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| << | < | > | >> |IndicePAJARITA 11 Uno La bambina che ricomparve su un albero 13 Dos Fili misteriosi e sacramenti rubati 58 EVA 105 Tres Voci, facce, bicchiere da vino, tavolo, parole 107 Cuatro L'arte di reinventarsi daccapo 164 Cinco Attraverso acque nere, un mare segreto 207 SALOMÉ 271 Seis Il mondo è spinto da infinite mani 273 Siete Conigli d'acciaio e canzoni che sciolgono la neve 313 Ocho Gemiti, lamenti, fame di sole 371 Nueve Milioni di morbide lingue 402 RINGRAZIAMENTI 441 UNA CONVERSAZIONE CON CAROLINA DE ROBERTIS 443 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Alla fine, quando si decise a scrivere alla figlia — ormai una giovane donna, una sconosciuta per lei, lontana migliaia di chilometri —, Salomé le disse che «tutto ciò che scompare è da qualche parte», come se la fisica avesse potuto far tornare indietro il tempo e salvarle entrambe. Era una massima che aveva imparato a scuola: l'energia non si crea né si distrugge. Niente scompare mai davvero. E siccome anche le persone, in fondo, sono energia, quando non le vedi significa semplicemente che hanno cambiato posto o forma, oppure entrambi. C'è l'eccezione dei buchi neri, che ingoiano le cose senza lasciarne traccia; ma Salomé fece scorrere la penna come se non esistessero. Aveva la gonna bagnata e appiccicata alle gambe, e la penna correva e correva come se la mano non la spingesse affatto, formando le spirali, le punte e gli occhielli delle lettere in corsivo, puntute t e j, y e g annodate alla base come per tenersi insieme, per tenere di nuovo insieme le due donne. Man mano che scriveva gli occhielli si facevano sempre più grandi, quasi ci volesse sempre più corda per riannodare ciò che era stato strappato dentro di lei, e non solo dentro di lei ma anche tutt'attorno e prima di lei, nei giorni di sua madre, nei giorni di sua nonna, nella gran massa di storie che Salomé non aveva vissuto ma che erano giunte fino a lei come fanno le storie: copiosamente, non invitate, a volte in un facile turbinio, altre volte con una forza capace di affogarti o di scagliarti fino in cielo. Altre storie non le erano mai arrivate: erano rimaste non dette. Al loro posto, solo un vuoto silenzio.
Ma, se è vero che tutto ciò che scompare è da qualche parte, allora anche
quelle storie respiravano e scintillavano in
qualche sperduto angolo di mondo.
Il primo giorno di un secolo non è mai come gli altri, men che meno a Tacuarembó, Uruguay, una cittadina piccola come un puntolino sulla carta geografica del paese ma famosa per inaugurare i secoli con un miracolo. Per questo quel mattino i suoi abitanti si svegliarono già carichi, pronti, curiosi, eccitati, alcuni ubriachi, qualcun altro in preghiera, altri ancora all'osteria, o a rubare qualche palpatina dietro un cespuglio, o chini sulla sella, o a preparare il mate cercando di sottrarsi al sonno. Tutti erano ansiosi di dare una sbirciatina alla lavagna intonsa del nuovo secolo. Esattamente un secolo prima, il giorno di Capodanno del 1800, quando l'Uruguay non era ancora nemmeno uno stato ma un semplice brandello di terra coloniale, grandi ceste di bacche porporine si erano materializzate sull'altare della chiesa. Uscite dal nulla, succulente e perfettamente mature, sufficienti a saziare due volte gli abitanti della città. Un chierichetto di nome Robustiano aveva assistito al momento in cui il prete aveva aperto la porta della chiesa e scoperto il dono sotto i piedi del Cristo. Per anni Robustiano avrebbe descritto la faccia che aveva fatto il prete vedendo quelle bacche che sembravano sudare nel sole colorato dalle vetrate, tre ceste grandi come il petto di due uomini messi insieme, con un profumo che si levava come per intossicare Dio. Robustiano aveva passato il resto della giornata, e della vita, a raccontare com'era andata. «È diventato bianco, bianco come un foglio di carta, poi rosso, gli occhi gli si sono rivoltati all'indietro e, pànfete, è caduto a terra! Io sono corso da lui e l'ho scrollato chiamandolo: "Padre, padre", ma era come un sasso.» Anni dopo aveva aggiunto: «Era stato sopraffatto dall'odore. Voi mi capite. Come quello di una donna dopo la soddisfazione sessuale. El pobre padre. Tutte quelle notti da solo... non ce l'ha fatta, quella montagna di bacche calde