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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione di Armando De Palma e Germana Pareti Mente e corpo Parte prima Dalle teorie dell'identità alle concezioni funzionalistiche della mente 27 Sensazioni e processi cerebrali (John J.C. Smart) 46 La natura della mente (David M. Armstrong) 63 La natura degli stati mentali (Hilary Putnam) 79 Eventi mentali (Donald H. Davidson) 103 La sopravvenienza come concetto filosofico (Jaegwon Kim) Parte seconda L'enigma dell'esperienza soggetiva e la crisi del funzionalismo 143 La bisezione del cervello e l'unità della coscienza (Thomas Nagel) 164 Com'è essere un pipistrello? (Thomas Nagel) 181 Ciò che Mary non sapeva (Frank Jackson) 189 Quainare i qualia (Daniel C. Dennett) 234 Come affrontare il problema della coscienza (David J. Chalmers) Parte terza Lo studio scientifico della coscienza 271 Neurobiologia: una scienza bisognosa di un Copernico (David H. Hubel) 293 Separazione di forma, colore, movimento e profondità: anatomia, fisiologia e percezione (Margaret S. Livingstone e David H. Hubel) 330 Verso una teoria neurobiologica della coscienza (Francis H. C. Crick e Christof Koch) 361 Singoli neuroni, scopi comunitari e coscienza (Horace B. Barlow) 387 Bibliografia 411 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 271Neurobiologia: una scienza bisognosa di un Copernico [1974]
David H. Hubel
L'oggetto della neurobiologia è la comprensione del sistema nervoso. Per quanto concerne l'uomo si tratta di domandare che cosa accada nella nostra testa quando pensiamo, agiamo, percepiamo, impariamo o sogniamo. Nel presente saggio tenterò di valutare lo stato attuale delle conoscenze in neurobiologia, allo scopo di porre, alla fine, la domanda se sia accaduto, se sia in corso o se ci si debba augurare qualcosa di simile a una rivoluzione copernicana. Le due grandi branche interdipendenti della neurobiologia sono la neuroanatomia e la neurofisiologia. L'anatomia cerca di descrivere come il cervello è assemblato, mentre la fisiologia si domanda come le varie parti operino insieme. Sebbene tradizionalmente nei due campi ci sia stata la tendenza a intraprendere corsi separati, di solito ospitati in dipartimenti distinti delle università, di fatto sono in larga misura interdipendenti. La maggior parte dei neuroanatomisti moderni non si accontentano di una semplice descrizione di relazioni spaziali fini a se stesse, ma passano subito a domandare quale sia lo scopo delle strutture. Un disegno preciso di un orologio, di un torchio per la stampa o di un apparecchio televisivo riveste in sé scarso interesse, soprattutto se non sappiamo che lo scopo è quello di dire l'ora, di stampare libri o di divertire. La fisiologia, d'altro lato, è semplicemente impossibile senza l'anatomia: nessuno può sperare di apprendere in che modo funziona un orologio o un torchio per la stampa senza sapere dove sono gli ingranaggi o le molle. Nel corso del loro sviluppo sia la neuroanatomia sia la neurofisiologia hanno dovuto attendere che le scienze fisiche fossero in grado di fornire loro le diverse tecniche necessarie. La cellula nervosa, o neurone, che è l'unità o il componente elementare con cui il cervello è costruito, è troppo piccola per essere vista a occhio nudo, se non come un semplice puntino, ed è di gran lunga troppo piccola perché i suoi segnali possano essere registrati con i comuni fili elettrici. Quindi, per progredire al di là degli stadi più rudimentali, l'anatomia ha avuto bisogno del microscopio, prima del microscopio ottico e poi di quello elettronico, mentre la fisiologia ha avuto bisogno del microelettrodo. Le conquiste finali dei neuroanatomisti del secolo scorso hanno messo capo sia al riconoscimento che la cellula nervosa è l'unità fondamentale del tessuto nervoso sia alla scoperta che le cellule nervose sono interconnesse con un grado elevato di ordine e di specificità. Usando il microelettrodo i fisiologi hanno posto solide basi per capire, in termini elettrici e chimici, il modo in cui il neurone trasmette i messaggi. Questi due gruppi di realizzazioni non ci dicono affatto come il cervello funzioni, ma forniscono un fondamento conoscitivo assolutamente essenziale. [...] Dov'è, in tutto questo, la rivoluzione copernicana? Si potrebbe sostenere che finora in neurobiologia non c'è stato nulla di analogo a una siffatta rivoluzione. Il cammino nella comprensione del cervello è stato abbastanza lento, anche se i progressi tecnici hanno prodotto una marcata accelerazione negli ultimi decenni. Ma non ci sono stati sconvolgimenti repentini paragonabili a quelli di Keplero o di Newton o di Einstein in fisica, o a quelli di Darwin o di Watson e Crick in biologia. L'unico balzo nella conoscenza che vi si avvicini è il contributo di Ramón y Cajal, ma non mi pare sia all'altezza dell'opera di un Darwin o di un Pasteur.
