discapito dell'interesse pubblico. Sosteneva che la prosperità è sapiente mescolanza di perfetta giustizia, libertà e uguaglianza. Altro che parole d'ordine mercantiliste! Che direbbe dell'esercito di lobbisti scatenato nei primi mesi del 2019 da quattro delle maggiori tech companies per evitare la possibilità di azioni antitrust o di nuove norme del Congresso americano volte a contenerne lo sconfinato potere? O della dura requisitoria del luglio 2020 del garante europeo per la protezione dei dati (Edps), il quale ha spiegato come il colosso Microsoft abbia acquisito tutti i dati personali, legali, finanziari, politici e commerciali dei 46.000 funzionari delle istituzioni europee, dalla Commissione alla Banca centrale europea, in base ai termini di un'intesa scaduta nel 2018 che lascia al gruppo fondato da Bill Gates ampia discrezionalità di trattarli ed esportarli, anche in aperta violazione delle leggi europee sulla privacy? Ve lo avevo detto, direbbe Adam Smith. Oggi che viviamo in un tempo di concentrazione di potere economico, finanziario, legale e tecnologico mai visto prima nella storia, un feudalesimo globale che fa impallidire le circoscritte gerarchie del Medioevo, avremmo bisogno di un Adam Smith, quello che detestava l'esagerato potere dei ricchi sull'azione della politica, smascherava la consuetudine degli imprenditori a evitare le tasse, denunciava i cedimenti dei governi alle pressioni dei ricchi. La disuguaglianza è una gabbia in grado di bloccare ogni progresso, scriveva Smith, ma neppure dopo il covid-19 la politica nazionale e internazionale sembra disposta a spezzare le «catene invisibili» - no, non c'era solo la mano! - per riequilibrare gli assetti del mondo globalizzato così disfunzionale, così duramente ferito dal nuovo coronavirus. Anzi, con il covid-19 il vecchio fondamentalismo mercatista, quello per intendersi che ha accelerato l'iperglobalizzazione e le sue esternalità di segno negativo, non sembra darsi per vinto. Al contrario, si sta riorganizzando nella più moderna versione del Davos Consensus per rassicurare che «il libero commercio è importante e non scomparirà». Gli effetti del virus sono devastanti e multi-pandemici - accanto alla pandemia sanitaria, ci sono quelle economica e sociale. Il virus della fame, scrive Oxfam in un rapporto dedicato a questo tema, potrebbe far morire di denutrizione correlata al covid 12.000 persone al giorno, più di quante ne ucciderebbe lo stesso coronavirus. Ma questo shock mondiale, come altri in passato, non fa altro che rilanciare il falso mito del trionfo pacifico dell'economia di mercato e il sogno di plasmare il mondo. Nel bel mezzo della crisi mondiale, il World Economic Forum, cioè l'organizzazione che promuove il ruolo del settore privato e sembra aver soppiantato le Nazioni Unite nella gestione delle sfide globali, va oltre lo spirito prometeico della Global Redesign Initiative lanciata dieci anni fa e, con potenza quasi sovrannaturale, prepara The Great Reset Initiative, il grande ri- inizio del mondo già ri- disegnato per aiutare a indirizzare tutti coloro che determinano il futuro delle relazioni globali, la direzione delle economie nazionali, le priorità della società, la natura dei modelli di business e la gestione dei beni comuni globali. Mutuando dalla visione e vasta competenza dei leader impegnati nelle varie comunità del Forum, la Great Reset Initiative abbraccia un ventaglio di dimensioni per costruire un nuovo contratto sociale che onori la dignità di ogni essere umano. Il paradigma Davos dichiara di voler mettere le persone al centro, cosa buona e giusta. Il problema è che il paradigma di Davos tendenzialmente mette una certa tipologia di persone al centro. E ora che il World Economic Forum è formalmente accasato dal giugno 2019 in un'alleanza strutturale con le Nazioni Unite - ciò che di fatto trasforma anche l'Onu in una megapartnership pubblico-privata -, i miliardari filantropi sono meravigliosamente piazzati per occupare la posizione centrale nel resettaggio planetario. Il coinvolgimento delle grandi multinazionali del settore privato è il prerequisito della loro cooperazione con i singoli governi e le