di sole, nella sua chiesa, era più di quanto un prete potesse sopportare». Donne, gauchos e bambini erano corsi ad abbuffarsi. I banchi della chiesa non erano abituati a tanta ressa. Le bacche erano piccole e tonde, mature e asprigne, diverse da qualsiasi frutto crescesse da quelle parti. Poi, mentre gli abitanti della cittadina si stendevano un po' per una siesta digestiva, un'ottuagenaria era salita sull'altare e aveva raccontato la storia dei miracoli che avvenivano a Tacuarembó il primo giorno di ogni secolo così come a sua volta l'aveva sentita da bambina. «Questo è il nostro miracolo, credete a me», aveva detto. Il suo mento barbuto era macchiato da un convincente succo vermiglio. I miracoli sono miracoli, aveva aggiunto: arrivano non annunciati e sono inesplicabili, e non c'è nessuna garanzia che ti diano proprio ciò che vorresti, eppure li accettiamo; sono le ossa nascoste della vita ordinaria. E aveva raccontato la storia del Capodanno di cent'anni prima, quello del 1700, esattamente com'era stata raccontata a lei, e nessuno aveva una buona ragione per non crederle: quel giorno, canzoni nell'antica lingua degli indigeni tupí-guaraní avevano fluttuato nell'aria da un'alba a quella successiva. Anche se la maggior parte dei tacuarem-boensi aveva sangue misto nelle vene, già allora nessuno capiva più quell'idioma remoto. Eppure i suoni erano inconfondibili: i piccoli scatti gutturali, una cadenza come di corrente agitata dai sassi. Tutti le avevano sentite, le canzoni, ma nessuno aveva potuto trovare il cantore; la musica volava, incorporea, potente, discontinua, nel vento. Pajarita sentì raccontare tutte quelle storie, da bambina: le bacche, le canzoni, la donna con la barba e il mento tinti di porpora. Non aveva la più pallida idea di che suono avesse la lingua dei guaraní. A casa aveva udito sempre e soltanto lo spagnolo di Tacuarembó, il borbottare del fuoco, lo staccato del coltello che affetta la cipolla, il tenue fruscio della gonna di Tía Tita, il vivace lamento della scassata chitarra di suo fratello, la gente fuori, gli zoccoli dei cavalli, le liti fra i polli, suo fratello che sgridava i polli, il continuo piega e pulisci e rimesta e taglia e pulisci e versa di Tía Tita. La quale non parlava quasi mai, tranne quando raccontava storie, e allora era inarrestabile, sfinente e richiedeva un'attenzione assoluta. Le raccontava mentre cucinava. Quelle storie borbottavano e scorrevano tumultuose fuori da lei spandendosi ovunque, riempiendo l'unico vano della loro capanna con i fluidi spettri dei morti. «Devi sapere», disse, «perché tuo fratello si chiama Artigas.» Pajarita capì il segnale e si mise a tagliare la carne per lo stufato. Conosceva i contorni della storia come conosceva la forma del coltello ancora prima di prenderlo in mano. Ma annuì, si avvicinò e aprì le orecchie quasi fossero vere da pozzo. «Si chiama così per via del tuo bisnonno. Qualcuno lo mette in dubbio, ma José Gervasio Artigas, l'eroe nazionale uruguaiano, era mio nonno... Sì, è vero. Proprio così: è stato lui a guidare la lotta per l'indipendenza insieme a gauchos, indigeni e schiavi affrancati. Lo sanno tutti e un'altra volta ti racconterò anche questa storia. Un giorno piantò il suo seme nel ventre della figlia di un gaucho, una ragazza con i capelli lunghi fino alle ginocchia. Analidia. Faceva i migliori sanguinacci di questa sponda del Río Negro. Aveva quattordici anni. Nessuno ti crederà, ma tu non devi lasciartene spaventare: devi essere determinata a tenere viva questa storia. Mira, Pajarita, la carne dev'essere tagliata più piccola. Così.» La guardò finché non fu soddisfatta, poi tornò ad accovacciarsi sulla buca del braciere e attizzò i carboni. La ragazza dai capelli corvini con i sanguinacci in mano volteggiava dietro la sua schiena, traslucida, con gli occhi bene aperti, le mani che si aprivano e si chiudevano sulla carne. «Pues, in una notte del 1820 José Gervasio lavorò sodo con Analidia in qualche fresco nascondiglio, appena prima di essere sconfitto dai brasiliani. Quindi scappò nelle foreste del Paraguay e nessuno lo vide più. Analidia partorì una bimba perfetta. Esperanza. Mia madre. Lo ricordi, il suo nome? Era forte come un toro da rodeo. Quando crebbe si innamorò di El Facón, quel gaucho pazzo di tuo nonno. Era nato come Ricardo