Se una rivoluzione copernicana non si è ancora verificata in neurobiologia,
possiamo sperare che ce ne sarà una nel prossimo futuro? Data l'importanza
concettuale di una comprensione del cervello, e considerando in quale misura una
comprensione siffatta potrebbe cambiare le idee di noi stessi e del mondo che ci
circonda, non si può certo mettere in dubbio che un progresso veramente profondo
in questo campo costituirebbe una rivoluzione copernicana. Ogni rivoluzione del
passato ha avuto la caratteristica di attirare qualche aspetto molto
fondamentale del nostro studio della natura dentro il dominio dell'analisi
razionale e sperimentale, portandolo via dal soprannaturale. Se Copernico pose
in rilievo che la Terra non è il centro dell'universo, se Darwin dimostrò che
l'uomo è imparentato con le altre creature viventi, se Watson e Crick hanno
dimostrato che l'eredità biologica può essere spiegata in termini fisici e
chimici, a quanto pare alla scienza non rimane sostanzialmente che la questione
della mente, se cioè sia o no qualcosa di più di una macchina di grande
complessità. È rimasta soltanto una branca importante della scienza, forse
l'unica, in cui un ricercatore serio può parlare del soprannaturale senza
necessariamente far ridere, e questa branca è quella che si occupa del cervello
e della mente. Nella
Vita di Galileo
Bertolt Brecht scrive:
Milleseicentodieci, ai dieci di gennaio: Galileo Galilei vide che il cielo non c'era.
Mi domando se tra quindici o trent'anni uno scrittore sarà in grado di dire:
Millenovecentonovanta, ai dieci di febbraio: - - scoprì che l'anima non c'era. | << | < | > | >> |Pagina 330Verso una teoria neurobiologica della coscienza [1990]
Francis H. C. Crick e Christof Koch
È degno di nota che la maggior parte dei lavori sia di scienza cognitiva sia di neuroscienze non faccia alcun riferimento alla coscienza (o alla «consapevolezza»), soprattuttò perché molti considererebbero la coscienza come l'enigma più difficile che la concezione neurale della mente si trovi ad affrontare, e in verità al momento attuale sembra ai più profondamente misteriosa. Questo atteggiamento in parte è un'eredità del comportamentismo e in parte deriva dal fatto che la maggioranza dei ricercatori in questi campi non è in grado di individuare una via vantaggiosa per accostarsi al problema. In anni recenti sono apparsi parecchi libri che affrontano direttamente la questione, ma la maggior parte sono stati scritti perlopiù da un punto di vista funzionale, ragion per cui non hanno detto granché sui neuroni e su altri meccanismi del cervello. Secondo noi i tempi sono oramai maturi per sferrare un assalto alla base neurale della coscienza. Siamo inoltre convinti che il problema della coscienza sia risolvibile, a lungo andare, soltanto con spiegazioni a livello neurale. I ragionamenti sul piano cognitivo sono indubbiamente importanti, ma dubitiamo che di per sé saranno mai abbastanza stringenti da spiegare la coscienza in modo convincente. Il tentativo di inferire la struttura interna di un sistema molto complesso impiegando un'impostazione da «scatola nera» (cioè manipolando le variabili in ingresso e osservando l'uscita del sistema) non condurrà mai a risposte univoche. In breve, metodi siffatti non sono mai di per sé abbastanza potenti da risolvere un problema, per quanto siano abbastanza adatti per suggerire soluzioni a titolo di prova. Secondo la nostra idea fondamentale la coscienza dipende in maniera decisiva da una qualche forma di memoria a durata piuttosto breve e anche da una qualche forma di meccanismo attenzionale di tipo seriale. Questo meccanismo attenzionale aiuta gli insiemi di neuroni pertinenti a scaricare in modo semioscillatorio e coerente, probabilmente a una frequenza nella banda tra i 40 e i 70 Hz, cosicché un'unità globale temporanea viene imposta ai neuroni di molte parti differenti del cervello. Poi queste oscillazioni attivano una memoria a breve termine (operativa). Nei paragrafi successivi del presente saggio ci occuperemo soprattutto della consapevolezza visiva. Prima di accostarci al problema nei suoi particolari, ci pare opportuno descrivere la nostra impostazione generale nei confronti della coscienza, decidendo quali aspetti convenga lasciare da parte. [...] Giacché l'esperienza ha mostrato che si spreca molto tempo prezioso in controversie vane, i seguenti argomenti saranno lasciati da parte, ovvero la nostra opinione in merito verrà espressa senza ulteriori discussioni. 