Copertina
Autore Luigi De Pascalis
Titolo Rosso Velabro
SottotitoloDelitti e magia nera nella Roma del IV secolo
EdizioneLa Lepre, Roma, 2010 [2002], Visioni , pag. 298, cop.fle., dim. 13,3x21x2,2 cm , Isbn 978-88-96052-26-6
PrefazioneGianfranco de Turris
LettoreSara Allodi, 2011
Classe narrativa italiana , gialli , storia antica , citta': Roma
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Indice


    9  Prologo

   13  Capitolo primo
   24  Capitolo secondo

       [...]

  233  Capitolo trentesimo

  239  Epilogo

  271  Habent sua fata libelli!
       di Gianfranco de Turris

  285  Le monete
  287  La divisione del giorno in ore
  289  Il calendario di Giulio Cesare
       secondo I Saturnali di Macrobio

  291  Glossario
  297  Bibliografia


 

 

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Pagina 9

Prologo



                                Confronta il pensiero con le parole.
              Penetra con la mente negli eventi e in chi li produce.

                                   (Marco Aurelio, Pensieri,VII, 30)



Il mondo in cui nacqui settantatré anni fa si sta sbriciolando. Anzi no, si decompone come un corpus mortui medicatum uscito dalla bottega di un imbalsamatore insipiente e disonesto. È già la terza estate consecutiva che Alarico s'accampa con le sue orde alle porte di Roma e ne sono passate due da quando il generale Stilicone, l'unico che avrebbe potuto fermarlo, è divenuto ombra dell'Ade.

Durante questo tempo la sola iniziativa dell'imperatore è stata quella di trasferire la corte da Milano a Ravenna, città dove ritiene di essere più al sicuro.

Poco importa che Alemanni, Burgundi, Franchi, Svevi e Vandali abbiano ridotto l'Impero a un immondezzaio sanguinolento e maleodorante: Onorio si preoccupa solo di Onorio.

Nel corso dei miei anni ho visto dolori e prodigi, ardori e battaglie e ho provato ogni cosa buona o cattiva che possa riempire il cuore di un uomo. Tuttavia neanche nei momenti peggiori ho immaginato quest'immane disfatta.

La Roma che conosco sta per morire e io con lei, forse. Ma non importa: nessuno desidera sopravvivere al proprio mondo.

La sola cosa che ancora voglio è che non finisca con me l'eco delle gesta dell'uomo a cui devo la passata agiatezza, il cursus honorum, l'esperienza e persino il nome.

Quest'uomo si chiamava Caio Flaviano Celso e scomparve, carico d'anni e nauseato dalla vita, inseguendo verità sconosciute con indomata curiosità. E ciò accadde nell'anno in cui morì Teodosio e l'Impero fu smembrato fra i suoi due figli, Arcadio che ebbe l'Oriente e Onorio che ebbe l'Occidente...

A chi leggerà queste pagine, se mai ci sarà, dico ora il mio nome. Mi chiamo Alipio Celso e, pur non avendone il sangue, sono l'ultimo della gens Celsa. Caio, infatti, mi adottò qualche tempo dopo che la moglie Livilla, a cui s'unì in età matura, e l'amatissima figlia Perennia furono trascinate nell'Ade da una delle ricorrenti epidemie che cominciavano a colpire l'Impero.

La domus degli avi, di cui mi fece dono prima di lasciare Roma e che sorgeva ai margini del Foro Boario, non esiste più. È stata inghiottita dal fuoco di uno degli innumeri incendi che hanno devastato l'Urbe. Il suo posto — degno segno dei tempi — l'hanno preso decine di baracche fatiscenti sorte a ridosso dei pochi muri superstiti, sbrecciati e neri di fumo.

Ma a quell'epoca Caio aveva già raggiunto la sua stella, al cospetto di Mithra, così non fu costretto a vedere distrutto dalle fiamme ciò che aveva affidato a me perché durasse.

Confesso che non mi costò molto trasferirmi in una modesta e chiassosa insula. Fu un trasloco facile perché, a parte un appezzamento di terra che vendetti pochi giorni dopo, possedevo solo gli abiti che avevo addosso e il nome rispettato dei Gelsi.

Da quel momento sono andato avanti per anni, senza fatica, come in un sogno indolente. Né mai ho sentito la necessità di sedermi a ricordare, scrivendo.

La memoria costa pena e, per quanto diligentemente vergato sulla pergamena, il rimpianto non conduce a nulla.

Ma ora che Alarico è alle porte, sento il dovere di fermare i ricordi in qualcosa di meno labile della mente umana.

Lo sento per te, pater...

E purtroppo non ho altra scelta che affidare questa fragile eredità a Didimo, l'unico schiavo che m'è rimasto. È giovane e robusto e spero che sopravviva ad Alarico e mi resti fedele quel tanto che serve.

In cambio della libertà gli ho affidato il compito di consegnare questa testimonianza in mani idonee. Non so quali siano, adesso, per cui non posso fare altro che affidarmi al suo incerto ma onesto giudizio.

E da te, Mithra, dio del Patto e della Luce, per quanto mi ritenga indegno della tua considerazione, attendo un miracolo: fa sì che le mura di Aureliano fermino per qualche altro giorno ancora il sedicente re goto e le sue bande affamate, dammi il tempo di terminare questo scritto!


Con nostalgia e sollievo la mia mente abbandona ora l'amaro presente e torna ai tempi gloriosi dell'imperatore Giuliano, prima che i cristiani ottenessero perfino più di quanto i loro cuori fanatici osassero sperare.

Avevo ventidue anni, allora, e il dominus non m'aveva ancora adottato. Io ero un tresvir addetto all'ordine pubblico, lui l' aedilis responsabile dello stesso per tutta l'Urbe. E la sua domus era ancora ben gestita dall'anziano liberto Vitale e da sua moglie Arbuscula.

Caio Celso era integro, saldo, temuto nei trivi come al Porto Fluviale, nel Foro come in Senato. Il prefetto e il plenipotenziario imperiale lo sostenevano. Non c'era malfattore che non temesse il suo nome, né delitto di cui non venisse a capo.