Torres, ma non gli ci volle molto tempo per conquistarsi il suo vero nome. Nessuno maneggiava il coltello facón come lui. Vorrei vedere gli angeli a provarcisi.» Pajarita, tagliando tagliando, vedeva suo nonno, El Facón, come un giovane gaucho con il facón puntato contro il cielo, la lama scintillante che sgocciolava sangue rosso e fresco. «In quei tempi lontani, prima che nascessimo io e tuo padre, El Facón era famoso per la dolcezza della voce, l'indole sensibile e la mira letale. Vagabondava liberamente per tutta la regione con il suo facón e le sue bolas e il suo lazo, dava la caccia alle mandrie e ne portava la carne e le pelli ai porti del Sud. Laggiù comprava sempre doni per Esperanza, gioielli provenienti dall'India e da Roma, ninnoli appena sbarcati da esotiche navi; ma a lei non importava. Quelle cose belle andavano ad ammucchiarsi in un angolo della capanna. Più di tutto lei avrebbe desiderato averlo accanto e soffriva molto. Anche quando nacqui io era sola. Stava male ogni volta che leggeva le foglie degli infusi di ombú e di ceibo, che contenevano terribili minacce. Minacce ovvie. La guerra era dappertutto. A ogni stagione arrivava un nuovo tiranno, raccoglieva un esercito, ne schiacciava un altro, prendeva il potere, lo perdeva. Giovani uomini si massacravano l'un l'altro e i pezzi venivano gettati ai cani. Il sangue versato era così tanto che la terra doveva esserne diventata rossa. Non fare quella faccia, Pajarita. Guarda, l'acqua bolle.» Pajarita si accovacciò accanto alla buca arroventata del focolare e gettò la carne nella pentola. Era carne di manzo, non di giovane soldato. Il sole al tramonto laccava il sudicio pavimento, il tavolo, le pelli per dormire; presto sarebbe stata ora di accendere la lampada. «Dunque eccoli lì, El Facón ed Esperanza, impegnati a costruire la loro vita insieme in una regione lacerata dai combattimenti. Poi arrivarono i fratelli Saravia. Aparicio e Gumersindo... era segnato, quel Gumersindo... che raccolsero il loro esercito proprio qui, a Tacuarembó. Erano assolutamente determinati a liberarci dell'ultimo tiranno, sicuri di vincere. Tuo nonno, El Facón, credette a tutto ciò che gli dissero e li seguì fin fuori dall'Uruguay, in Brasile, sui campi di battaglia. Laggiù vide cose sulle quali non si lasciò mai sfuggire nemmeno un sospiro e che giurò di non riferire neppure all'inferno. Perché il diavolo stesso ne avrebbe orrore, diceva. Quindi non ne sappiamo niente. Ma sappiamo che seppellì Gumersindo con le sue mani e che poi vide il nemico riaprire la fossa, tagliargli la testa e portarla in parata. Bene. Tre anni dopo El Facón tornò da Esperanza. Costruirono il loro ranchito, quello stesso in cui ci troviamo ora, e qui nacquero tuo padre e tuo fratello Artigas. Ecco perché lo hanno chiamato così.» Tía Tita mescolò lo stufato e tacque. Dentro di sé, mentre lavava ciotole e coltelli, Pajarita brulicava (di teste mozzate e capelli lunghissimi e gemme venute dal mare). | << | < | > | >> |Pagina 63Coco tese a Pajarita un bel pacchettino di carta. «Benvenuta a Punta Carretas.»Ci tornò il giorno dopo e il giorno dopo ancora, e nel giro di una settimana già si fermava per l'ora della siesta a casa di Coco, sopra la carnicería, a chiacchierare e a bere mate intanto che il negozio era chiuso. Il marito di Coco, Gregorio, si fermava da basso a tagliare, disossare e appendere la carne. La loro bambina, Begonia, gattonava sul pavimento. In tempi in cui la giornata lavorativa cominciava prima dell'alba e finiva dopo il tramonto, l'ora della siesta a casa di Coco era un rifugio, una zattera di tempo, un sacramento rubato per le donne che ci andavano. Il soggiorno dei Descalzo era pieno di ninnoli e ammennicoli colorati, compreso un autentico servizio da tè inglese custodito gelosamente sulla mensola del caminetto. Coco era molto orgogliosa delle sue tazzine e dei suoi piattini, che se ne stavano a raccogliere la polvere mentre la routine quotidiana veniva svolta dal solito porongo di sempre. Sopra il servizio da tè era appeso un ritratto di José Batlle y Ordóñez, l'ex presidente, colui che, come Pajarita riuscì a capire dalle conversazioni, con i suoi pensieri, le sue leggi e le sue parole aveva trasformato l'Uruguay in una nazione moderna e democratica. Nella fotografia incorniciata d'argento si vedeva