Autore Luigi De Pascalis
Titolo Il mantello di porpora
SottotitoloAscesa e caduta dell'imperatore Giuliano
EdizioneLa Lepre, Roma, 2014, Visioni , pag. 478, cop.fle., dim. 13x21x3,5 cm , Isbn 978-88-96052-90-7
LettoreLuca Vita, 2014
Classe narrativa italiana , storia antica , paesi: Italia: -500












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


       7   Introduzione dell'Autore

      11   Personaggi principali



      15   Prologo

      19   Il primo manoscritto

     391   Il secondo manoscritto

     469   Epilogo



     473   Principali località citate nel testo

     475   Bibliografia

     477   Ringraziamenti
____________________________________________________


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 41

6



La strada fra Costantinopoli e Nicomedia corre con il mare a destra e le colline a sinistra. Il tragitto si copre in due giorni di cavallo o tre di carrozza, ma la piccola carovana di Giuliano ne impiegò cinque perché lui viaggiava in lettiga.

Di notte alloggiava con la scorta nelle stazioni di posta. Nella sua stanza dormiva la schiava che l'accudiva.

Era brutta, pelosa e puzzava di selvatico, eppure si chiamava Frine come la più bella etera della Grecia antica.

Con il piccolo dominus Frine fu paziente.

Nonostante fosse inverno e l'aria notturna pungesse, lasciò che trascorresse gran parte delle notti affacciato alle finestre delle stanze che via via occupavano, a scrutare le stelle, il mare lontano e la massa scura e boscosa dei monti. Intanto l'osservava senza dire nulla.

Non so se Frine si domandò mai cosa passasse per la testa di quel bambino gracile e malinconico; certo è che gli fece discretamente compagnia durante le notti colme di fantasmi di quel viaggio; e non solo perché così le era stato ordinato, ma anche perché voleva che traesse coraggio dal suo esserci.

Era più di quanto Giuliano fosse stato abituato ad avere e l'apprezzò tanto che, da imperatore, m'incaricò di cercarla e di affrancarla senza dirmene il motivo. Quando gli riferii che era morta da poco, se ne addolorò. Poi mi raccontò del viaggio e di quando, ormai quasi a destinazione, Frine gli aveva detto: «Non preoccuparti per ciò che hai sopportato e per quello che potresti dover sopportare in futuro. Si supera ogni cosa se si vive un momento alla volta. E poi, ragazzo mio, nessun dolore è intollerabile se si sa che i momenti peggiori passano in fretta quanto i migliori».

«Erano parole così sagge — disse nel riferirmele — che l'ho trovate quasi uguali nei Pensieri di Marco Aurelio. E ciò m'ha insegnato che anche una persona grossolana può avere idee degne di attenzione. Povera Frine, avrebbe meritato di morire libera».

«Non dolertene troppo — risposi. — Uno schiavo, nel vivere, pena più di un uomo libero, ma soffre meno nel morire. Dare a Frine la libertà alle soglie dell'Ade sarebbe stato più una beffa che un dono».

Alzò lo sguardo, sorpreso.

«Non ci avevo pensato: da oggi sei libero!».

«No, domine, la sola libertà di cui ho bisogno è quella di servirti».

Sorrise e non tornò sull'argomento fino alla notte in cui morì, ma allora era diverso: allora non avrei più potuto servirlo comunque...


Nicomedia è una delle città più grandi e belle d'Oriente.

A Giuliano piacque perché la vicinanza del mare la rende luminosa; e perché ha strade ben tenute, un magnifico palazzo imperiale fatto erigere da Diocleziano, lussuosi edifici privati, una ricca basilica, un teatro e un grande circo.

Molto meno gli piacque l'incontro con colui a cui l'aveva affidato l'imperatore affinché sovrintendesse alla sua educazione: il vescovo Eusebio, lo stesso che aveva unito in matrimonio suo padre e sua madre; lo stesso che aveva asserito di aver battezzato in punto di morte il primo Costantino; lo stesso, infine, che s'era inventato il falso testamento dell'imperatore e la sua richiesta ai propri figli di vendicarne la morte.