Tuttavia non era questo a renderlo uno dei più temuti cittadini dell'Urbe. Era qualcosa che aveva a che fare con un potere sconosciuto a cui imparò ad attingere soprattutto negli anni della maturità.

Forse c'era in lui qualcosa del primo Celso, un augure e indovino che all'epoca dell'ultima guerra sannitica era stato condotto a Roma in catene. Ma presto i ceppi avevano lasciato posto alla candida veste sacerdotale e lui era divenuto il più ascoltato consigliere di patres, consoli e generali.

La fortuna dei Celsi era cominciata con vaticini e premonizioni, dunque, ma il pater meus si riteneva d'altra pasta.

Da convinto seguace di Seneca diffidava di auguri e indovini, amava l'esercizio della logica e della temperanza, ignorava volutamente la lingua degli antichi padri e conservava solo vaghe memorie delle sue origini.

Ma il cuore, si sa, conosce l'arte rischiosa del possibile.

Così, a volte, Caio si lasciava guidare dal cuore come un cieco dal suo cane e non c'era tenebra che non riuscisse a penetrare, né mistero che non riuscisse a decifrare.

Quanto spesso ho veduto le tenebre infere illuminate dal suo acume e quante gli ho visto risolvere misteri che avevano a che fare più con il Cielo che con la Terra?

Molte, moltissime! E la naturalezza con cui si accostava al mondo degli dèi e delle ombre non ha mai smesso di stupirmi.

Ecco, questo fu Caio Flaviano Celso, mio padre adottivo, ed è a lui che dedico queste mie pagine

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Pagina 13

Capitolo primo



Nell'Urbe si raccontavano meraviglie della città di Costantino. Si diceva che le strade fossero più ampie, i parchi più accoglienti, i templi più ricchi di quelli della città di Romolo, che era soffocata fra il Tevere e le paludi. Si favoleggiava con una sorta d'acido stupore dei tetti d'oro, dei templi, dei marmi e dei porfidi profusi a ogni angolo di strada. Si diceva delle terme e dei teatri senza uguali per lusso e splendore. Eppure non v'era romano disposto a credere che a Nuova Roma, o in qualsiasi altra città dell'Impero, vi fosse alcunché di paragonabile alla magnificenza dell'Anfiteatro Flavio.

Le arcate dell'immensa costruzione, voluta da Vespasiano e inaugurata da Tito, erano arricchite da una folla di statue. A esse, nei giorni dedicati ai giochi, faceva da contrappunto la gente che fin dalle prime luci dell'alba si accalcava dinanzi ai settantasei ingressi numerati. Gagliardetti e stendardi sventolavano sui pali rostrati che sorreggevano i teli di copertura. Lungo la rete di protezione che separava l'arena dagli spalti, vegliavano centinaia di arcieri. Venditori di salsicce, cervisia e focacce assicuravano la ristorazione.

Più giù, nel ventre dell'edificio, schiavi, architetti, soldati e maestri d'arme garantivano il buon andamento dello spettacolo.

N'erano parte integrante centinaia di belve e di condannati a morte, centurie e centurie di gladiatori.

Ai tempi dell'imperatore Giuliano le occasioni di assistere a questo tipo di giochi non erano frequenti. Tuttavia nell'anno in cui l'Apostata – come sarebbe stato chiamato più tardi – mosse guerra ai persiani, il senatore Giunio Bruto, che aspirava alla carica di consul, decise che avrebbe finanziato grandiosi spettacoli gladiatori e che questi si sarebbero tenuti il terzo giorno dei Ludi Megalensi in onore di Cybele, in luogo delle consuete corse dei carri che si sarebbero invece svolte due giorni dopo.

L'attesa aveva riempito d'eccitazione schiavi, liberti, volgo, equites e patres conscripti. Tutti, da settimane, non facevano che discutere su quali fiere avrebbero dovuto affrontare i condannati a morte di cui rigurgitavano le carceri, su quali nuovi eroi sarebbero usciti dal Ludus Magnus e, soprattutto, su cosa avrebbe inventato il finanziatore dei giochi per mettere alla prova il leggendario valore di Armodio, il principe dei gladiatori.

Il giorno stabilito, all'alba, mentre il sole ancora proiettava sulle costruzioni circostanti l'ombra dell'anfiteatro, una folla vociante ed eccitata si riversò nei vichi e nelle strade che vi conducevano. Pochi si erano fermati a fare la fila nelle latrine pubbliche e ogni angolo appartato era stato ritenuto buono per liberare in fretta il corpo dal peso degli umori notturni.

Per quel giorno gli affari, anche quelli più lucrosi e impellenti, erano accantonati. Nei fori e nelle basiliche gli sparuti clientes a caccia di un pasto sembravano ombre vaganti nei deserti dell'Averno. Le botteghe artigiane del Vicus Tuscus avevano le porte sprangate, nei mercati v'erano solo schiavi e liberti, nei templi si aggiravano unicamente i sacerdoti addetti al culto quotidiano, nel castrum i soldati dei primi due turni di guardia erano ridotti a poche centurie. Perfino le mura della città erano sguarnite.

A fine hora secunda l'anfiteatro era già stipato in ogni ordine di posti, dal moenianum summum, dove s'accalcavano plebei e artigiani, fino alla media e bassa cavea, dove le toghe degli equites e dei decuriones spiccavano fra le vesti brune dei borghesi. Il podium era gremito di senatori, magistrati, vestali e funzionari di palazzo. Sotto il baldacchino imperiale, aveva preso posto tutto quanto restava della corte. Molti dignitari, infatti, erano partiti al seguito di Giuliano o erano stati mandati a governare qualche lontana provincia.

Al' posto d'onore, solitamente riservato all'imperatore, sedeva il praefectus Urbis Lavinio Regolo, un anziano aristocratico dal volto placido e distante. Alla sua destra, avvolta in un peplum color zafferano e con l'elaborata acconciatura rossa sormontata da un diadema, c'era Domizia, la sua giovane e bellissima moglie. A sinistra c'era l'anfitrione, il magister census Giunio Bruto, la toga senatoria elegantemente drappeggiata sull'ampio ventre, una massiccia collana d'oro che quasi spariva fra le pieghe del collo, i pochi capelli grigi accuratamente pettinati in avanti. In seconda fila avevano preso posto alcuni fra i più anziani e illustri senatori, i due consoli in carica e il comandante della guardia pretoria, Vezio Agorio.