un uomo robusto, dalla mascella volitiva, che fissava con espressione grave un punto alla destra dell'obiettivo. C'era sempre un grande vassoio di bizcochos, i cui strati di pasta dolce si fondevano nella bocca delle donne di Punta Carretas. E che donne. Sarita Alfonti, per esempio, con il suo immancabile profumo di vaniglia, la sua risata come di pentole sbattute e le mani che fendevano l'aria mentre parlava. O la Viuda, vedova da talmente tanto tempo che il suo vero nome nessuno lo ricordava più; sedeva in un angolo, sulla sedia a dondolo, e approvava o disapprovava i commenti delle altre con un gesto della mano. O María Chamoun, i cui nonni erano arrivati in Uruguay carichi delle spezie del Libano, il loro paese natale. A volte sembrava ne avesse ancora il profumo, tenue e sbiadito, un aroma dalle mille sfumature che Pajarita associava al ricordo di ombre estive. María aveva i capelli come la criniera di uno stallone di razza, scuri e lucenti. Aveva perfezionato al massimo l'arte di preparare gli alfajores al nieve: i due biscotti erano morbidi e sottili, la crema di latte li teneva uniti con calibrata dolcezza, lo zucchero a velo vi aderiva con delicata tenacia. María Chamoun assisteva al loro consumo con l'orgoglio di una campionessa che non tema rivali. Clarabel Ortiz, la Divorciada, stava quasi sempre reclinata sui cuscini del divano: a Punta Carretas era la prima che avesse osato esercitare il suo diritto legale al divorzio. Nel soggiorno di Coco quel fatto le dava una certa notorietà e un'impalpabile aura di mistero. Aveva il viso pallido e le labbra dipinte di rosa, il corpo piatto come un'asse. Ogni tanto, nella sua casa tornata solo sua, teneva sedute spiritiche. Alcune donne si univano a lei. Altre la deridevano. «Mmm! Farete ballare le tazze, stasera?» «Non è che ballino sempre, Sarita, e tu lo sai bene.» «Sta' calma. Io, i miei morti, preferisco lasciarli in pace. Anche se fosse possibile evocarli, e non lo è, perché dovrei farmi venire ulteriori mal di testa?» «Espera. Pero no.» La Viuda alzò la mano. «Seduta spiritica o no, i morti ci sono per qualcosa di più di un mal di testa.» Nella stanza calò il silenzio. Coco prese il mate dalla mano di Pajarita. Ci versò l'acqua e lo passò a María Chamoun. «Avete sentito?» disse María. «La nipote di Gloria è stata beccata al faro sdraiata sotto un ragazzo.» Abbassò la voce. «Pare avesse la camicetta sbottonata.» «Esa chica!» «Ha creato problemi fin dalla nascita.» «Ho sentito dire che suo padre le ha dato una bella cinghiata.» «E comunque quel ragazzo non lo vedrà mai più.» «Mi sembra tutto un po' exagerado. Cosa c'è di male se ha un fidanzato?» «Clarabel! Tu hai sempre le idee più bizzarre!» Clarabel pensava che le donne avrebbero dovuto anche votare e che ben presto ne avrebbero conquistato il diritto. Nel frattempo faceva esercitare le sue amiche raccogliendo il loro voto su bigliettini di carta rosa profumata che poi metteva in una cesta e mandava in municipio. Il gruppo stava ancora discutendo della recente elezione del presidente Viera. «Io non ce l'ho fatta a scrivere il suo nome.» «Che alternativa c'era?» «Certo non è Batlle, ma si sa che nessuno potrà più essere come lui.» «Bah. Ha cercato di bloccare la legge per la giornata lavorativa di otto ore. Fortuna che ormai era troppo tardi.» «Bene, grazie a Batlle adesso l'abbiamo.» «E l'istruzione. E le pensioni.» «E il divorzio.» «E la pace.» La mano della Viuda svolazzò come un ossuto uccellino. «Grazie a Dio, una tregua dai colpi di stato e dai bagni di sangue. Il secolo passato è stato terribile. Io me lo ricordo.» | << | < | > | >> |Pagina 182Nel nocciolo più interno della sua mente, il dottor Roberto Santos aveva archiviato il suo imminente matrimonio in un cassetto con l'etichetta COSE GIUSTE DA FARE. Un posto perfettamente ragionevole per metterci un matrimonio. Che senz'altro avrebbe portato felicità, e non solo a Cristina Caracanes, che aveva fatto arrivare dall'Italia chilometri di pizzo veneziano che a lui era proibito vedere, ma anche a sua madre e a suo padre. Quel matrimonio avrebbe sicuramente dato lustro al nome di famiglia, invece di infangarlo. Infangare il nome di famiglia era una tradizione per i Santos, e i suoi genitori avevano dedicato tutta la loro vita alla missione di infrangerla. Sua