Eusebio era cugino della madre di Giuliano, kyrìa Basilina, e ciò agli occhi del dominus rendeva ancor più spregevoli le sue nefaste iniziative nei confronti del ramo legittimo della famiglia imperiale: suo padre, gli zii...

Il vescovo lo ricevette nel proprio studio, seduto davanti a un tavolo traboccante di tavolette cerate e di papiri. Era magro, grinzoso. Aveva il viso imbellettato e dita coperte d'anelli. Indossava una veste violetta adorna di una fibbia d'oro. La sua voce era esile e stridula.

«Somigli a tua madre» disse alzando il capo dal documento che stava leggendo. Giuliano lo ringraziò a mezza voce.

«Costanzo augusto mi ha chiesto di occuparmi della tua educazione — aggiunse il vescovo. — Avrei preferito che non mi desse quest'incarico, ma non ho potuto rifiutarlo. Vivrai nella villa della tua nonna materna, ad Astakos. È la stessa casa in cui è cresciuta tua madre, ti piacerà. Avrai anche lo stesso maestro, si chiama Mardonio. Ti piacerà anche lui, ne sono certo, e ti darà una buona istruzione. Naturalmente, oltre a un'educazione letteraria ne riceverai pure una religiosa». Lo fissò con intenzione e aggiunse: «Cristiana, naturalmente!».

Giuliano, che nel congedarsi da Gallo aveva capito di dover condurre una doppia vita, annuì. Ciò non gli impedì di continuare ad essere adoratore di Helios.

Ed Eusebio, che si occupò di lui per i successivi due anni, cioè fino a che fu nominato patriarca di Costantinopoli, non s'accorse mai dell'inganno.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 81

16



Durante il soggiorno a Costantinopoli il dominus si rese conto che le statue di dèi e d'eroi che il primo Costantino aveva razziato in ogni angolo dell'impero non erano più oggetto di culto, ma pezzi di pregio di un mondo in dissoluzione; e che le tradizioni legate ad essi non avrebbero avuto un destino diverso.

Sarebbe stato duro invertire la rotta, questo il suo timore.

E mordeva il freno ogni volta che era costretto a recarsi nella basilica dei Santi Apostoli dove l'imperatore voleva che leggesse dal pulpito epistole e passi del Vangelo, certo per ribadire pubblicamente la volontà di farne un uomo di Chiesa, magari un sant'uomo.

Ricordo la volta che uscimmo dalla basilica dove aveva appena letto il passo di Matteo che dice: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi".

Sul sagrato c'erano una ventina di monaci sporchi, laceri, pidocchiosi, che si azzuffavano per raccattare da terra le monetine di rame che vi aveva gettato un ricco desideroso di salvarsi l'anima a poco prezzo.

«Guardali, i seguaci del Nazareno, come s'accapigliano per pochi spiccioli – disse sdegnato. – Del resto, cosa ci si può aspettare dai partigiani del figlio di un falegname, nato in una stalla e morto da criminale?».

«Eppure, domine – gli feci notare – i vescovi sono d'altra tempra e hanno gusti raffinati».

«E questo rende manifesto il loro imbroglio – rispose sorridendo della mia ironia. – Nella religione del crocifisso i pochi ingannano i molti, costruendo fortune sul cadavere di un santo!».

«Forse esageri, domine».

«No, Evemero. Il culto della sofferenza e lo stravolgimento del rapporto tra colpa e castigo attraverso il pentimento gestito da sacerdoti sono veleni che uccideranno l'impero. Pensa al preteso, imminente giudizio universale. Se tutto è prossimo alla fine, non c'è ragione di progredire e nemmeno di resistere ai barbari. E il risultato eccolo lì – disse indicando con disgusto i monaci che continuavano ad accapigliarsi per le monetine rimaste in terra. – L'ultimo dei loro pensieri è la salvezza dello Stato o la tutela del bene comune. Intanto le frontiere cedono e il regno si sfalda. Se il male progredirà, quanti secoli occorreranno per risollevare la nostra civiltà dall'abisso in cui la precipiteranno costoro?».

Non avevo risposte da dargli; del resto non ne voleva.