Per un po' il vociare discreto del praefectus e dei suoi ospiti fu sovrastato da quello della folla, un brusio minaccioso e impaziente simile a quello di uno sciame d'api. Poi i giochi ebbero inizio e il sangue delle prime belve in lotta fra loro colorò l'arena, ma gli spettatori erano venuti per vedere altro.

Rumoreggiavano. Le fiere sopravvissute vennero risospinte verso i camminamenti, le carcasse di quelle uccise furono trascinate via da coppie di buoi a cui odori e suoni di morte non incutevano più paura.

Le api umane ronzavano così fitto che ci vollero i tamburi da guerra per zittirle. Il loro rombo servì anche a coprire il cigolio di decine di argani nascosti che portarono fin sull'arena cinque, dieci, venti alberi. Quindi una parte del pavimento si sollevò, trasformandosi in un monte. In cima a esso, la magia del teatro portò un orso gigantesco che si rizzò sulle zampe posteriori annusando l'aria. Chi ne sarebbe stato il pasto era incatenato a una quercia.

Sotto l'immenso tendone piombò il silenzio: gli spettatori trattenevano il fiato, soggiogati dall'energia disperata con cui il condannato scuoteva la pianta nel vano tentativo di liberarsi. Il plantigrado trotterellò nella sua direzione con passo quieto e ondeggiante. Lui urlò. Poi tentò di tenerlo a bada menando calci forsennati. Ma la belva, digiuna da chi sa quando, gli balzò addosso con tale foga che il tronco cedette con uno schianto.

Vittima e carnefice rotolarono sul terreno, in un vorticare di foglie e rami spezzati.

Per un attimo il condannato sgambettò in aria, come una tartaruga rovesciata, quindi la bestia l'azzannò alla gola. Era finita. In tutta l'arena, l'unico rumore percettibile era lo schiocco dei teloni di copertura. Si gonfiavano come vele alla brezza di ponente, ma la nave di pietra che le aveva inalberate non avrebbe mai salpato per altro luogo che quello dov'era e dove sarebbe stata sino alla fine dei tempi.

Hora septima: uno squillo di trombe annunciò l'ingresso dei gladiatori. Erano ottanta e guadagnarono il centro dell'arena a passo da parata. La folla scattò in piedi, salutandoli con un boato. Loro si disposero in due file parallele.

Venti thraeces con elmo a visiera, gambiere, scudo e spada ricurva fronteggiavano altrettanti samnites, armati secondo la regola con elmo a visiera, una sola gambiera, grandi scudi e spade dritte.

Distaccati di qualche passo dai primi, venti galli, armati di lancia e spada, contrastavano due decine di retiari, muniti di reti e tridenti. In ogni gruppo c'era un campione. Severo era il migliore dei thraeces, Scauro lo era dei samnites, Oceano e Aracinto eccellevano nelle altre due specialità. Gli spettatori li riconobbero e cominciarono a scandirne i nomi. Molti, però, si chiedevano perché tra loro non ci fosse Armodio e cominciarono a invocarne la presenza nell'arena.

«Armodio! Armodio!».

Stavolta il boato della folla non s'arrese al rullo dei tamburi e non s'arrestò neppure quando il praefectus si levò in piedi allargando le braccia per chiedere silenzio: per ottenerlo furono necessari tamburi e trombe insieme.

«Pazienta, popolo di Roma», urlò poi Lavinio Regolo. «Tra poco Armodio ci offrirà uno spettacolo degno del suo valore...». Finalmente gli spettatori tornarono a sedere e le trombe poterono squillare la prova delle armi...

Intanto nell'arena deserta del Ludus Magnus Armodio incrociava la daga da allenamento con quattro tirones: un thraex, un veles e due galli. Il thraex e uno dei galli erano già abbastanza forti e veloci. Il terzo avversario sarebbe anche potuto diventare un buon veles, ma si rivelò incerto. In quanto all'altro gallus, era giunto al Ludus Magnus da due settimane e già sembrava non avere fatto altro nella vita che uccidere. Era di razza sarmata, delle pianure del nord, ed era agile e pericoloso come una tigre asiatica, quasi un campione.

Armodio non sapeva quale prova l'attendesse nell'altro anfiteatro da cui già venivano il rumore dei primi combattimenti e le urla eccitate della folla, ma non se ne preoccupava. Scaldava i muscoli senza sprecare energie, saggiando per conto di Pugnax, l'allenatore del Ludus, lo stato di preparazione dei tirones. Non impiegò molto a farlo. Poi agì.

Quattro gladiatori che non hanno mai combattuto insieme finiscono per ostacolarsi a vicenda. Il thraex, il più irruente, inciampò nell'asta della lancia del veles e fu facile colpire lui e il suo maldestro compagno. Rimanevano i due galli. Prima che potessero rendersene conto, uno inghiottiva polvere e sangue con la mascella fratturata ma l'altro, il sarmata, era davvero un buon combattente e il campione dovette ricorrere a tutto il suo mestiere per atterrarlo senza stancarsi troppo.

Dall'anfiteatro si levarono alcuni squilli di tromba. Annunciavano la fine dei combattimenti. Chi era morto e chi era sopravvissuto? Chi aveva saputo andarsene con onore e chi aveva implorato grazia? Severo e Scauro avevano alle spalle più di quaranta combattimenti vittoriosi, Oceano e Aracinto quasi altrettanti: persino lui, Armodio, avrebbe potuto trovarsi in difficoltà, contro di loro. Ma gli altri...

Un paio di schiavi lo ripulirono dalla polvere e dal sudore con dei lini umidi, poi gli cosparsero il corpo d'olio aromatico. Era pronto. Il consueto sapore della battaglia gli riempiva la bocca. I muscoli erano tesi, la spada affilata. Imboccò il corridoio sotterraneo che dalla scuola gladiatoria conduceva all'anfiteatro.

Costeggiò il serraglio.