madre, Estela, da sempre era ossessionata dall'idea di «rompere l'incantesimo»: lo diceva come se la loro vita fosse imprigionata in un castello custodito da un drago, come se lei stessa fosse stata una Bella Addormentata prima che Reynaldo Santos la trovasse seduta a sventagliarsi accanto ai mai completati binari ferroviari che dovevano attraversare le pampas. Lei era figlia del padrone della New World Railroad Company; lui invece era soltanto un ingegnere civile che la New World aveva assunto per sovrintendere alla messa in opera dei binari. Reynaldo era rimasto subito affascinato da come i sottili capelli di lei scappavano dalla crocchia per sferzare il vento. Lui aveva studiato, ma non possedeva terre. Nelle sue vene scorreva un sangue fra i più blu di tutta la Spagna – le radici della sua famiglia si potevano tracciare fino a un secondo cugino di Ferdinando d'Aragona –, ma quella illustre storia era stata infangata da suo padre, detto Llanto, ultimo membro vivente della Mazorca, la polizia segreta di Juan Manuel de Rosas. Vi era entrato nel 1848, quando il dittatore aveva dovuto accrescere la sua banda di assassini per tenere il passo con l'esigenza di seminare il terrore. A quell'epoca la Mazorca aveva talmente tanti obiettivi da vedersi costretta a reclutare nuovi membri anche tra i figli dei precedenti. Llanto aveva solo sedici anni quando fu arruolato, ma ben presto era diventato maestro nell'arte di tagliare la gola a una dozzina di persone inginocchiate in fila con una sola, lunga coltellata; di costringere un violinista a continuare a suonare davanti a un mare di sangue; di infilzare le teste sulle picche e lasciarle per una settimana in plaza de Mayo a guardare allocchite i passanti. Prima di compiere vent'anni, Llanto aveva ucciso più di duecento fra uomini e donne e ottantasette bambini. Poi il dittatore era stato deposto e Llanto, coperto di vergogna, era stato esiliato in una baracca nella piana fuori Rosario. A sessant'anni compiuti, infine, era tornato a Buenos Aires per cercarsi una moglie rispettabile e l'aveva trovata in Talita, vedova di soli ventidue anni, con la quale aveva generato il suo primo figlio legittimo: Reynaldo, l'ingegnere civile. Che era cresciuto con il tormento di quell'eredità familiare, deciso a cambiarla nell'intero arco della sua esistenza; come se fosse possibile grattar via da un nome di famiglia il sangue e la vergogna, e come se proprio le azioni dei discendenti potessero fare da spazzolone. Per questo aveva sposato la fanciulla più pura che era riuscito a trovare, quella che si sventagliava in silenzio accanto a binari sui quali ancora non era passato nessuno. E sulle membra neonate del suo amore lei non aveva avvertito il peso della macchia dei Santos se non dopo la fine della luna di miele a Rio de Janeiro.Roberto Santos, invece, l'aveva sempre saputo. Era stato allevato per portare avanti la missione di suo padre. Che gli diceva sempre: «Mira, Roberto, nella vita sono solo tre gli eventi che contano per davvero. Lo sai quali sono?». «Sì», rispondeva lui aspettando il resto. «La nascita. Il matrimonio. La morte. Tutto qui. E pensaci bene: su quale di questi tre eventi possiamo esercitare il nostro controllo? Solo sul matrimonio. Dunque cerca di scegliere bene.» Per anni, in realtà, Roberto non aveva scelto affatto. Gli sembrava una decisione troppo minacciosa, come un treno che svoltando in una direzione piuttosto che in un'altra potesse trascinare chissà dove i vagoni di un centinaio d'anni. Tutta quella pesante storia di ferro attaccata alla sua schiena. Aveva preferito tuffarsi nello studio, per tutti gli anni della scuola e anche oltre, diventando un ottimo studente e poi un ottimo medico e infine un grande ricercatore. Il suo nome era diventato fonte d'orgoglio nazionale nel mondo degli scienziati, degli intellettuali e più recentemente anche dell'élite peronista. Ma non era abbastanza. I suoi genitori volevano un matrimonio; Roberto era il loro unico figlio. Ormai c'era quasi; aveva scelto Cristina Caracanes, con i suoi capelli dalle onde perfette, il rigido sorriso da bel mondo, i tè eleganti e i balli di beneficenza per gli orfani con le teste rapate e le scodelle di latta con cui chiedere l'elemosina. Il suo lignaggio era impeccabile e così pure la pieghettatura delle sue gonne. Era