Proseguì, infatti: «L'indebolimento di Roma dipende più dal vacillare delle idee che da quello delle frontiere. I seguaci del Nazareno approfittano della libertà concessa loro da Costantino e dai suoi figli per sconsacrare, saccheggiare e distruggere i templi degli dèi; per ridurre al silenzio gli oracoli, sotterrare nei boschi sacri i loro martiri, chiudere i teatri, maledire i giochi e organizzare pellegrinaggi verso il sepolcro da cui il falegname crocifisso sarebbe risorto. Quale cittadino sano di mente può credere che il rampollo analfabeta di un povero artigiano galileo sia un dio? Anzi, che sia una delle tre persone diverse e distinte che comporrebbero Dio?».

Ormai caricava a testa bassa, come un toro infuriato.

«Non so che dirti, domine».

«Maledizione, Evemero! In che pasticcio insensato pretendono di cacciarci questi pazzi? No, no, per correggere la rotta, o almeno per limitare i danni, non c'è altra possibilità che allontanarli dalle cariche pubbliche, ma prima bisogna porre fine all'usurpazione di Costanzo e dei suoi fratelli!».

«Domine, ti prego, potremmo essere sentiti».

«Come posso ignorarlo, accidenti a te?»

Nonostante l'irruenza eccessiva rispetto a quella minima circostanza – pochi monaci cenciosi e litigiosi – credo che il mio signore avesse ragione: l'impero aveva cominciato a disfarsi, cosa che oggi è più evidente.

Le attività atletiche sono trascurate, i ginnasi sono deserti, i giochi olimpici non si tengono più. Al culto della bellezza del corpo s'è sostituita la convinzione che esso sia ricettacolo d'ogni lordura. All'idea d'impero che riunisce più popoli si va sostituendo l'amore per le particolarità locali. Dovunque gli oratori dismettono il latino e ricominciano a parlare siriano, copto, armeno. In Asia le persone colte scrivono e parlano greco, fiere di considerare l'Ellade come seconda patria.

L'Ellade, non più Roma!

Qualche differenza tra Occidente e Oriente comincia a vedersi anche in ambito religioso, perché nelle zone rurali d'Occidente le antiche credenze sono difese dai contadini mentre in Oriente quegli stessi ideali sono per lo più patrimonio di filosofi, letterati e retori stanchi dei seguaci del Nazareno.

Ma il mondo è questo, ormai, e nessuno bada ai suoi stravolgimenti.


Torno ora alla nostra storia.

Non so se qualcuno ci sentì, quella volta o un'altra; certo è che il giovane principe che s'aggirava per Costantinopoli senza scorta e senza mostrare l'alterigia del proprio rango, anzi, abbigliato semplicemente e pronto ad ascoltare chi lo fermava, cominciò a dare tanto fastidio che alla fine del quattordicesimo anno del regno di Costanzo augusto, ci giunse l'ordine di lasciare la capitale e di trasferirci a Nicomedia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 222

50



Perfino nei propri scritti Giuliano espresse affetto per Lutetia, descrivendo l'isola, il muro che la cinge, i ponti di legno, il fiume, i frutteti, la foresta che la delimita a destra e l'abitato che l'affianca a sinistra, con l'anfiteatro e gli accampamenti delle legioni. E io so che vi si sentì a proprio agio come ad Astakos, ad Atene o ad Antiochia: merito tra gli altri di Salustio, con cui discusse degli altalenanti rapporti con l'augusto cugino, il prefetto Florenzio e gli ufficiali cristiani. E merito anche del libro Sugli dèi e sul mondo, che il prefetto d'Oriente stava scrivendo in quel periodo.

Ricordo uno scambio notturno di idee sul male e sulla sua origine, a cui mi capitò di assistere.

Salustio affermava che nulla è male per sua natura, ma diventa male per le azioni degli uomini, i quali lo commettono perché si presenta loro sotto la falsa apparenza del bene. Il dominus, invece, era vicino alle idee di Porfirio, che considera il male con tale severità da chiedersi perché i cristiani lo ritengano mondabile con il battesimo.

E a un certo punto disse, rosso in viso per l'eccitazione: «Porfirio ha ragione a domandarsi come sia possibile che fornicazione, adulterio, ubriachezza, furto, pederastia, veneficio, siano eliminati dal battesimo con la stessa facilità con cui un serpente si libera della vecchia pelle!».

