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| << | < | > | >> |Pagina 5PrefazioneCaro Collodi, Ti scrivo perché è soprattutto a te che devo rendere conto dell'apparente arbitrarietà delle mie tavole, ed è per capire chi sei stato che ho accettato di disegnarle. Non ti nascondo però che ho avuto più di un attimo di perplessità: era un lavoro notevole, lungo, che presupponeva amore. Ed io non ne avevo molto da dare a un pupazzaccio dalla testa di legno, presuntuoso, saccente e borghesuccio come il tuo Pinocchio. Ma poi ho accettato, avendo avuto modo di riflettere sullo strano, ambiguo rapporto che c'è, a volte, fra l'Autore e la sua Creatura. Concedimi un attimo di franchezza: sei uno scrittore noioso, per di più affrettato nella forma e impastato di moralismo spicciolo ad ogni capoverso. Ma Pinocchio, accidenti, è vivo e fatto d'altra pasta. E già a prima vista sembra essere più grande di te. E lo è malgrado te, il suo Autore! Anzi, proprio questo mi ha colpito del tuo libro, che uno scrittorello ha l'idea abbastanza brutta di raccontare la storia di un burattino che desidera diventare uomo, e dalle sue pagine salta fuori con la bellezza assoluta della verità l'umanissima ed eterna tragedia del crescere. Non ti meravigliare di quello che scrivo: è fiaba o piuttosto tragedia quella di un "diverso" che affronta una lunga lotta contro se stesso, e spesso contro la parte più viva di sé, per diventare come tutti gli altri, un burattino di carne e ossa che desidera solo crogiolarsi in quel suo essere divenuto come tutti, sentendosi consolato dalla sua stessa rinuncia? Povero, il nostro Pinocchio senza cervello, avrà mai riflettuto sul senso del suo crescere? Si sarà mai accorto della vera natura di coloro a cui ha dato e dà il suo affetto? Ama un padre che lo ha abbozzato da un ramo «perché si sentiva solo, e poi desiderava fabbricare una marionetta che gli permettesse di girare il mondo procurandogli di che vivere» (procreazione intesa come ricchezza e assicurazione contro la vecchiaia, cose ben lontane dall'amore!). Si strugge per la sua fatina, ma lei è il solito esempio di madre italica sempre pronta a mettere in atto il ricatto dell'affetto, a darsi per morta, dispersa o malata, al fine di mettere alla prova il suo affetto e costringerlo, con le buone o le cattive, al suo volere, sia esso l'andare a scuola o il trangugiare una disgustosa medicina che lo faccia guarire da quella terribile malattia senza rimedio che si chiama morte. Una morte, guarda caso, voluta da lei stessa – la fatina buona – quando i due assassini lo inseguivano e lei rifiutò di aprirgli la porta di casa. Crede persino negli amici, il tuo burattino, ma nessuno di loro lo ricambia. O sono ladri e assassini (il Gatto e la Volpe), o sono monellacci inconcludenti (Lucignolo e la sua banda di ragazzacci già nati asini, nei quali l'ultima trasformazione sancirà solo un dato di fatto: sono bestie destinate a faticare sino alla fine perché altri si arricchiscano, come il contadino con Lucignolo o il padrone del circo con Pinocchio). L'unico personaggio umano positivo che gli ha fatto incontrare quel poco di buono che sei dal punto di vista letterario (perdonami, Collodi, ma è vero!) è Mangiafuoco, un terribile vecchio dal cuore di marionetta... Ecco, caro Collodi, il mondo degli umani nel quale per tutto il libro ti sforzi di fare entrare il tuo Pinocchio. E lo costringi a lasciare dietro di sé Arlecchino e Pulcinella, Colombina e Brighella, che hanno avuto il coraggio di fargli festa ben sapendo di rischiare d'incorrere in punizioni terribili; e a lasciarsi alle spalle tutti quei simpatici animali con cui ha un rapporto fiduciario totale e che nel racconto sono altrettanti elementi risolutori (il piccione, il cane Melampo, il tonno, persino il terribile pescecane che custodisce e fa sopravvivere nel suo ventre Geppetto). E dunque, caro Collodi, ecco che il tuo Pinocchio non è un personaggio da fiaba, ma da tragedia. L'uomo – tu stesso lo dici – nasce burattino libero, in rapporto giocoso con le sue pulsioni e con le creature semplici della terra e nasce «credendo» (nei genitori, negli amici, in tutti gli esseri umani). Ma poi arriva il momento di crescere, anzi di rinascere, ed ecco che padre e figlio sono partoriti di nuovo, insieme, da un gigantesco e terribile utero marino (il pescecane) dal quale escono entrambi diversi: Geppetto vecchio e stanco, Pinocchio avvinto dalle mille penose responsabilità dell'umano. E così addio corse al mare, addio dimensione ludica del mondo, addio vita a cui un pezzo di legno può affidarsi con fiducia. E benvenuti sacrifici e diffidenza: Pinocchio è uomo!... Un'ultima cosa: chi sa quanti bambini si sono chiesti – io l'ho fatto, tanto tempo fa – che ne fu di Pinocchio, dopo la trasformazione da burattino a essere umano. Ora lo so: l'ex burattino, ormai uomo fatto, oppresso dai debiti e dalla vita, sedette un giorno a tavolino e cominciò a scrivere: «C'era una volta...». Erano la sua salvezza e la sua giustificazione. E un po' erano anche le nostre. Solo questo avevo da dirti, caro Collodi, per cui mi fermo qui. Ti lascio ai tuoi pensieri e ai tuoi ricordi; ma prima abbraccia per me, se puoi, il fratello di legno della mia infanzia. Digli che ne avevo un ricordo lontano e sbiadito, come di foto ingiallite ripescate in fondo a un cassetto. E che è solo per questo che ho voluto dare alle mie tavole un sapore d'altri tempi, come di vecchie immagini di famiglia già quasi del tutto sbiadite, ma ancora capaci di richiamare alla mente persone care e scomparse. Persone inadatte, forse, al mondo in cui viviamo oggi, ma senza le quali non saremmo mai stati ciò che siamo. Addio. Il disegnatore | << | < | |