stato suo padre a suggerirgliela, un buon suggerimento, o così almeno pensava Roberto. Le aveva fatto visita nel suo salotto, aveva sorseggiato con lei del tè inglese nella luce pomeridiana e ogni volta aveva avuto l'impressione di piacerle. O, per lo meno, le piacevano gli articoli di cronaca rosa in cui si parlava del loro fidanzamento. Era la più giovane di tre sorelle e, a ventiquattro anni, piuttosto ansiosa di sposarsi. Somigliava un po' a un cavallo e rideva come un passerotto. Era corretta e appropriata e vivace e noiosa, tutto il contrario di quell' uruguaya che aveva invaso il suo mondo su una sedia a rotelle buttando in giro poesie come minuscole bombe. Il destino, pensò, aveva dimostrato un pessimo senso dell'umorismo, il genere di umorismo che non viene ammesso alle feste eleganti, mandando quella strana paziente proprio nel suo reparto. Regalandogli un caso così perfetto per il suo campo d'indagine nella forma di una donna tagliente e brillante come un vetro rotto, e altrettanto attraente e pericolosa. Con lei fu imprudente come non mai, avrebbe proprio dovuto fermarsi, non stava bene che andasse in camera sua tre volte al giorno e le somministrasse le pillole con le sue stesse mani. Era più di quanto avesse mai fatto con gli altri suoi pazienti. Era per la sua pelle. No, per la sua bocca. No. Per il suo modo di muoversi, che sembrava trasformare anche la più tetra vestaglia d'ospedale in un abito di seta (i nervi, la bile). Forse per la sua fragilità. O per la sua lingua. Contava i minuti che lo separavano dal momento in cui avrebbe potuto toccare di nuovo quella lingua calda e umida. «Le sue pillole, señorita.» Aspettò che alzasse gli occhi dal suo scribacchiare. Lei sorrise e aprì la bocca. Le dita gli pizzicarono e gli bruciarono mentre posavano le tre pilloline rosa su quella soffice umidità, fecero una piccolissima pausa, poi si ritrassero, riluttanti, mentre lei rimetteva la lingua in bocca e piegava la testa all'indietro per bere un sorso d'acqua esponendo il collo nudo. «Gracias», mormorò. «Lei è molto gentile.» Scriveva ferocemente e a volte lui restava sulla porta a guardarla. Appoggiata ai cuscini, il quadernetto sul vassoio, le sopracciglia contratte per la forza dell'ispirazione. Che caso affascinante. Non riusciva a individuare uno schema preciso in quei raptus creativi. Eva era come un gatto selvatico: elegante, irrequieta, mutevole... e anche intelligente, molto più di Cristina con i suoi pettegolezzi banali. Impossibile immaginare Cristina circondata di poesie sue. Ma impossibile anche immaginarla su una sedia a rotelle, circondata dai più malati e dai più poveri della città. Lo inquietava chiedersi da dove poteva essere sbucata fuori quella ragazza. Di solito non pensava molto al mondo a cui i suoi pazienti appartenevano fuori dall'ospedale, ai grumi e alle scorie della loro vita quotidiana. E anche Eva preferiva coniugarla al presente, pensarla come un pesce sputato dalle fauci del mare: allora il suo ospedale era come una spiaggia asciutta dove lei brillava e agitava la coda in cerca d'aiuto, ma che non avrebbe mai costretto lui ad assaggiare il sale dell'annegamento. Il mondo di Eva e il suo non erano fatti per mischiarsi. Mai. Proprio per questo una settimana prima gli argentinos della sua classe — e tanto più quelli della classe di Cristina — avevano provato un brivido d'orrore nell'apprendere che Perón sposava Eva Duarte. Perché una cosa è ammettere una donna del genere alla condizione di amante, ma farne la propria moglie o addirittura, se lui avesse vinto le elezioni, la first lady! «Cosa sta succedendo a questo paese?» aveva detto Cristina con un gemito facendo tintinnare la tazza di porcellana contro il piattino. Roberto aveva annuito e lei era andata avanti con quella lagna. Chissà. Chissà se anche Eva era l'amante di qualcuno. | << | < | > | >> |Pagina 218Eva poté comunicare a Roberto la bella notizia solo molte ore dopo, in macchina. Fuori, la pioggia si era finalmente concessa di cadere dal cielo. E scendeva fittissima. Eva prese la mano di suo marito. «Lucio Bermiazani vuole vedere il mio lavoro. Penso che mi pubblicherà.»Roberto le diede un bacio in fronte. «Molto bene.» Non era la reazione che aveva sperato. Suo marito era un brav'uomo. Aveva fatto tantissimo per lei. Aveva smontato