«Era malato di malinconia e coltivò per tutta la vita propositi suicidi – rispose Salustio. – E forse fu la malinconia a spingerlo su quella linea... No, no, il problema del male va affrontato con comprensione per le debolezze degli uomini e per quelle degli dèi».

«Andiamo, Salustio! Chi si tratterrebbe dal commettere nefandezze sapendo che otterrà con poco sforzo il perdono? Secondo me, il perdono facile secca alle radici l'albero del mondo e lo consegna ai cattivi comportamenti».

Quella volta la discussione si protrasse fino all'alba, quando gli impegni di governo richiamarono l'attenzione del dominus, ma si ripeté spesso senza che lui o Salustio cambiassero opinione. Tuttavia non ho dubbi sul fatto che, a parte il ruolo svolto da Massimo di Efeso, senza la saggezza e la moderazione del prefetto d'Oriente negli ultimi anni il carattere intransigente del mio signore si sarebbe manifestato con più forza e con più danno.


A Lutetia Giuliano dormiva in una stanza che si affacciava sul fiume. Il suo letto era una stuoia, resa più confortevole da molte pelli. Accanto, c'era una lampada sempre accesa.

Doveri, solitudine, qualche discussione con i pochi amici e quella flebile luce con cui tenere lontani vecchi e nuovi fantasmi, tutta lì la sua vita. Così mi dissi che sarebbe stato bello se qualcun altro, a parte me, avesse avuto cura di tenerla accesa, quella lampada; e cominciai a rifletterci sopra.

Due giorni dopo, andando al mercato degli schiavi, vidi una fanciulla d'origini siriane, nera di capelli, seni piccoli, fianchi generosi, occhi vivaci, denti bianchissimi. Somigliava talmente ad Areté che non resistetti alla tentazione di comprarla per il dominus; senza chiedergliene il permesso, naturalmente, perché non me l'avrebbe dato. Tuttavia le si sarebbe affezionato molto, pur mostrando di fronte a tutti di considerarla solo una schiava. Ma si sa che i rapporti tra padroni e schiavi sono più complessi di quanto si voglia credere; e si sa che amore e affetto hanno mille modi per esprimersi.

Lei si chiama Sophia. Oggi è una donna libera e vive con me nella casa del Pireo dove invecchio e scrivo queste pagine. E spesso, la sera, trascorriamo ore a ricordare colui che abbiamo amato e perso entrambi per colpa del Fato e anche nostra, forse.

Ma è meglio che io vada con ordine...

Subito dopo averla comprata, mentre mi seguiva docilmente verso casa, spiegai a Sophia che era destinata al cesare Giuliano.

Il suo volto s'illuminò, ma non disse nulla.

Nei giorni seguenti si lasciò istruire in segreto, circa il carattere e le inclinazioni del nuovo padrone. E solo quando ritenni che fosse pronta la feci imbellettare, profumare e abbigliare a dovere, poi la condussi da lui.

Rammento che tremava, forse di freddo e forse di paura. Ma anche io tremavo senza saperne il perché.

Era sera. La feci attendere al buio sulla soglia dello studiolo del dominus e bussai. Lui mi disse di entrare. Stava leggendo alla luce della solita lampada.

«Ebbene?» chiese quando gli fui davanti.

«Non considerarmi invadente, domine, ma ho un regalo per te».

«Un regalo?».

«Sì, domine». A un mio cenno, la ragazza emerse dal buio con passo esitante. Era davvero bella e solo un cieco non si sarebbe accorto che somigliava ad Areté. «Si chiama Sophia — dissi — e non desidera altro che compiacerti».

Lui l'osservò in silenzio. Quella somiglianza lo turbava e lo attraeva. Alla fine i pensieri dolorosi prevalsero: «No, ti ringrazio» disse in greco.

Il volto di Sophia si rabbuiò, gli occhi le si riempirono di lacrime. Credei temesse di essere ricondotta al mercato degli schiavi, ma non era questo: Cesare Giuliano era giovane, bello e potente. Nessun altro padrone sarebbe stato alla sua altezza e lei voleva essere sua.