Come sempre, gli addetti ai montacarichi smisero di lavorare per guardarlo passare. Dai loro sguardi s'indovinava che avrebbero preferito affrontare a mani nude l'inquilino di una qualunque di quelle gabbie, piuttosto che misurarsi con lui nell'arena, ma Armodio non se ne meravigliava né se ne doleva. Provava piacere nell'annusare la paura altrui, come se quell'afrore fosse il profumo di un buon vino.

Dinanzi all'ultimo varco, quello che immetteva nell'arena, erano di guardia due arcieri. Il più giovane gli sbarrò la strada, rosso in viso per l'emozione.

«Ascolta» gli disse senza avere il coraggio di guardarlo in viso.

«Crobila, l'indovina, m'incarica di farti sapere...».

Il campione lo spinse via risolutamente. Che cosa poteva mandargli a dire quella vecchia strega di cui lui non fosse già consapevole? Ogni giorno era buono per morire: se si era coscienti di questo, non occorreva sapere altro.

Entrò nell'arena col passo del toro da combattimento, alzando in alto le braccia per rispondere al boato di saluto della folla.

Nessuno meglio di lui avrebbe potuto descrivere la sinistra bellezza di quell'immenso cerchio di pietra visto dal basso, con il suo odore di sterco e di sudore, di sangue e di paura e con quella strana luce diurna, filtrata dagli enormi, candidi teli che ne costituivano il tetto.

S'avviò a passi sicuri verso il palco imperiale, chinò una prima volta il capo in direzione del praefectus Urbis Lavinio Regolo e una seconda in quella di sua moglie Domizia, bella come una dea, luminosa come una vestale. I loro sguardi s'incrociarono: caldo e inquieto quello della donna, distante il suo. Ne ricordava ancora i graffi e i morsi, in una mai dimenticata notte di segreti. La voce di Giunio Bruto lo distolse. Era rivolto a lui, ma il timbro stentoreo s'udiva fin sopra il moenianum summum.

«Ti attende un combattimento difficile, ma glorioso. Avrai di fronte tre essedarii, i migliori dell'Impero...».

La folla esplose: neppure Marte avrebbe potuto fare molto contro tre carri da guerra falcati. Decine di migliaia di piedi cominciarono a battere ritmicamente il suolo. Soldati e pretoriani presero a picchiare i gladi sugli scudi. Il rotondo gigante di pietra vibrava, tendendo e allentando a ogni colpo la ragnatela di corde che sostenevano i teli di copertura.

«Armodio! Armodio!».

Anche stavolta fu necessario lo strepito di trombe e tamburi per ottenere silenzio.

«Aspettate a giudicare» riprese il senatore. «L'impresa a cui chiamo il vostro eroe vale due milioni di sesterzi! Questa sarà la ricompensa, se ne uscirà vivo».

Un altro poderoso boato, stavolta d'incredulità. Una somma simile non era stata offerta neppure a generali vittoriosi.

Armodio ghignò: il segreto che lo legava a Giunio Bruto valeva di più, peccato fosse così lontano dalla realtà quotidiana da essere inconcepibile. Tuttavia il magister census era uomo prudente: alla relativa certezza dell'incredulità preferiva quella assoluta della morte. E i tre essedarii gliel'avrebbero procurata al cospetto della città intera, senza che la cosa destasse sospetto.

Niente veleno o pugnale, per il grande Armodio, ma una sfida degna di lui e il miraggio di una fortuna immensa. Un suo gesto e la folla zitti.

«Sono il re di quest'arena» gridò al magister. «Mi batterò per dimostrarlo ancora una volta a te e a Roma. Ma dopo che avrò vinto gli essedarii non sarà la quantità del tuo denaro che vorrò misurare, ma la forza del tuo braccio. Qui, nell'arena!».

Il volto di Giunio Bruto si fece rosso quanto il bordo della sua toga. Il sottogola gli si gonfiò, ma non ribatté. Le trombe squillarono. Il campione si voltò di scatto.

I tre carri falcati gli erano già quasi addosso. Non c'era tempo né spazo per evitarli. Attaccò d'istinto, scagliando lo scudo fra le zampe dei due cavalli più vicini che rovinarono in terra assieme al carro. L' essedarius rimase schiacciato dalle ruote. Un grido di stupito trionfo si levò dalla folla, mentre il secondo attaccante tirava disperatamente le briglie per costringere le proprie bestie a evitare l'ostacolo improvviso. Ci riuscì, ma andò a incastrarsi fra i resti del primo carro e il muro che delimitava l'arena. Era in trappola. Morì con la daga dell'avversario fra le scapole, afflosciandosi al suolo come un otre bucato.

Era stato troppo facile.

Il campione cominciò a chiedersi quale colpo basso avesse in serbo Giunio Bruto. Corse a recuperare lo scudo e si preparò all'ultimo attacco. L'auriga del terzo carro era un gigante dall'aria sinistra alla guida di due robusti stalloni neri. A mo' di mantello indossava una pelle d'orso. Aveva il capo celato da uno strano elmo la cui visiera arrivava alla base della gola. Il corpo era protetto da una cotta a scaglie di ferro, gambali e bracciali erano di bronzo dorato. Cinque giavellotti e una spada completavano il suo insolito armamento.

Finalmente un avversario degno di Armodio, fu il pensiero di tutti.

Una folata gelida gonfiò come nubi temporalesche i teli di copertura dell'arena e i cordami che li sostenevano emisero uno stridulo lamento. Il gladiatore ebbe la sensazione che l'avversario gli fosse familiare. Forse era per il suo modo di tenere le redini, forse per la maniera in cui il capo e la schiena costituivano un tutt'uno. Lo studiò con maggiore attenzione, i nervi tesi e gli occhi ridotti a fessure, e notò che rispondeva a ogni suo movimento con impercettibili aggiustamenti del corpo e delle braccia e che quelle piccole variazioni di tensione nelle redini erano sufficienti a che i cavalli si adeguassero ai suoi spostamenti. Insomma era come se auriga, carro e tiro fossero un'unica, pericolosa macchina da guerra.

Sarebbe stato uno scontro difficile...

Attraverso le fenditure dell'elmo Armodio volse gli occhi verso il cerchio azzurro che campeggiava dall'apertura al centro del sistema di teli. Fra poco il sole vi si sarebbe affacciato disegnando una pedana sfavillante al centro dell'arena. Indietreggiò in quella direzione per avere il fascio di luce alle spalle.