la sua vita e l'aveva ricostruita in una forma del tutto nuova solo per stare con lei. Erano entrambi consapevoli di questo debito, troppo grande per essere mai saldato. Eva gli strinse la mano e guardò attraverso il finestrino Buenos Aires fradicia di pioggia. Portoni riccamente ornati si aprivano per eleganti padroni di casa in cerca di calore. In un vicolo due giovani innamorati si stringevano sotto un unico ombrello, ridendo. Orgogliosi lampioni di ferro proiettavano vaghi globi di luce. Immaginò il suo libro in sontuosi dettagli: la costa, le pagine di un caldo color crema, il vernissage con cui avrebbero festeggiato la sua uscita. Ci sarebbero stati champagne, fiori colorati, un fiume di gente. Forse sarebbe venuta anche Soledad Del Valle. EVA SANTOS, avrebbero scritto i giornali, LA POETESSA CHE HA FATTO USCIRE LA DEL VALLE DAL SUO NASCONDIGLIO. Tutta Buenos Aires avrebbe brindato e sorriso e l'avrebbe avvolta con le sue grandi braccia. Fuori dall'auto le strade stavano cambiando aspetto e sfoggiavano ormai le grandi ville della Recoleta. L'acquazzone batteva sul tettuccio di metallo sopra le loro teste. Piovve per due giorni interi. La pioggia si intensificò, si attenuò, tamburellò, si intensificò di nuovo. E sembrò raggiungere il suo apice la terza notte, all'una e un quarto, quando il dottor Caribe si presentò alla loro porta. Eva e suo marito rimasero sorpresi quando María, la balia, bussò alla porta della loro camera da letto per dire che qualcuno stava suonando. Si erano appena ritirati. Inginocchiata sul pavimento, Eva stava slacciando le stringhe della seconda scarpa di suo marito. Alzò gli occhi verso di lui nella fioca luce della stanza. «Aspettavi qualcuno?» «No, certo che no.» Scarpe riallacciate, colletti raddrizzati, la coppia scese l'ampia scalinata rossa. Che discussioni c'erano state per quel tappeto rosso; Roberto l'avrebbe voluto di uno smorto, inoppugnabile beige, ma Eva aveva tenuto duro e alla fine aveva conquistato il suo rosso: rosso Diablita, lo chiamava fra sé e sé, come il velluto delle sedie su cui era diventata poetessa. Eva si fermò sull'ultimo scalino e guardò suo marito attraversare l'ingresso. «Chi è?» «Antonio.» Roberto aprì. Il dottor Caribe, fermo sotto un ombrello nero, si afferrò alla maniglia come se fosse l'unica cosa in grado di ancorarlo a terra. «Prego, entra.» L'ospite entrò e chiuse l'ombrello con uno scatto. «Chiedo scusa per l'intrusione.» «Non dire sciocchezze. Tu sei sempre il benvenuto. Tutto bene, vero?» «No.» «Tua moglie...?» «Sta bene. E anche i bambini stanno bene. Non riuscivo a dormire. E non sapevo dove altro andare.» Roberto prese il soprabito e il cappello del suo amico e li passò a Eva, che li appese all'appendiabiti. «Vuoi qualcosa da bere?» In salotto Eva versò del cognac in tre coppe e sedette sul divano accanto al marito. Il dottor Caribe prese posto davanti a loro sul divanetto a esse, i capelli fradici, gli occhi vetrosi. L'ultima volta che Eva l'aveva visto era stato quattro mesi prima, per il suo sessantesimo compleanno. I brindisi erano stati molti e commossi, e 'avevano fatto arrossire a più riprese. Quella notte invece il suo viso era pallido; sembrava vecchio, logoro, tormentato. Un dolore sottile le si insinuò nei seni. «Abbiamo sentito la tua mancanza, l'altra sera alla Casa Rosada», disse Roberto. Il dottor Caribe non disse niente. Il silenzio riecheggiò, enorme, imbarazzante. Sul tavolino da caffè fra la coppia e l'ospite c'era un vaso di rose bianche, immobili, impassibili. Eva guardò la carta da parati, con i suoi verdi e violetti e le contadinelle francesi danzanti sotto alberi d'oro. La pioggia ruggiva contro i vetri. «Lo leggi, il "Democracia"?» chiese il dottor Caribe. «A volte.» L'ospite guardò Eva. «Sì.» «Allora avrai visto questo.» E tirò fuori un ritaglio dal taschino della giacca. Era la foto di un giovane dalla faccia magra, serio, che guardava dritto davanti a sé sotto un titolo a caratteri cubitali: SVENTATO MALIGNO COMPLOTTO CONTRO PERÓN! LA POLIZIA ARRESTA IL TRADITORE IN UNO SCONTRO A FUOCO. La foto era quella del traditore, uno studente che aveva cospirato con l'ambasciata degli Stati Uniti per abbattere il regime di Perón. Eva aveva letto l'articolo qualche giorno prima, incuriosita dal nome del traditore: Ernesto Bravo. L'aveva