Feci per condurla via, ma lei me lo impedì.

«Perdonami, domine, se non sono bella come l'Afrodite che meriteresti di avere tra le braccia — sussurrò in greco. — Ma lascia che almeno stasera ti consoli: i tuoi occhi sono così tristi!».

La sua voce era armoniosa e seducente quanto il suo aspetto.

Il dominus la squadrò una seconda volta.

«Neppure i tuoi occhi sono allegri — disse alla fine, sorridendo. — E temo che per stavolta dovrò essere io a consolare te».

Le fece cenno di andargli accanto e mi congedò.

Lasciai la stanza con il cuore leggero.

Sapevo ancora come compiacere il mio signore!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 262

59



Al principio del mese di novembre di quell'anno, ad Antiochia di Siria dove svernava, Costanzo augusto – più ossessionato dalla mancanza di un erede che addolorato per la morte di Eusebia – cominciò a organizzare il suo terzo matrimonio, stavolta con la giovanissima Faustina.

In Gallia, invece, il dominus celebrò assieme alla moglie il quinto anniversario della sua elezione a cesare. La cerimonia si tenne lungo le sponde del Rodano e i festeggiamenti durarono giorni. Per quanto ricordo, fu la prima volta in cui apparve in pubblico con un diadema sul capo, il manto purpureo fermato come sempre dalla fibbia materna. Era e voleva sembrare un imperatore, finalmente, sia per dare soddisfazione ai soldati che l'avevano voluto tale, sia perché i rapporti con Costanzo s'erano talmente guastati che non sarebbe servito a nulla continuare a fingersi solo un cesare; del che s'era convinta perfino domina Elena. Fatto sta che il diadema imperiale fu un suo dono e forse anche un modo per tentare di governare l'inevitabile.

A ogni modo, è giusto che a questo punto io dica che fu domina Elena a ispirare al marito l' Editto di tolleranza con cui si stabiliva che in Gallia tutte le religioni dovessero considerarsi uguali davanti alla legge. E fu ancora lei che, in occasione dei festeggiamenti per il quinquennale, incoraggiò il dominus a far coniare dalla zecca di Constantia, città già chiamata Arelate, una moneta d'oro con la sua effigie e l'aquila imperiale. Sul rovescio si celebrava la virtù dell'esercito di Gallia che aveva innalzato il cesare alla porpora.

A chi mi domandasse perché nei suoi ultimi giorni domina Elena abbia voluto contribuire a rompere l'equilibrio tra fratello e marito, equilibrio a cui aveva atteso per tanto tempo, potrei rispondere solo con questa congettura: giunta quasi al rendiconto col suo Dio, s'era resa conto che la sua equidistanza tra fratello e marito era stata ingiusta, avendo favorito il peggiore dei due in virtù del legame di sangue.

E in effetti Costanzo era settario, crudele e intransigente non solo con i pagani, ma anche con i cristiani non ariani; mentre il dominus, che aveva appena emanato il suo editto, prometteva di essere un governante migliore.

Su questo punto – lo scrivo con dolore e amarezza – in parte domina Elena si sbagliava. Ma come poteva sapere, povera donna, che la porpora rende tutti peggiori? Lei che non aveva mai visto altro che uomini ammantati di rosso?

Cicerone, ragionando sulla natura degli dèi, scrisse: "Gli dèi mostrano segni del futuro; se qualcuno sbaglia, sbaglia non perché sbagliata è la natura degli dèi, ma perché sbagliata è la congettura che l'uomo intraprende".

E questa congettura è particolarmente errata, aggiungo io, quando l'uomo in questione indossa un mantello imperiale e s'arrende, più o meno consapevolmente, alla logica dei suoi malefici. Ma le cose umane vanno dove il capriccio del caso e la follia del destino intendono farle andare.

Domina Elena morì meno di due settimane più tardi e l'augusto fratello, preso dalla campagna contro i Persiani e dalle nozze imminenti, non la degnò d'un rigo di compianto. Così, dopo solenni funerali cristiani, il dominus decise di farla tumulare a Roma, accanto alla sorella Costantina, già moglie di Gallo.