1) Ognuno ha un'idea grossolana di ciò che si intende per coscienza. Pensiamo che sia meglio evitarne una definizione precisa a causa dei rischi di una definizione prematura. Finché il problema non sarà compreso in maniera più approfondita, è verosimile che qualsiasi tentativo di una definizione formale finirà per essere o fuorviante o troppo limitativo, o entrambe le cose. 2) Per quanto siano probabilmente prematuri i ragionamenti sulla natura della coscienza, questa direzione dell'indagine può offrire alcune indicazioni. Dopotutto, stupisce un po' che ci si debba preoccupare tanto della funzione di un oggetto, della cui natura abbiamo idee piuttosto vaghe. 3) Assumeremo che certe specie animali, e in particolare i mammiferi superiori, possiedono alcuni caratteri essenziali della coscienza, ma non necessariamente tutti. Per questo motivo un'adeguata sperimentazione su questi animali può rivelarsi pertinente per scoprire i meccanismi sottostanti la coscienza. 3.1) Ne consegue che un sistema linguistico (come quello degli umani) non è essenziale per la coscienza. In altri termini: i caratteri fondamentali della coscienza possono sussistere anche senza il linguaggio. Questo non significa che la coscienza non risulti notevolmente arricchita dal linguaggio. 3.2) Giudichiamo che a questo stadio non convenga discutere se gli animali «inferiori», quali il polpo, la Drosophila o i nematodi, siano consci, per quanto sia probabile che la coscienza si correli fino a un certo punto con il grado di complessità di un sistema nervoso. 4) Esistono molte forme di coscienza, come quelle associate con la visione, il pensiero, l'emozione, il dolore e così via. Assumeremo che la coscienza di sé, che costituisce l'aspetto autoreferenziale della coscienza, sia soltanto un caso particolare di coscienza, sul quale per il momento conviene soprassedere. Saranno lasciate da parte anche la volizione e l'intenzionalità, nonché vari stati piuttosto insoliti, quali lo stato ipnotico, il sogno nitido e il sonnambulismo, a meno che non emergano aspetti speciali che li rendano sperimentalmente proficui. 5) Nessuna teoria neurale spiegherà proprio tutto sulla coscienza, perlomeno non all'inizio. Cercheremo dapprima di costruire un'impalcatura grossolana, spiegando alcuni caratteri dominanti, augurandoci che un tentativo siffatto condurrà a modelli più comprensivi e perfezionati. 6) Resta il problema del qualia. Alcuni sostengono che taluni aspetti della coscienza (per esempio, se il rosso che vedo io sia lo stesso che vedi tu), in quanto essenzialmente privati, in linea di principio non possono essere affrontati con uno studio oggettivo, scientifico. Riteniamo che, per il momento, sia meglio lasciare da parte anche questo problema irto di difficoltà. Al presente siamo dell'opinione che, quando i tempi saranno maturi, eventualmente risulterà possibile rendere plausibile che tu vedi rosso come me (fermo restando che i controlli psicofisici indichino che tu vedi rosso). Per decidere se sia possibile addurre ragioni plausibili dovremo conoscere nel cervello umano il correlato neurale esatto del vedere rosso. Qualunque sia il risultato, crediamo che una teoria adeguata della coscienza debba spiegare come vediamo i colori per davvero. Questi punti delineano lo schema entro il quale ci rivolgeremo al problema della coscienza. Ora vediamo che cosa la psicologia sia in grado di dirci su questo fenomeno. [...] 