Copertina
Autore Luigi De Pascalis
Titolo Il labirinto dei Sarra
EdizioneLa Lepre, Roma, 2010, Visioni , pag. 300, cop.fle., dim. 13,5x21x2,3 cm , Isbn 978-88-96052-24-2
LettoreGiangiacomo Pisa, 2010
Classe narrativa italiana
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Indice


  9 Prima parte    Umbra dei


139 Seconda parte  Umbra clamat


141 Prologo

143 Scato il marso

179 L'ombra

205 Il tesoro di Testadiferro

269 Cielo d'autunno


 

 

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Pagina 11

Sulla provinciale per Borgo San Rocco aveva appena smesso di piovere. L'aria marzuola sapeva d'ozono e d'erba bagnata, il colore del cielo era talmente intenso da tendere al cobalto.

Data la stagione il non lontano cocuzzolo della Maiella era ancora abbagliante di neve, ma sul suo immenso fianco si distinguevano nitide macchie di vegetazione, rocce e sentieri.

Sulla strada ancora bagnata arrancava un trattore. Dietro gli si era formata una coda di cinque o sei automobili, fra cui una Mercedes bianca.

Il suo guidatore, un uomo solido, d'aspetto gradevole, si chiamava Saverio Sarra e in quel momento stava inseguendo ricordi così lontani che gli era impossibile venirne a capo.

Erano sprazzi dell'infanzia vissuta a Borgo San Rocco, o volti di gente che per tanti anni non s'era domandato se fosse viva o morta e ora, all'improvviso, avrebbe desiderato rivedere.

Sul sedile posteriore sedevano Giorgio e Marta Sarra, settantanove anni il primo, ottantuno la seconda. Erano zii di Saverio e figli del mitico papà Camillo e dell'altrettanto celebrata Adelina Ceccoboni, primogenita del mai compianto senatore Francesco, uomo politico molto noto ai suoi tempi, vale a dire attorno alla fine della prima guerra mondiale.

Il giovane che sedeva accanto a Saverio si chiamava Alessandro ed era figlio di sua sorella Matilde, ma non aveva molto dei Sarra, forse a causa dei tempi che erano cambiati, forse per via del padre che si chiamava Thomas, uno spilungone d'archeologo americano tornatosene a casa dopo il divorzio.

I vecchi se ne stavano rincantucciati ciascuno nel proprio angolo, le labbra atteggiate a un sorriso incerto e vacuo.

"Va' a capire che gli passa per la testa, a questi due", pensò Saverio squadrandoli attraverso lo specchietto retrovisore.

Poi diede un'occhiata anche al nipote.

Aveva ventisei anni. Era alto, con i capelli scuri e gli occhi chiari. Era cresciuto un po' a Chicago, dove il padre insegnava e s'era risposato, e un po' a Roma, con la madre. La conseguenza di questo affannato andirivieni era che non aveva radici nel nuovo continente e neppure nel vecchio.

Meno che mai ne aveva a Borgo San Rocco, che non conosceva.

Saverio e Alessandro erano fisicamente diversi, ma avevano la stessa impronta d'insieme. Inoltre erano così legati l'uno all'altro che il nipote andava a Pescara, dallo zio, ogni volta che si sentiva in difficoltà.

Stavolta il motivo del viaggio era stata Chiara.

Pochi giorni prima, all'improvviso, la ragazza lo aveva preso da parte e gli aveva detto:

«Mi dispiace, non me la sento più».

E a lui era mancato il respiro.

«Non te la senti più, cosa?».

«Noi due: penso che basti!».

Di spiegazioni neanche a parlarne. Le cose di cuore, del resto, non c'è motivo perché inizino e non ce n'è perché finiscano.

Inutile replicare, insomma.

La sera stessa Alessandro aveva preso il pullman alla stazione Tiburtina e s'era presentato in casa di Saverio, a Pescara, con una brutta aria da cane bastonato.

Per distrarlo, lo zio gli aveva proposto quel viaggio a Borgo San Rocco assieme ai due vecchi.

Ci si dovevano fermare qualche giorno, aveva aggiunto sospirando, perché s'era deciso di mettere in vendita la casa di famiglia. Prima, però, occorreva dividersi l'arredo.