Le due erano state molto diverse tra loro e avevano sposato fratelli anch'essi molto diversi; dunque non c'era ragione di quella unione nella morte. Ma credo che il mio signore abbia voluto che fossero tumulate insieme per ricordare a Costanzo augusto che c'era un debito mortale da saldare, e che il momento di farlo era vicino.


Pochi giorni dopo giunse un messaggero, uno dei miei.

Lessi il documento che mi diede e mi precipitai dal dominus. Era in uno dei suoi rari momenti di riposo e stava rileggendo l'Iliade.

«Cosa c'è?» domandò.

«Ho buone notizie, domine».

«Quali?».

«Sophia ti ha dato un maschio robusto e in buona salute. Vuole sapere come deve chiamarlo».

Aggrottò la fronte e posò il rotolo del poema. Vidi sul suo viso gioia e amarezza.

«Ho finalmente un figlio maschio — disse — e vorrei annunciarlo al mondo intero, con gioia. Invece dovrò tenerlo nascosto perché Costanzo potrebbe arrivare a lui. Non dimentico la notte di Costantinopoli, io!».

Rividi con gli occhi della memoria il bambino magro e spaurito che la nonna materna affidò alle mie cure di giovanissimo schiavo, ad Astakos. I suoi occhi incerti. Il suo sorriso timido.

Poi rammentai la domanda che fu l'inizio della nostra amicizia: "È lontano il mare?".

Il mare è bisogno di orizzonti vasti.

Il mare è il luogo diurno dei sogni. Chi è capace di sognare non è mai solo, non è mai del tutto smarrito, e non vive mai troppo lontano dal mare.

«So a cosa pensi — dissi. — Il bambino è stato concepito da una schiava e difficilmente potrà essere imperatore, ma questo non gli impedirà di correre gli stessi pericoli di un figlio legittimo».

«Già!». Si lisciò la barba che cominciava a essere spruzzata di bianco, nonostante avesse appena trent'anni. «Scrivi a Sophia, ti prego. Dille che le sono infinitamente grato per il dono che mi ha fatto e ripetile che non avrà mai di che preoccuparsi per il futuro suo e del bambino, ma che deve restare nascosta, almeno fino a che questo insensato duello tra me e Costanzo non sarà finito... Poi potrà andare a vivere ad Astakos, se vorrà».

Era più di quanto mi aspettassi: un uomo libero può non tenere in nessun conto il figlio avuto da una schiava, figurarsi un imperatore.

«E per il nome?».

Arrotolò e srotolò il poema omerico, lisciandolo pensieroso per qualche istante. Poi lo ripose nella custodia di cuoio e ne annodò il laccio.

«Mardonio — disse alla fine. — Vorrei che si chiamasse Mardonio».

Il pedagogo Mardonio era stato il legame più forte che il dominus avesse avuto con sua madre. Dare quel nome al bambino era un modo per dire, almeno a se stesso, che faceva parte della sua famiglia.

«Bene — risposi sorridendo. — Mardonio è un bel nome. Quando crescerà, il piccolo ne sarà orgoglioso».

Mi guardò con una strana espressione, quasi sorpresa, ma non disse nulla e mi congedò con un gesto.


Il 6 gennaio del nuovo anno, Giuliano assistette alla messa dell'Epifania nella cattedrale cittadina e tutti lo videro pregare.

Quando gliene domandai la ragione, rispose: «Non ho un'unica ragione, ma varie. Intanto ho emesso un editto di tolleranza e intendo mostrare ai miei sudditi che sulle terre da me governate tutte le religioni sono ammesse. In secondo luogo ho inteso onorare la memoria di mia moglie, che era cristiana. In terzo luogo l'Epifania è una festa rubata. Non hai sentito i cantori salmodiare Lumen de lumina davanti all'altare?».

«Sì, l'ho sentito» risposi.

«Quel canto è la versione cristiana di una liturgia mitraica. Dunque con un solo atto ho onorato la donna che ho sposato, ho compiaciuto due divinità, la mia e la sua, e ho fatto capire al popolo che è libero di credere nel dio che preferisce. Ti pare poco?»

«No, domine».

| << |  <  |