istituzioni multilaterali. Fra l'altro sono loro gli unici in questo momento di anemia economica a battere il tempo combinando disponibilità finanziaria e agilità decisionale, poiché si autodeterminano. Così la narrazione funzionale della filantropia al servizio del salvataggio del mondo continua a servire come cortina fumogena per distogliere l'attenzione dalle molteplici disfunzioni che hanno generato la pandemia e dalle cause di una diseguaglianza senza precedenti. Infatti, mentre aleggia un'immensa difficoltà a immaginare il futuro, mentre il virus «ha interrotto una crescita divenuta nel frattempo un'escrescenza incontrollabile, senza misura e senza fini», mentre il mondo scende in piazza per smascherare la violenza razzista delle istituzioni e discetta in vivaci webinar globali sulla natura colonialista del capitalismo, sull'urgenza di rileggere la storia e sull'importanza di reclamare nuove forme di democrazia, mentre succede tutto questo, l'élite corporate- filantropica, nel suo mondo parallelo sembra vivere con il covid-19 quello che potremmo definire il tempo della Grande Abbuffata. Il Programma sulle Disuguaglianze e il Bene Comune dell'Institute of Policy Studies ha rilevato che in 13 settimane di pandemia, dal 18 marzo al 17 giugno, i miliardari americani hanno visto le loro ricchezze montare come la panna: 584 miliardi di dollari (+20%). Nella vita reale del 99%, in quelle stesse settimane, 45,5 milioni di persone perdevano il posto di lavoro a causa del virus. La convulsione planetaria prodotta dal covid-19 ha interrotto l'ingranaggio della globalizzazione, ciò che ha permesso ai colossi delle piattaforme digitali non solo di guadagnare montagne di soldi, ma soprattutto di accelerare la ristrutturazione economica e sociale globale attraverso lo sganciamento delle risorse umane e materiali dai processi di produzione, grazie alla colonizzazione digitale. La corsa per la leadership digitale - con il Far West dell'intelligenza artificiale, le reti 5G, i Big Data - era già in atto molto prima che il germe catastrofico arrestasse il meccanismo usurato della globalizzazione, ma di certo le nuove dinamiche sociali pandemiche hanno ampliato lo spazio di affermazione della visione della Silicon Valley nella duplice, interscambiabile versione imprenditoriale e caritatevole, che è il piatto forte della filosofia filantrocapitalista. L'intuizione vincente di questa strategia di conquista. Abbiamo accennato quali siano le implicazioni geopolitiche di questa delicatissima transizione nel caso del super-filantropo Bill Gates, interprete supremo dello spirito di Davos, sul terreno per nulla secondario della corsa ai rimedi contro Sars-CoV-2. Mi sembra evidente che abbiamo bisogno di immunizzarci dal virus di un potere così pervasivo, extraterritoriale, senza profondità, ignaro della terra che lo circonda. Non possiamo continuare a percorrere, come se nulla fosse successo, «la maligna velocità del capitalismo che non sa, non può andare oltre, e avvolge nella sua spirale devastante, nel suo vortice compulsivo e asfittico» le sorti del pianeta e dei suoi abitanti. Sì, ma è ancora possibile? | << | < | > | >> |Pagina 280Oltre i filantroprofitti, per una vera filantropiaProviamo a prendere la questione da un'altra prospettiva, che è sempre stata presente e molto rilevante, salvo che è tornata alla ribalta dopo l'uccisione di George Floyd a Minneapolis, quando la reazione alla violenza della polizia è montata in un'onda di proteste che ha invaso l'America, a partire dal movimento Black Lives Matter. Un flusso di indignazione che, anche oltreoceano, nell'abbattimento di qualche statua ha forzato un indigesto ripensamento degli assunti storici e dei codici simbolici dati per acquisiti in Occidente. Partiamo da un numero: 97 trilioni di dollari, ovvero 97.000 miliardi. Secondo una stima molto prudente pubblicata dal Guardian, questa cifra equivarrebbe a tutto il lavoro mai retribuito degli africani nelle colonie dell'America del Nord fra il 1619 e il 1865. Una somma superiore a tutto il Pil mondiale odierno, che non include le estrazioni dai paesi africani dopo il 1865, e neppure il valore delle risorse non umane. Si