Il giovane aveva accolto con curiosità la proposta ma ora, chi sa perché, avvertiva una certa inquietudine.

Quasi un dolore.

La Mercedes svoltò sulla comunale per Borgo San Rocco. Il paesino era in cima a una collina, a un passo dalle falde della Maiella.

«Dov'è la casa? Si vede già?».

Saverio scosse la testa.

«Non ancora. È sul cocuzzolo, accanto alla chiesa. Non aspettarti molto, però. È disabitata da tanti anni! Dio solo sa in che condizioni si trova. Quand'ero bambino era bellissima. La chiamavo il castello. La strada d'accesso principale è a gradoni bassi e larghi. Sembrano niente e invece arrivi in cima col fiatone. Lì ti trovi davanti a una costruzione che pare quasi piccola. Poi entri e vedi che è grandissima, con stanze, corridoi, scale. Una specie di castello, appunto».

«... E ogni castello ha le sue zone d'ombra, no?».

«Già. Come sai, il nostro ne ha diverse».

Il più inquietante mistero della casa di Borgo San Rocco era uno dei suoi antichi abitanti: Diodato Sarra, protonotario apostolico alla metà del '500.

Del suo passaggio terreno rimanevano scarsi brandelli - poche date, uno o due documenti - ma tutti, in casa, avevano qualcosa da raccontare su un suo enigmatico ritratto capace, si diceva, di vagare per le stanze come un'anima in pena, spesso per annunciare qualche evento significativo per i Sarra.

Il secondo mistero riguardava Andrea, il fratello più giovane di papà Camillo.

Dicevano che era tornato dalla Grande Guerra con la testa sfasata, strana. Poi, un giorno, subito dopo i funerali di uno zio, Sigismondo si chiamava, era sparito assieme alla sorella di latte, una certa Mimmina, senza che nessuno ne sapesse la ragione.

L'avevano fatto e basta.

Da quel momento s'erano cominciate a raccontare su quei due le storie più improbabili: orsi, lupi, incantesimi e fatture. S'era parlato perfino di un tesoro trovato per caso e sperperato a Parigi, da gran signori.

E qualcuno, chi sa perché, aveva parlato perfino di una fuga romantica nell'isola di Zanzibar, con notti stellate e piene d'aromi e giorni infuocati di luce e passione. Insomma sul mistero di quella scomparsa, in paese, s'era detto tutto meno la verità che nessuno diceva solo perché nessuno la sapeva.

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Pagina 86

Per un po' Alessandro continuò a rigirarsi tra le mani il disegno misterioso senza venirne a capo.

Il glifo del Sagittario era sul palmo della mano sinistra della figura, quello dell'Ariete era sulla destra. I piedi poggiavano su Gemelli e Bilancia come su altrettanti piedistalli.

All'improvviso capì.

«Andrea pensava a una relazione fra la casa e il movimento degli astri!».

Ambra lo guardava sconcertata.

«Oggi è il 21 marzo» insistette lui.

«E allora?».

«Oggi il sole entra in Ariete. È l'equinozio di primavera, capisci? La vera ragione per cui il protonotario ha avuto una notte così... agitata è questa!».

«Andiamo, che c'entra il protonotario con l'equinozio?».

«Non lo so, però indicami su questa carta dov'è appesa la tela».

Ambra posò il dito in prossimità del glifo dell'Ariete.

«Più o meno qui».

«Appunto. Oggi è una specie di compleanno del protonotario!».

Si precipitò sull'aia: il sole occhieggiava già tra i rami più alti del fico.

«Raccogliamo fogli e quaderni e andiamo via, presto».

«Perché tanta fretta?».

«Voglio vedere se le cose stanno come immagino».

Chiusero il baule, presero i due quaderni e i disegni, sprangarono la finestra e si precipitarono fuori, verso il querceto le cui chiome erano inondate di sole.

Poi imboccarono il sentiero che portava a casa Sarra.

A metà del colle di San Rocco Alessandro si fermò a riprendere fiato.

Il fiume brillava nell'ombra della valle.

La vetta della Maiella riluceva d'azzurro.

La casa del monte, grazie al verde assolato che la circondava, non sembrava più in abbandono.

«Ti amo» disse ad alta voce.