Dal moenianun summum al baldacchino imperiale gli sguardi di tutti erano fissi su di lui, pronti a gustarne ogni gesto. L'unico testimone interessato ad altri aspetti del combattimento sedeva fra gli spettatori del podium. Era l' aedilis Caio Celso, un ex soldato legato al pensiero di Seneca e al quieto scorrere della vita più che ai sanguinosi ludi nell'arena.

Rispettava tuttavia la tradizione dei giochi. Essi simboleggiavano la lotta dell'intelligenza contro la forza, della luce contro l'ombra, dell'ordine romano contro il caos barbarico. Inoltre il modo di combattere di Armodio gli ricordava l'azione implacabile e rapida del Fato. Insomma la sua spietata e sbrigativa efficienza l'interessava quasi quanto il dispiegarsi sul mondo del volere divino. Ma ora percepiva l'incertezza del gladiatore e se ne chiedeva il perché.

Un'altra folata di vento gonfiò i teli di copertura e sollevò un nugolo di polvere è sabbia. I cavalli s'impennarono, l' essedarius tirò bruscamente le redini. Per un attimo la pelle d'orso che gli faceva da mantello si gonfiò, assumendo la bizzarra forma di due ali. Fu un istante brevissimo, poi tutto tornò com'era, compreso il silenzio. Ma quel momento bastò perché il gladiatore riconoscesse chi gli stava di fronte e capisse con improvviso sgomento quali forze era in grado di evocare Giunio Bruto anche senza il suo aiuto.

Contemporaneamente intuì l'immenso disegno che sottostava alle azioni del senatore, un disegno in cui lui, l'invincibile Armodio, era un soffio d'aria, una goccia d'acqua, un grano di sabbia. Girò lo sguardo sulla folla e per la prima volta sentì di non disprezzarla. Forse v'era fra di essa qualcuno in grado di risparmiare al mondo quanto d'oscuro stava per accadere. Fissò di nuovo il disco azzurro del cielo incorniciato dai teli di copertura da cui non avrebbe mai più visto affacciarsi il sole e si rese conto che aveva ancora tante cose da dire e da fare, ma il suo tempo era finito.

Non gli restava che la metafora per lanciare un ultimo, disperato messaggio.

Gettò lo scudo, si tolse l'elmo, conficcò in terra la daga. Poi, mentre il mormorio di stupore degli spettatori cominciava a diventare il muggito di un fiume in piena, mosse verso il nemico.

Per un brevissimo istante pensò che forse avrebbe dovuto ascoltare ciò che gli aveva mandato a dire Crobila, ma poi si disse che non avrebbe fatto differenza: si sarebbe trovato ad affrontare comunque il destino a mani nude.

Guadagnò il centro dell'arena levando in alto le braccia in cui la vita fluiva col vigore di sempre. Era il suo ultimo saluto all'odiato-amato popolo di Roma e la folla, pur non sapendolo ancora, gli rispose con un boato assordante. Subito dopo, Armodio si strappò di dosso quanto rimaneva dell'armamento, la tunica, i calzari. Restò nudo. Il suo corpo possente infuse negli astanti lo stesso ammirato timore che suscitavano le mille statue d'atleti e di eroi che ornavano le arcate esterne dell'anfiteatro: difficile pensare che sarebbe morto.

Stretto fra gli ammutoliti spettatori del podium, solo Caio Celso capì che quella di Armodio non era una resa, ma un rito.

Tuttavia non riusciva a comprenderne il senso.

L' essedarius allentò le briglie. Il gladiatore si tuffò in terra, rotolandosi nella polvere finché la pelle cosparsa d'olio non ne trattenne tanta da confonderlo con la Grande Madre. Quindi allargò braccia e gambe, poggiò la fronte al suolo e attese che il Fato si compisse. Udì l'urlo d'incredulità della folla, percepì il vibrare del terreno morso dagli zoccoli al galoppo, infine sentì le lame ridurgli il corpo a brandelli. Morì come aveva sempre desiderato morire: senza provare paura né dolore.

Solo a quel punto, stupito quanto scosso, Caio Celso si rese conto che il gladiatore aveva scelto di finire come Eraclito il quale, dopo essersi ricoperto di sterco, s'era fatto divorare dai cani nella piazza d'Efeso.

Cos'era, infatti, quell'arena se non la più grande piazza di Roma, cosa il suolo dell'Urbe se non sterco e pattume e cosa il misterioso essedarius se non un mastino da battaglia?

Era più che mai convinto che Armodio avesse trasformato la sua morte in un messaggio: qualcosa di altrimenti indicibile. Ma cosa?

La chiave era l'auriga misterioso: doveva parlarci. Si precipitò nei sotterranei per intercettarlo, ma fu inutile. Per colpa del buio e del caos che vi regnavano nessuno seppe spiegargli da dove fosse sbucato, né dove si trovasse in quel momento.

Quando rassegnato e pensieroso lasciò l'anfiteatro, gli spettatori si erano già riversati in strada a propagare in ogni vicus e taverna l'incredibile notizia della morte di Armodio. Pànta réi: solo il Logos vive per sempre, avrebbe detto Eraclito. E più o meno questo pensava anche lui, mentre tornava verso la sua domus.

Intanto, dal profondo delle viscere, un'ombra inquietante s'affannava a sussurrargli parole che non riusciva a decifrare.

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Pagina 78

Capitolo decimo



Villa Adriana


Gli eruditi lo soprannominarono il Piccolo Greco e ne testimoniarono la competenza di medico, musicista, architetto, pittore, poeta e scultore in bronzo e marmo. Dominò il mondo, conobbe i più grandi saggi del suo tempo e riportò dagli interminabili viaggi ogni sorta di meraviglie.

Lo seguiva un esercito di operai, muratori, fabbri e carpentieri organizzati in coorti, come le legioni. Ciò gli permise di costruire ovunque templi, strade, città. Eppure tutto questo fu nulla a paragone dell'immensa villa che progettò e fece costruire durante l'arco di venti anni, lungo la via che conduceva ai Monti Tiburtini. Era la sua Cittadella, lo scrigno dove, fra giardini e prati, fra terme e laghetti, raccolse e conservò tutto ciò che lo aveva affascinato. Con essa elevò al rango di architettura ricordi, emozioni, pensieri: un lussureggiante teatro della memoria che gli sopravvisse.