riferisce solo al lavoro umano dei neri che, per un periodo di 240 anni, è stato a dir poco fondamentale a costruire e sedimentare la ricchezza in Europa e in America. Quella ricchezza che oggi rende possibile la filantropia privata; non è stata l'Europa infatti a sviluppare le colonie, quanto piuttosto le colonie a sviluppare l'Europa. Per raggiungere questa inarrivabile montagna di denaro, è stato calcolato, ci vorrebbero 1500 anni di filantropia e 485 anni di aiuto allo sviluppo. Insomma, stiamo parlando di un trasferimento di risorse che, anche solo calcolato secondo questo parametro, ha generato un divario insormontabile, un costo di disumanizzazione che racconta solo l'impossibilità di una restituzione. Possiamo solo riconoscere quanto siamo in debito. Se il club della filantropia globale credesse davvero alla necessità di una svolta, come scriveva un anno fa Rhodri Davies preoccupato per le severe critiche all'élite di Davos, se fosse sincero su temi scabrosi come l'origine dei patrimoni, il cambiamento strutturale, la diversità, l'urgenza di essere più trasparente e democratico, potrebbe provare a fare i conti con questa incombente realtà del passato, che lo coinvolge e riguarda, e a correggerne gli errori. Magari riconoscendo di essere in debito, magari denominando la natura profondamente colonialista delle dinamiche che gli permettono di continuare ad accumulare ricchezze alle spalle degli oppressi, su scala globale. Potrebbe segnare un primo passo e inaugurare una nuova relazione con i popoli del Sud del mondo, così da aprire all'Occidente uno spiraglio di dignità. Equipaggiato com'è nella pratica di costruzione del consenso, con l'antica e sempre nuova «missione civilizzatrice» dello sviluppo eretto a norma indiscutibile del progresso, il filantrocapitalismo dissemina invece i suoi miti e le sue teleologie sociali su scala planetaria e impone una narrazione di rispettabilità internazionale e di impegno sociale che non lascia scampo. Al di là degli aspetti economici, la lotta contro la povertà contiene una incoercibile dimensione ideologica, inscritta com'è nei canoni dell'economicismo liberista; mette in condizione di designare l'altro, di attribuirgli una identità. E poi «la mano che riceve l'aiuto è sempre al di sotto di quella che lo offre», ricorda l'economista francese Serge Latouche. È una tragedia che i governi permettano tutto questo senza batter ciglio. Ma gli emarginati della Terra non vogliono carità, vogliono giustizia. Arundhati Roy non fa altro che raccontarci le straordinarie battaglie vinte dalle comunità locali della sua India, che hanno tramutato la paura in potere di mobilitazione. La potenza dei poveri, le azioni quotidiane di milioni di persone che pensano altro, agiscono diversamente e resistono alle ideologie imposte da fuori e dall'alto, si dispiegano un po' ovunque nelle profondità della società contemporanea, nelle opere e i giorni di un desiderio collettivo di vivere in una società felice, in armonia con la natura. Dobbiamo apprendere da queste comunità e dalla loro naturale coscienza ecologica, se vogliamo salvare la pelle su questo pianeta, se vogliamo modificare le cose nel senso della «emancipazione umana», per usare le parole di Achille Mbembe. Da questo punto di vista, il covid-19, per quanto mortifero possa essere, contiene in sé anche vitali aperture di riscatto, la complicata possibilità di cambiare rotta. Possiamo sperarlo? Sappiamo che serve una robusta azione di riparazione. Una riparazione soprattutto politica, oltre che finanziaria e sociale. Di riorganizzazione del potere, a partire dall'azione multilaterale. Il paradosso della globalizzazione che ha determinato la gigantesca apartheid mondiale sta nel «vuoto del diritto pubblico riempito, inevitabilmente, da un pieno di diritto privato [...] di produzione contrattuale che si sostituisce alle forme tradizionali della legge e che riflette la legge del più forte», spiega Luigi Ferrajoli. Solo «un grande progetto per l'uguaglianza delle frontiere planetarie, aperte a una globalizzazione riempita di diritto pubblico e che includono l'intera umanità» ci permetterebbe di reclamare una rotta sostenibile di gestione del mondo, che non può essere lasciato nelle mani del mercato e dei suoi insaziabili sacerdoti. Ripristinare la fede nel potere dei governi richiede il superamento della frantumazione negli assetti della governance globale, e la ricostruzione di una chiara filiera della responsabilità. Peraltro, mai come in questo momento il mondo ha bisogno di un affidabile assetto multilaterale per governare le sfide del pianeta - salute, cibo, clima, migrazioni, finanza, lavoro, energia -, tutte interconnesse fra loro, come gli umani. Ce lo ha insegnato senza sconti il nuovo coronavirus.