Ambra si voltò verso di lui, seria in viso.

«Ti amo anch'io, ma già domani sarà come se non fosse vero».

«Ambra, senti...».

«Lascia stare! Non ho mai creduto che sarebbe andata diversamente da come andrà».

Fecero il resto della strada in silenzio.

Appena furono sullo spiazzo davanti a casa videro Sisina che li aspettava sul portone. Le bastò un'occhiata per capire che qualcosa non andava, ma fece finta di niente.

«Hai trovato quello che cercavi?» domandò ad Alessandro.

«Credo di sì» rispose lui.

«Vabbòne. Ai tuoi ho detto che vi ho mandati a casa mia per prendere certe medicine che mi servivano, così non devi dire niente a nessuno».

«Grazie».

Sisina lo squadrò alla sua maniera, tenendolo per un braccio con entrambe le mani.

Forse pensava di dirgli qualcosa, ma lì per lì non lo fece. Invece si voltò a guardare la cima del monte su cui il cielo si andava coprendo di vapori.

Si riscosse solo quando lui fece per andarsene.

«Giorgio, Marta e Saverio ripartono dopo pranzo» gli disse a quel punto. «Se vuoi restare qualche giorno qui, puoi dormire da me. Mi farebbe piacere. Se invece decidi di andartene oggi, riaccompagna a casa Ambra così ci salutiamo».

«Non so ancora che farò, ma grazie dell'invito» rispose lui trascinando la ragazza verso la sala dipinta.

Appena ci entrò, la prima cosa che vide fu che la luce del giorno irrompeva a fiotti dalla vetrata di destra; la seconda fu che il soffitto era in penombra; la terza fu che ciò accadeva perché il sole era già troppo alto per illuminarlo.

La quarta cosa che notò, l'ultima, fu che l'affresco dell'Ariete era abbastanza vicino a dov'era in quel momento il riquadro di luce da confermare l'appunto di Andrea: nei giorni di equinozio - e forse anche di solstizio - il sole nascente irrompeva attraverso la vetrata illuminando i corrispondenti segni dello zodiaco dipinti sul soffitto.

Quanto al protonotario, il ritratto di lui, una volta tanto al proprio posto, si stava crogiolando nel suo annuale bagno di luce.

«È davvero una specie di compleanno» esclamò Alessandro compiaciuto. «Tanti auguri, zi' prévete!».

«Continuo a non capirti» sussurrò Ambra, accigliata per la vaghezza della sua risposta a Sisina.

Ma in quel momento lui era troppo frastornato dalla propria scoperta per rendersi conto del mutato umore della ragazza.

Scrollò le spalle e continuò a fissare il dipinto.

La faccia quasi serena di Diodato Sarra e il suo sguardo stranamente sornione suggerivano che le ragioni di tutto quel complicato gioco di luci e segni celesti erano andate perdute; che nessuno ne sapeva più niente... Tranne lui, il protonotario!

In quel momento un raggio di sole cominciò a riflettersi sullo specchio rotondo e almeno il perché della sua orribile cornice a raggi dorati fu chiaro. Un perfetto succedaneo dell'astro diurno stava illuminando il volto di Apollo che troneggiava al centro del soffitto, un Apollo nudo e splendente che suonava un flauto di canna.

Alessandro scosse di nuovo il capo, quasi incredulo.

"Forse", pensò, "anche l'arazzo del giocoliere ha una sua parte in questa specie d'allegoria delle stagioni".

Chi ci appura, avrebbe detto Sisina...

A ogni modo avevano ragione lei e pure Andrea Sarra e zi' Matteo, l'antico fattore di papà Filippo: ogni mattone, in quella casa, alludeva a qualcosa di così segreto che un'intera esistenza non sarebbe bastata a capirne il senso.

A meno di non averne la chiave, naturalmente.

«Che fai, resti qui ancora un po'?».

Ambra aveva finalmente trovato il coraggio di formulare la domanda che fino a quel momento le si era sempre fermata in gola.

Questo bastò perché Alessandro si riscuotesse rendendosi conto che quanto lo legava a lei e a quella casa era troppo forte: non sarebbe riuscito a opporvisi neppure se avesse voluto.

E non voleva.