Tito dotò la villa di numerosi privilegi. Marco Aurelio ne fece un luogo di meditazione e ne arricchì le già vaste biblioteche con libri provenienti da ogni parte dell'Impero, ma il rozzo Commodo non vi mise mai piede e i suoi mediocri e sanguinari successori neppure.

Poi l'asse del mondo si spostò a oriente. Treviri, Nicomedia, Spalato e la Nuova Roma di Costantino ridussero a città di provincia persino l'Urbe immortale, figurarsi l'importanza dell'antico sogno di Adriano! Eppure, proprio grazie al disinteresse dei potenti, anno dopo anno, la vita dell'aurea Cittadella proseguì. Un esercito di schiavi, liberti e funzionari ne tenne in ordine i giardini e le sale, ne accrebbe i tesori, ne amministrò le terre e i poderi, mantenendone intatto lo splendore come se da un giorno all'altro Adriano, di ritorno dall'ennesimo viaggio, potesse gioirne di nuovo, facendola tornare a essere la summa irripetibile di una civiltà.

Prima del trasferimento della capitale dall'Urbe a Nuova Roma, la villa tiberina era amministrata dal liberto Calpurniano, che si diceva ne avesse ricevuto l'incarico da Massenzio poco prima della sua tragica sconfitta lungo il greto del Tevere, alle porte di Roma. All'indomani di quella battaglia, detta di ponte Milvio, Calpurniano chiese al vincitore la conferma del suo incarico. L'ottenne e ripartì in direzione dei Monti Tiburtini. Dopo d'allora nessuno ne sentì più parlare, né si seppe come trascorresse i successivi, lunghi anni.

Costanzo II, figlio di Costantino, non lo aveva mai incontrato. Giuliano, successore di Costanzo, aveva ricevuto da lui un'unica missiva. Ciò non di meno la Cittadella era tutt'altro che isolata dal mondo. Artisti e filosofi vi erano di casa, alcuni patres la frequentavano con assiduità. Tutti ci si recavano per rendere omaggio a Calpurniano, il vecchio liberto fatto saggio dalla vita, dai libri e dai ricordi...

Alba dell'ultimo giorno dei Ludi Megalensi: hora prima.

Alcune stelle s'attardavano in cielo, ma già rondini e passeri lo solcavano ad ali spiegate. Quella notte l'equinozio di primavera aveva segnato il trionfo della luce sul buio. Il mondo rinasceva assieme al giovane Attis, l'amante infedele di Cybele. Ogni foglia, ogni fiore, persino le nubi, lo testimoniavano.

Al Circo Massimo, tra poche ore, Mnestere si sarebbe incontrato con Menogene, Eucharis e Crobila e, come sempre, Roma avrebbe perduto la testa per la corsa dei carri. Ma i pensieri del conducente della biga con le insegne pretorie che percorreva a piccolo trotto la Via Tiberina erano lontani dall'incanto del paesaggio come dai giochi del Circo. Si trattava del generale Vezio Agorio che, intenzionato a recarsi al più presto da Calpurniano, aveva approfittato del cielo terso e di una luminosa luna crescente per lasciare il Castro Pretorio prima dell'ultimo cambio di guardia.

Solo e senza scorta, aveva deciso di sacrificare la celerità alla riservatezza lasciando che le sue bestie procedessero a piccolo trotto pur di non doversi fermare lungo la strada per cambiare tiro. Ma stava impiegando più del previsto e cominciava a essere stanco.

Il mantello da campagna e il vino ingurgitato prima di mettersi in cammino non riuscivano a proteggerlo dall'umido notturno che gli intirizziva le ossa. Tuttavia pensava ad altro, cioè a quel pericolo sconosciuto che sentiva aleggiare sulla città come l'ombra di un'aquila su un agnello appena nato. I "come" e i "perché" erano senza risposta e, proprio per questo, non gli davano tregua: solo Calpurniano avrebbe potuto aiutarlo a capire.

Finalmente, superato un faggeto, Vezio Agorio avvistò le mura perimetrali della Cittadella. Frustò i cavalli e li lanciò al galoppo lungo l'imponente alberata. Le bestie erano stanche e schiumavano, ma lo condussero in pochi minuti dinanzi a una costruzione a due piani alla cui sinistra si estendeva un interminabile porticato. Tirò le redini e attese che i due schiavi accorsi afferrassero le cavezze, poi si tolse l'elmo di cuoio, aprì il mantello e salì la scalinata che conduceva all'atrio.

«Dov'è Calpurniano?».

«Ti sta aspettando, domine», rispose l'uomo che gli era corso incontro. Il generale non prevedeva d'essere atteso, ma non fece commenti e s'incamminò verso il laghetto al cui centro sorgeva la residenza del liberto, la stessa che aveva ospitato a suo tempo il Cosmocrator.

«Calpurniano è all'ippodromo», disse una guardia poco più in là. Vezio Agorio cambiò direzione. Si lasciò alle spalle le terme e l'imponente peschiera e imboccò un lungo corridoio adorno di statue.

Poco dopo sbucò nello stadio, proprio sotto la pensilina marmorea del palco imperiale. Qualche altro passo e fu accanto al sedile di pietra dov'era il vecchio. La sua barba immacolata si confondeva con il bianco degli abiti, del viso e delle braccia. Pareva una nuvola, un fiocco di neve, tanto era candido e fragile. Vezio Agorio scosse il capo: era quella la roccia alla quale intendeva aggrapparsi?

«Ave, Calpurniano...». L'intendente della Cittadella si voltò a guardarlo con occhi azzurri venati d'ansia.

«Stanotte ho sognato che venivi ed eccoti qui, in tempo per la sacra corsa dei carri. Guarda... Sono cinque, ciascuno trainato da due cavalli di cinque anni. Ogni carro rappresenta uno dei cinque pianeti: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Diversamente che in cielo sono tutti sulla stessa linea di partenza. Chi di loro vincerà la corsa, segnerà il destino degli uomini».