Da dove partire, allora, per decolonizzare l'economia e
togliere terreno all'egemonia del filantropismo?
1. È urgente intervenire sul controllo del movimento dei capitali che circolano liberamente nelle mani speculative dell'industria finanziaria, fuori dallo spazio e dal tempo. Sono un motore strutturale delle disuguaglianze; il controllo del movimento dei capitali libererebbe ogni anno, secondo Unctad, 680 miliardi di dollari, e agirebbe da leva di rafforzamento del diritto pubblico, su scala globale. I movimenti di capitali sono alla base delle dinamiche di accumulazione indebita della ricchezza. 2. Le organizzazioni multilaterali devono pianificare con senso di urgenza un New Deal del debito estero dei paesi a basso e medio reddito, e creare le condizioni per una significativa cancellazione del debito di tali paesi, oggi sotto l'assedio del contagio da covid-19. In origine strumento per finanziare sul lungo termine il potenziale di sviluppo economico dei paesi a medio e basso reddito, il debito è diventato una delle forme più insoffribili di neocolonialismo, e un asset finanziario ad alto rischio (e alti margini di guadagno) per una tribù di speculatori di breve termine dell'industria finanziaria, che nessuno controlla. Da anni i governi dei paesi del Sud globale si trovano a combattere con un onere debitorio assolutamente fuori della loro portata. Solo tra il 2020 e il 2021 il pagamento del debito salirà in ragione di 2600-3400 miliardi di dollari. Questa situazione impedisce di pensare a una visione di futuro del paese, e nell'immediato di investire in spese sociali per rispondere alla pandemia che incalza. Siamo alla vigilia di una crisi del debito, lo sostiene anche la Banca mondiale: occorre il coraggio di nuovi approcci. 3. Urgenti misure pubbliche devono essere adottate per limitare quanto più possibile il sistema finanziario offshore, attraverso politiche concordate in ambito sia europeo sia internazionale. Come abbiamo visto, si tratta del vero buco nero della finanza globale. 4. È necessario che i governi cessino di farsi dettar legge dai poteri dell'economia e della finanza, anche ricorrendo all'adozione di rigorose politiche antitrust su scala nazionale e internazionale. 5. Servono politiche fiscali nazionali in grado di generare una sana ridistribuzione delle ricchezze e la produzione di beni comuni. Non è tollerabile che le tasse dei ricchi siano proporzionalmente inferiori a quelle degli altri ceti sociali. Occorre pensare a una sorta di «paperoniale», tanto per cominciare, per affrontare la crisi del coronavirus: non è possibile che siano i miliardari a chiederlo! Con una fiscalità generale irrobustita da un sistema di tassazione più equa si può aumentare l'investimento per le politiche sociali, e introdurre politiche di protezione sociale universale a tutela della sicurezza umana di tutti, soprattutto le fasce più svantaggiate della popolazione. 6. È indispensabile, e ancora più urgente alla luce del covid-19, regolamentare in maniera coerente l'interazione con il settore privato, ivi incluse le fondazioni filantropiche. Questo implica la determinazione ad adottare norme severe in materia di prevenzione e gestione del conflitto di interessi, il contrasto all'abuso di posizioni dominanti. Nel caso delle fondazioni filantropiche, occorre che siano stabilite condizioni molto rigorose per l'eventuale esenzione fiscale. Non si comprende per quale motivo il contributo pubblico debba sovvenzionare iniziative su cui non ha alcuna voce in capitolo, e che concorrono ad affermare il monopolio dei filantropi.