Al suo arrivo questo pensiero l'avrebbe spaventato, ora lo rendeva felice.

«Certo che resto» disse. «Adesso, però, vorrei andare in camera mia. Vieni con me?».

Lei sorrise sollevata, poi lo precedette di corsa su per le scale.

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Pagina 139

Seconda parte


Umbra clamat



Prologo



Sono già molti anni che i resti di Nereus riposano al centro della grande macina. Ormai la mia vecchiezza si protrae al di là di quanto io stesso avrei voluto e non ho altro desiderio che raggiungere il mio amico laggiù, accanto ad Andrea Sarra.

Ambra è ancora giovane, bellissima. Peccato per la tristezza che le leggo negli occhi ogni volta che li posa sulle mie mani avvizzite, sul mio viso rugoso, sui miei occhi già velati dal Nulla.

Non riesco a farle credere che va bene così. Che nella vita ho avuto molto più di quanto avrei mai osato sperare.

Solo la siringa paterna riesce a rasserenarla. E io la suono volentieri per lei, capace ormai d'evocare mondi per descrivere i quali non sono state ancora inventate le parole.

Mondi passati o futuri, chi sa.

Talvolta, dalle latebre in cui vive intossicato dalle sue malinconie, persino il protonotario viene ad ascoltare la mia musica. E una o due volte ho visto un sorriso compiaciuto stirare le sue guance esangui.

Ho imparato a non desiderare altro che custodire il segreto racchiuso nel monte di Borgo San Rocco, a non domandarmi più perché o per chi lo faccio.

Questo è il mio destino.

Io in qualche modo l'ho scelto.

Eppure, oggi che il gelo invernale scende dalla cima innevata della Maiella immalinconendomi il cuore, desidero rinvigorirne il sentire ricordando a me stesso alcune storie che Nereus raccontò per farmi capire quanto antico fosse il nodo che lo legava alla mia famiglia e quanto forte, nonostante lo scorrere del tempo.

Eccole, quelle storie.

Spero se ne apprezzi ancora la musica e il profumo.

Musica di vita.

Profumo d'eternità.

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Pagina 143

Scalo il marso



Al calare del giorno le vie del Velabro erano meno sicure del solito. E lo erano anche se la pioggia le impiastrava di rivoli fangosi rendendo più forti e nauseanti gli odori e i vapori che emanavano dal quartiere, più cupi e miserabili i rari edifici di mattoni che sopravvivevano ai fasti severi della repubblica, più fatiscenti e umide le baracche fatte di terra, canne e travi di fortuna.

Quella notte il crepitio della pioggia che veniva giù da giorni faceva da sottofondo a un brusio sommesso, come un vociare di fantasmi rintanati.

Di quando in quando s'udivano urla di ubriachi litigiosi, rumori concitati, risa. E si vedevano figure umane, quasi sempre a gruppi, solcare il buio avvolte in mantelli che ne celavano volto ed età.

All'angolo di un trivio c'era un ubriaco disteso a braccia aperte nella melma.

Era fradicio di pioggia e le gocce andavano lavando via dal suo viso una lordura antica. L'uomo sembrava goderne perché canticchiava farfugliando, con lo sguardo perso nello stesso nulla da cui scendeva l'acqua.

I tresviri di ronda e gli schiavi pubblici della scorta lo scavalcarono senza degnarlo d'uno sguardo.

In altri periodi dell'anno forse si sarebbero fermati a soccorrerlo, ma non quella notte, dopo che da cinque giorni i grandi giochi delle Floralie avevano richiamato dentro le mura di Roma tutta la feccia del Lazio.

Quella notte il fango arrivava loro alle ginocchia, i mantelli e le tuniche grondavano e i visi erano segnati dalla stanchezza dei troppi turni di pattuglia fra la Suburra e il Velabro, tra i dintorni del Circo Massimo e gli alveari umani dell'Aventino.

L'indomani la dea Flora avrebbe avuto il suo trionfo con il duello fra il sannita Vecillo e il reziario Bellione, poi la plebe avrebbe placato la sete d'emozioni nella nudità rituale che le prostitute di Roma avrebbero offerto pubblicamente alla dea.

Solo dopo ci sarebbe stato tempo per il riposo e, forse, per la pietà...