Il generale sedette su uno sgabello. Era, se possibile, più inquieto e sconcertato di quando era partito da Roma. Si passò una mano sul viso stanco e impolverato. Tutto gli appariva estraneo e irreale. Era la prima volta che le ombre di una notte di veglia non venivano disperse dalla luce del giorno. Forse era diventato troppo vecchio per le fatiche e i viaggi notturni.

Si guardò ancora attorno: nel piccolo ippodromo la luce vivida del primo mattino era scandita dai colonnati marmorei, riflessa dalle bianchissime facciate degli edifici, catturata dalla polvere candida della pista. Persino i cinque carri erano bianchi, e così i manti dei cavalli e le vesti degli aurighi. Tutto era evanescente e vagamente irreale come la barba e il volto di Calpurniano.

Naturalmente Vezio Agorio conosceva l'antico e desueto vaticinio riportato in auge da Adriano, ma non aveva mai creduto che una corsa di carri potesse mutare il tragitto degli astri. Per lui il destino di un soldato era sul filo della sua spada, quello di un esercito nella testa dei suoi generali e quello di un uomo se ne stava rintanato fra le ombre e le luci del suo cuore.

«La vecchiaia, povero Calpurniano! É questo il male che ti toglie la ragione».

Il liberto sembrò leggergli nel pensiero.

«Molte cose non si risolvono con la forza delle armi, Vezio. L'umanità è un fiume ora in piena, ora in magra. Scorre senza sosta fra vita e morte, fra essere e non essere, fra questo e quel dio, come fra altrettante montagne. Ma non tutti gli eterni tollerano la presenza dell'uomo, alcuni la combattono e nel fluire delle cose umane e divine il saggio deve sapere fare sì che gli dèi malvagi soccombano. Fino a oggi ho agito così, ma che fare quando la coscienza tace e si sa già che il fiume della vita rischia di finire inghiottito dalla sabbia del deserto? Nell'angoscia del dubbio, spero che il vaticinio dei carri m'aiuti a capire».

Non aspettò risposta. Fece un gesto appena percettibile, s'udirono cinque schiocchi di frusta, poi gli zoccoli morsero il terreno sollevando una nube di polvere candida e impalpabile come tutto il resto. Per essere davvero reale — cioè per essere come Vezio Agorio conosceva quel tipo di realtà — alla scena mancavano l'urlo della folla, le grida degli aurighi, l'attesa degli scommettitori su chi avrebbe vinto o perso.

Il generale rabbrividì: più che una corsa quello era il sogno di una corsa, un sogno incomprensibilmente angoscioso. Il cielo non era mai stato così splendente, l'ippodromo brillava nel sole: perché, a ogni istante che passava, l'anima era più buia? Perché, a ogni picchiare di zoccoli sul terreno, un nugolo di ombre oscurava sempre più la vista?

Il cuore provava la medesima angoscia che sperimentavano i morti al momento di guadare l'Acheronte e galoppava alla stessa andatura dei cavalli sulla pista. Ebbe un attimo di sollievo, uno solo, quando i cinque tiri bianchi sparirono oltre la curva della spina. Poi riapparvero e l'angoscia divenne mille volte più forte perché i carri sacri non stavano più gareggiando tra loro, ma fuggivano come colombe inermi dinanzi a uno sparviero: un sesto carro che non avrebbe dovuto esserci e invece era lì, scuro e inquietante come l'Oltretomba.

Il mezzo inseguitore era trainato da due neri stalloni da guerra e aveva enormi ruote falcate il cui rombo eguagliava il frastuono di una tempesta sui Monti Tiburtini.

Vezio Agorio e Calpurniano balzarono in piedi. Il carro nero aveva già raggiunto il primo dei bianchi. E qualunque fosse il pianeta che rappresentava — Marte, Venere, Giove... — i cavalli che lo trainavano rovinarono in terra, falciati. S'udì uno schianto: i pezzi del mezzo volarono ovunque, l'auriga divenne un mucchio informe di carni e stracci ai bordi della pista.

I neri forzarono l'andatura. Il guidatore, una nube temporalesca senza contorni né forma, li incitava con suoni agghiaccianti. Vezio Agorio riconobbe in lui l' essedarius che s'era misurato con Armodio nell'arena dell'Anfiteatro Flavio e si guardò attorno, in cerca d'aiuto.

A un tratto i porticati dell'ippodromo s'erano riempiti di schiavi, soldati, famigli e tutti guardavano in raggelato silenzio la notte inumana che avanzava al galoppo sulla pista. Il secondo carro rovinò nella polvere e il suo auriga fu scaraventato lontano, come un pupazzo di cera.

Calpurniano si accasciò sul sedile con un lamento: era quello il tanto atteso responso degli dèi? Vezio Agorio invece guardò il cielo. Il sole sembrava meno splendente, l'azzurro s'era fatto cupo.

Gli tornarono alla mente cose e parole dimenticate: prima l'epitaffio sulla tomba di suo padre, freddo e laconico com'era stato da vivo "Qui riposa Caio Flavio Agorio, questore", poi alcuni versi di Catullo "...Roma è la mia vita: quella è la mia casa, quella è la mia residenza, là trascorro il mio tempo...». Purtroppo, la città amata dal poeta non aveva nulla in comune con quella in cui viveva lui. In realtà non aveva nulla in comune neppure con quella della sua infanzia.

A quel punto ebbe dinanzi agli occhi lo sguardo smarrito del primo barbaro ucciso in combattimento. Era il consueto epilogo d'ogni suo incubo, il segnale che doveva fermarsi. Serrò le palpebre sperando che anche quella terribile corsa fosse solo una visione mostruosa creata dal tempo trascorso, dalla stanchezza e dai cattivi ricordi, ma riaprì gli occhi e vide la stessa luce, lo stesso cielo, la stessa scena di prima. Poi le tre bighe superstiti sparirono oltre la curva sud della spina e lui intuì che non sarebbero più riapparse.

Ecco infatti di nuovo il carro nero. Solo...