7. Infine, un grande progetto per l'uguaglianza richiede un intervento
urgente sulle regole del commercio sancite dall'Omc.
Basare la produzione della conoscenza sui
monopoli brevettuali genera asimmetrie insopportabili, e
la privatizzazione della conoscenza contribuisce sensibilmente alla
concentrazione delle ricchezze e alla colonizzazione dell'economia. Questo
sistema giuridico vincolante contraddice clamorosamente le attese della
sostenibilità, ed è strutturalmente disfunzionale a fronte della richiesta
crescente di produzione di beni comuni globali.
La disparità fra sommersi e salvati dal virus, che abbiamo visto in questi mesi e che continuiamo a vedere, non è mai stata così sfrontata, e sfida ogni idea di giustizia. Il covid-19 ha messo a nudo la nostra interconnessione, la nostra vulnerabilità, ma ancor di più la spietatezza del capitalismo, di cui si nutre invece il filantrocapitalismo. Tutto questo non può, realisticamente, durare. Non solo perché è impossibile salvarsi se non pensando a un nuovo modo di vivere insieme su questo pianeta. Ma anche perché la pressione degli esclusi, che non hanno più nulla da perdere, a un certo punto si farà sentire con una potenza fragorosa. Ne vediamo già qualche segnale. Sarebbe incosciente ignorarlo e pensare che siano i filantropi a risolvere le questioni, che hanno una dimensione esclusivamente politica. Voglio terminare con le parole di Ferrajoli, che rilette alla luce del covid-19 acquistano un valore filantropico ancora più cogente, nel senso vero ed etimologico del termine:
Prendere sul serio il principio di uguaglianza nei diritti umani, attraverso
lo sviluppo di una sfera pubblica e di istituzioni di garanzia all'altezza della
globalizzazione in atto e dei nuovi poteri transnazionali, è non solo un dovere
giuridico imposto dalle tante carte e convenzioni internazionali, ma anche una
condizione per la sicurezza e la pace di tutti.
[...] Sarebbe allora un segno di realismo se le grandi potenze capissero
finalmente che il mondo è accomunato non solo dal mercato globale, ma anche dal
carattere globale e indivisibile della sicurezza, della pace, della democrazia,
dei diritti umani, e prendessero questi diritti sul serio, se non per ragioni
morali o giuridiche, quanto meno nel loro stesso interesse. Per non farci
travolgere da un futuro di guerre, di terrorismi, e di violenze e non dover
tornare a riscoprire i nessi indissolubili tra diritto e pace e tra diritto e
ragione all'indomani di nuove catastrofi planetarie. Quando sarà troppo tardi.
Questa sì, sarebbe autentica filantropia: un atto vitale e rivoluzionario di
amore per l'umanità.
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