Le fiaccole sfrigolavano a causa della pioggia.

I calzari mordevano la guazza con meno impeto del solito.

I tresviri parlavano fra loro con voci arrochite dalla stanchezza.

«Speriamo che il Tevere non straripi».

«Non ci mancherebbe altro!».

Vibieno, poco più di un ragazzo, batteva i denti dal freddo.

Gli altri due, Scato il Marso e Vacerra, si scambiarono un'occhiata complice.

«Darei i dieci assi del mio soldo di capo ronda per un bicchiere di falerio» bofonchiò il primo.

«E io venti per due salsicce ben cotte» incalzò il secondo.

Se avessero interrotto il giro di ronda per quella ragione l' aedilis Aulo Ostilio li avrebbe fatti scuoiare tutti e tre a frustate, Vibieno lo sapeva bene. Così imprecò contro i compagni e accelerò il passo.

In quello stesso momento un'ombra umana incredibilmente massiccia ingombrò il fondo del vicolo e venne verso di loro con il passo deciso di un toro da combattimento.

«Ecco uno che farebbe fortuna nel circo» borbottò Scato poggiando la mano sull'elsa della daga.

Aveva combattuto contro i barbari delle grandi foreste del nord e i pirati rodi e fenici; era stato ferito due volte in combattimento e aveva incrociato spesso il cammino della morte: sapeva riconoscerne i passi, quando li sentiva.

«Fermati e fatti riconoscere» ordinò.

Tre lame sgusciarono all'unisono dai foderi.

«Fermo, ho detto!».

Il capo ronda strappò la fiaccola dalle mani dello schiavo che gli camminava accanto e fronteggiò lo straniero.

Il gigante era scuro di capelli e vestiva alla maniera dei marinai fenici. Le sue braccia avrebbero potuto fermare senza sforzo la carica di un bufalo pontino. Dal collo spropositato gli pendeva un amuleto d'oro grande quanto un pugno.

Valeva almeno due anni di paga di un tresvir e vi era raffigurato un minotauro circondato da meandri geometrici.

«Sei di Creta?».

Scato aveva usato il greco volgare in uso fra i marinai del basso Mediterraneo.

«No» rispose lo straniero. «Vengo dalla Terra di Mezzo».

Aveva un accento strascicato e sibilante, ma la sua voce era profonda e minacciosa.

«Che razza di posto è la Terra di Mezzo?» domandò il soldato convinto d'aver sentito male.

Il gigante non rispose.

«Eppure a Creta ho visto immagini come questa» insistette Scato allungando la mano verso l'amuleto, cautamente perché il suo gesto non fosse male interpretato.

Le dita dello straniero gli si strinsero attorno al polso.

Avrebbe sentito meno male se gli fosse capitato sotto una macina.

«Meglio se lasci stare il mio amuleto. Si rischia di evocare qualcuno dei seicento Anunnaki di diaspro. E, se accadesse, nessuno di voi si salverebbe...».

Parlava con la stessa intonazione paziente di un adulto che cerchi di spiegare a un bambino come tenersi lontano dai guai.

"Mithra annienti questo bestione", pensò Scato ritirando la mano. Poi si rivolse ai suoi.

«Andiamocene, non credo che costui intenda mettere in pericolo l'ordine notturno».

Pochi secondi dopo la notte ingoiò nuovamente lo straniero. Il drappello di vigili riprese il suo giro di ronda in un imbarazzato silenzio.

«Qualcuno di voi sa cosa sono gli Anunnaki di diaspro?» chiese Vibieno dopo un po'.

«Non ne sono certo» rispose Scato. «Ma devo averne sentito parlare molto tempo fa, ad Alessandria, da un suonatore di sambuca che cantava in un lupanare certe antiche canzoni di Babilonia».

Vacerra scosse il capo, incredulo.

«Non pensavo che la fama delle nostre Floralie raggiungesse anche i confini del mondo...».

«Io invece speravo che i limiti dell'universo fossero molto più lontani di così dalla soglia della mia casa» tagliò corto Scato.

Poi si domandò inutilmente che legame poteva esserci fra Babilonia la leggendaria, Creta, patria del Minotauro, e il Velabro, il più sordido quartiere dello squinternato impero di Aureliano l'Illirico.

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