Percorreva a gran galoppo il tratto di pista dalla curva alla tribuna imperiale e pareva che neppure gli dèi avrebbero potuto fermarlo. Invece l' essedarius diede un improvviso tratto di redini e i cavalli s'inchiodarono a poche canne dal palco. Un attimo ancora e uno dei giavellotti infilati nella rastrelliera a fianco dell'auriga saettò contro il petto di Calpurniano.

Vezio Agorio si tuffò verso l'arma che mordeva l'aria tendendo disperatamente le mani in avanti, ma s'era mosso tardi: l'asta affondò nel corpo del vecchio come in un sacco di sabbia e lui rotolò giù dai gradini. Provò un dolore insopportabile alla tempia, quindi venne il buio. Stava morendo? Lo desiderò, ma non era il suo momento. Lo Stige gli lambì i piedi, il paese dei morti gli svelò parte del suo desolato profilo, poi la nebbia diradò. Qualcuno lo chiamava. Doveva tornare indietro, verso il dolore e l'angoscia, ma anche verso il giorno, la luce e i colori del mondo.

«Vezio, che gli dèi ti benedicano... Vezio!».

Sentì il tocco leggero di una mano sulla tempia martoriata e riaprì gli occhi. Si trovava in un cubiculum che prendeva luce da una finestrella attraverso cui si vedevano un tetto, un pezzo d'azzurro e un ramo fiorito che stormiva, cullato da una brezza leggera. Il suo letto era accostato a un muro decorato a fresco con rami, frutti, animali. L'aria profumava di cedro.

«Finalmente... Ti senti meglio?».

Il generale riuscì a mettere a fuoco il volto di Calpurniano: gli intensi occhi azzurri circondati da tratti di pelle rugosa, i peli candidi della barba, il sorriso stanco... Era vivo... Poi la stanza iniziò a vorticare e gli animali affrescati sulle pareti parvero colti da un fremito di vita. Sull'alloro dipinto accanto alla porta una tortora cominciò ad agitare le ali e un pettirosso si trasferì da un rametto a un altro. Vezio Agorio chiuse di nuovo gli occhi. Li riaprì. Le tracce dell'Ade da cui era appena tornato s'erano mutate in macchie indistinte, ma la stanza continuava a vorticare.

«Il carro falcato... il giavellotto dell' essedarius... Ti ha colpito al petto, l'ho visto...».

«Quale essedarius, Vezio? Se alludi alle bighe sacre, nessuna di esse aveva ruote falcate o rinforzi di bronzo come i mezzi da circo o da guerra. Erano carri sacri, bianchi e leggeri come quello del Sole. Gli aurighi erano semplici aurighi. Tu, piuttosto: sei caduto, hai battuto la testa sui gradini del palco imperiale e sei svenuto. Forse hai avuto un incubo o un presagio... Ma t'assicuro che nessuno m'ha fatto del male, salvo questa vita che scivola via senza che mi riesca di fermarla».

La bocca di Calpurniano si stirò in un sorriso, il suo sguardo era immoto come quello degli dèi.

«Non ho sognato: c'era un sesto carro in pista», insisté il generale. «Il suo auriga era lo stesso che ha ucciso Armodio, nell'Anfiteatro Flavio!».

«Mi spiace, non so di cosa parli. E poi, considerata anche la mia età. Se fossi gravemente ferito, come dici, dovrei penare e rantolare nel letto, perdendo sangue come una vittima sacrificale. Invece sono qui, dunque...».

«Ti dico che lì fuori è accaduto il finimondo!». Il ferito tentò faticosamente di alzarsi, il custode della Cittadella gli poggiò una mano sulla spalla per impedirglielo.

«In un certo senso è vero: è accaduto il finimondo. Ha vinto Saturno, il divoratore dei figli, nonostante avessi fatto attaccare alla sua biga il tiro più lento...». Fissò lo sguardo su un punto imprecisato della stanza. «Questo vuol dire che il padre divorerà i figli e che i figli sopprimeranno il padre... Un cerchio di sangue e dolore».

«I tuoi aurighi sono morti!...».

«Sono vivi».

«Allora voglio vederli».

«Sono nelle scuderie a occuparsi dei cavalli, com'è loro compito. Il tuo invece è di riposare. Ho fatto portare un infuso che t'aiuterà a dormire, bevilo e riprendi le forze. Domani ti farò vedere che cavalli e aurighi stanno bene. Poi mi racconterai il tuo sogno e anche la ragione di questa visita, d'accordo?». Confuso e spossato, Vezio Agorio annuì e accettò la coppa che gli tendeva la schiava entrata in quel momento. Il liquido caldo e ambrato aveva un gusto amarognolo. Lo stomaco lo accolse con un gorgoglìo di protesta.

«Ho avuto davvero una visione?».

Calpurniano assentì senza rispondere. Teneva la mano dell'amico fra le sue, aspettando che gli occhi di lui si facessero vaghi come quelli di un bimbo assonnato. Morfeo, il grande ingannatore, rendeva tutti uguali: generali e poppanti, matrone e schiavi, senatori e plebei. Egli era re di un paese ai confini della mente in cui il vero e il falso erano gemelli, come Castore e Polluce, ma in quel paese gli uomini smarrivano facilmente il senno.

Prima che il dio delle illusioni lo convincesse con le finzioni di cui era maestro, Vezio Agorio rivide Calpurniano rantolare sul sedile del Cosmocrator, la toga imbrattata di sangue, le gambe squassate dal tremito della morte. Se s'era trattato d'un sogno perché, nel sollevare la testa per bere, gli era sembrato di notare qualcosa sul piede destro del vecchio: una macchia scura che avrebbe potuto essere sangue rappreso?

«È il mio. Non c'è altra risposta», si rassicurò.

Il dio del sonno stava già disperdendo le sue idee come un branco di oche selvatiche: la tortora dipinta sul muro spiccò il volo, il ramo d'alloro s'agitò al vento del giardino. Calpurniano divenne un'ombra.

Vezio Agorio si trovò di nuovo nella palude Stigia. Il più grande esercito di Roma era schierato ai suoi bordi: generazioni e generazioni di soldati morti in battaglia attendevano ordini, ma lui passò oltre. C'era da combattere ancora fra i vivi, agli ordini dell'imperatore e del praefectus.

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