11. Conclusione La nostra teoria provvisoria, i cui elementi sono già stati proposti per la maggior parte da altri, più che un modello particolareggiato è un programma di ricerca. Quali sono le caratteristiche essenziali della consapevolezza visiva? In primo luogo si richiede una forma di memoria corrente a breve termine: un'idea che certamente risale a oltre cento anni fa. Postuliamo quindi due forme distinte della memoria corrente: una memoria iconica molto transitoria, che registra aspetti visivi predeterminati; una memoria operativa che si protrae per un periodo di tempo leggermente più lungo e riesce a immagazzinare anche combinazioni di aspetti. Presumiamo che la base della memoria operativa sia formata da porzioni di quella iconica. Le informazioni relative a un singolo oggetto sono distribuite per il cervello. Quindi deve esistere un modo per imporre un'unità temporanea alle attività di tutti i neuroni che sono pertinenti in quel momento. (Detto per inciso, non comprendiamo perché questa unità globale debba richiedere effetti quantistici fantasiosi.) Il suo conseguimento può essere agevolato da un meccanismo attenzionale veloce, l'esatta natura del quale resta da capire. Si suppone che questo meccanismo si concentri su un solo oggetto per volta, scegliendo, con un processo chi-vince-piglia-tutto, l'oggetto successivo che gli appare come il più saliente. L'unità richiesta assume la forma di scariche correlate in semisincronia dei neuroni pertinenti, probabilmente a una frequenza nella banda compresa tra i 40 e i 70 Hz. Sosteniamo in via provvisoria che queste scariche attivano le parti appropriate del sistema della memoria operativa. Per il momento la base neurale di questo sistema è ancora poco chiara, sebbene sia probabile che un suo meccanismo sia costituito dall'alterazione transitoria delle forze sinaptiche. Nel sistema visivo permangono tuttavia molte attività neurali che non raggiungono la piena consapevolezza. Una parte cospicua di queste attività corrisponde alle computazioni necessarie per conseguire l'interpretazione migliore di tutte le informazioni in arrivo, compatibilmente con quelle categoriche che in passato sono state acquisite e immagazzinate. Ecco «l'interpretazione migliore» della quale diventiamo consapevoli. Come mai, allora, la coscienza è tanto misteriosa? Un aspetto singolare della nostra consapevolezza visiva (e della coscienza in generale) è la notevole ricchezza di informazioni, anche se per la maggior parte sono conservate soltanto per un periodo di tempo piuttosto breve. Non soltanto il sistema può passare rapidamente da un oggetto all'altro, ma è anche in grado di trattare con coerenza una quantità ingente di informazioni in un solo momento. Riteniamo che la facciano sembrare così strana soprattutto queste due capacità, in combinazione con i relativi sistemi di memoria molto transitoria. A parte l'idea assai limitata che ci è offerta dall'introspezione, non abbiamo esperienza di macchine che compiano attività di questo genere, così complesse, rapidamente mutevoli e svolte per la maggior parte in parallelo. Qualora riuscissimo a costruire macchine siffatte e a comprenderne il comportamento nei minimi particolari, il mistero della coscienza potrebbe sparire quasi del tutto. | << | < | > | >> |Pagina 362Singoli neuroni, scopi comunitari e coscienza [1994]
Horace B. Barlow
1. Introduzione Insieme con molti altri scienziati nutro forti simpatie per un approccio riduzionistico alla coscienza, ma nello stesso tempo non riesco a credere che un resoconto riduzionistico del funzionamento del mio cervello offrirà mai una spiegazione soddisfacente delle mie esperienze soggettive. La vivacità, il colore e le qualità personali di cui godono, e l'eccitazione che infondono, sembrano stare completamente fuori del dominio scientifico. Com'è possibile attenersi al riduzionismo e sottrarsi alla delusione che pare inevitabile quando lo si applichi alla coscienza? Io penso che la frustrazione derivi dal porre le domande sbagliate sul sistema sbagliato, e così indicherò anzitutto dove la coscienza svolge un ruolo che difficilmente le può essere negato. Gli umani differiscono dalle altre specie nel perseguire scopi comunitari che persistono per molte generazioni in larghi settori della popolazione, e che tuttavia sono determinati culturalmente in misura rilevante e nel complesso non per via genetica. Ciò che rende possibile il perseguimento di scopi comunitari è la nostra capacità di comunicare agevolmente gli uni con gli altri e di serbare nel cervello concetti sugli altri individui, sulle nostre istituzioni e su quegli stessi scopi comunitari. Inoltre la capacità di comunicare con scioltezza su questi concetti è sicuramente la conseguenza diretta e ovvia del fatto che siamo consci. Se siamo d'accordo su tutto ciò, non possiamo considerare la coscienza un semplice epifenomeno, sia perché rappresenta un passo decisivo e causale nel determinare la natura delle comunità umane, sia perché è stata un fattore importante nel condurci a dominare il mondo. Anche se la coscienza appare un attributo di ciascun individuo, per capirne l'opera occorre esaminare un gruppo sociale interagente, e non un singolo cervello e certamente non una parte isolata di un singolo cervello. Soltanto nel contesto del gruppo sociale è possibile capire in qual modo la coscienza (la nostra capacità di ricavare conoscenze e di mettere al corrente gli altri circa gli stati del nostro cervello) abbia determinato la nostra evoluzione culturale. Il sistema importante per un'impostazione riduzionistica nello studio della coscienza è perciò il gruppo sociale, ma altrettanto importante è la domanda posta all'inizio. La curiosità che nutriamo nei confronti della nostra esperienza soggettiva suscita naturalmente la domanda: «Che cosa è la coscienza?», proprio come l'esperienza del calore e della luce hanno suscitato le medesime domande. Ma i risultati conseguiti dalla sperimentazione riduzionistica non ci dicono che cosa sono le esperienze del calore e della luce: ci dicono che cosa il calore e la luce fanno. Nello stesso modo è improbabile che scopriremo mai che cosa è la coscienza, anche se possiamo sperare di scoprire che cosa la coscienza fa per l'individuo e per la specie. Si noti tuttavia che sebbene la conoscenza della fisica non ci dia una risposta alla domanda «è», né in merito alla nostra esperienza degli stimoli fisici né in merito alla luce e al calore, questa conoscenza ci fa mutare atteggiamento nei confronti delle nostre esperienze sensoriali: non appena comprendiamo la base fisica con cui i sensi ci informano sul mondo circostante, la domanda «è» diventa in un certo senso meno misteriosa e impellente. Nello stesso modo, anche se l'impostazione riduzionistica non ci può dire che cosa è la nostra esperienza soggettiva privata, l'esperienza privata acquista un sapore differente non appena ci rendiamo conto del suo ruolo biologico nel promuovere la comunicazione sociale, perché allora essa ha un ruolo funzionale ovvio e un valore di sopravvivenza altrettanto ovvio.
Al fine di presentare le argomentazioni precedenti in una forma
più completa, il presente saggio si divide in tre parti. La prima chiarisce fin
dove possiamo arrivare nella spiegazione dell'esperienza soggettiva in termini
di attività neuronale, e perché alla fine questa impostazione debba essere
abbandonata. La seconda parte si occupa di ciò che la coscienza fa: poiché non
si può affatto sperare che l'introspezione conscia fornisca una risposta
imparziale, tenteremo di immaginare in qual modo una creatura totalmente aliena
vedrebbe la storia e il comportamento degli uomini. Questo paragrafo più lungo
si impernia a sua volta su due resoconti immaginari: il primo indica che il
successo della specie umana dipende in misura preponderante dalla conformazione
unica del nostro comportamento cooperativo, mentre il secondo fa capire che
questo comportamento dipende da quella che chiamiamo coscienza, con un paragrafo
intermedio sul ruolo svolto nella vita umana dagli scopi comunitari e dalle
istituzioni. Infine il terzo paragrafo mette a confronto le caratteristiche che
ci aspetteremmo della coscienza, se si fosse evoluta per estendere la
comunicazione sociale, con i suoi «particolari» che William James e altri hanno
descritto.
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