riletto una seconda volta per assicurarsi che non fosse l'Ernesto che aveva conosciuto lei, lo studente di medicina, ma no, non era la stessa persona. Roberto annuì. «Ne ho sentito parlare. La polizia ha arrestato un giovane con l'accusa di tradimento.» «È quello che hanno detto, ma è una menzogna.» Il dottor Caribe fissava il fondo del bicchiere. Strinse le labbra come per trattenere una parola tossica. Fece ruotare il cognac nel bicchiere una, due volte. «Dottor Caribe», disse Eva gentilmente, «cos'è successo?» Lui svuotò il bicchiere tutto d'un fiato. «Cinque settimane fa sono stato convocato dalla polizia. Sono il medico dei detenuti. Ladri, assassini, prostitute. Per questo ero sicuro di sapere cosa mi dovessi aspettare. Bene. Quando sono arrivato alla centrale, mi hanno presentato alla Sezione speciale della polizia federale. Per loro non avevo mai lavorato.» Una pausa. «Mi hanno fatto entrare in una stanza buia. Sul pavimento di cemento, riverso, c'era un joven magro. Svenuto. Tutto coperto di sangue, con un profondo taglio alla testa. Aveva la faccia così tumefatta che, ve lo giuro, nemmeno sua madre l'avrebbe riconosciuto. L'ho visitato, aveva fratture alle costole e alle dita. Aveva perso molto sangue. «Mi hanno detto di pulirlo e di rimetterlo in sesto... ma senza portarlo in ospedale. "Non è possibile", ho ribattuto io. "E in condizioni critiche; dev'essere ricoverato." L'ufficiale mi ha guardato sogghignando. "Lei si limiti a riaggiustarlo", ha detto. Un secondo ufficiale mi ha preso in disparte. "Guardi", mi ha detto, "le cose stanno così. Il pestaggio non era autorizzato. Necessario, certo, ma sicuramente non una cosa da sbandierare in giro. Il ragazzo starà qui fino a quando non sarà, come dire... presentabile. È questo che deve fare." Io ho protestato, un po'. "E se non lo faccio?" L'ufficiale allora si è spazientito e ha detto: "Allora forse non lo farà nessuno".» Il labbro superiore del dottor Caribe tremò. Delicato come sempre, Roberto distolse lo sguardo. I seni di Eva formicolavano, pieni di latte; immaginò di tirare a sé il dottor Caribe sopra il tavolino, oltre le rose, sul suo petto, come avrebbe fatto con un bambino che si fosse sbucciato un ginocchio. «Va tutto bene, dottore.» «No, non va affatto bene.» Il medico si guardò le mani. «Mi vergogno di confessarvi che sono rimasto. Il ragazzo avrebbe avuto bisogno di cinque dottori ma, se io me ne fossi andato, non ne avrebbe avuto nemmeno uno. Così ho cominciato a pulirlo. Ci ho messo tutta la notte. A metà del lavoro, ho sentito gli ufficiali parlare fuori dalla porta. Il primo proponeva di uccidere il joven e di farlo passare per un incidente stradale. Il secondo sembrava indeciso. Parlavano di lui come di un tappeto vecchio, da tenere o da buttar via. Pensavo che avrei vomitato lì sul pavimento. «A quel punto, ovviamente, avrei dovuto andarmene. E rifiutarmi di tornare. Invece ho pensato: "Cosa mi farebbero? Cosa farebbero al ragazzo?". Dio mio, sono stato un tale vigliacco.» Il dottor Caribe fissava un punto sopra la spalla di Eva come se la piccola cella di ferro e cemento fosse stata proprio là, dietro di lei. «Quel ragazzo era diventato tutto per me. Quando non dormivo, stavo con lui. E quando dormivo riempiva i miei sogni. In sogno, a volte, si trasformava in mio figlio... hanno quasi la stessa età. Bene. Nel giro di quattro giorni ha ripreso conoscenza. Gli ufficiali gli hanno bendato gli occhi perché non mi vedesse e mi hanno assegnato uno pseudonimo da usare in sua presenza. Avrebbero voluto portarlo via dalla prigione, ma era ancora troppo debole. Ci sono voluti altri cinque giorni per stabilizzarlo e renderlo trasportabile. «L'abbiamo portato in una casa in periferia. Un posto segreto usato dalla polizia per... per fare ciò che vuol fare. L'avevano attrezzato per la sua convalescenza. Man mano che guariva, la sua faccia mi ricordava sempre di più quella di mio figlio. Non mi parlava mai, tranne che per chiedermi da mangiare o un po' d'acqua o di aiutarlo a cambiare posizione sul letto a cui era ammanettato. Ovviamente era stata la polizia a ingiungergli di non parlare. L'aveva imposto anche a me. Io mi torturavo all'idea che potesse disprezzarmi. Che pensasse che ero uno di loro. Avrei voluto spiegarmi con lui, sarei voluto fuggire. Invece ho continuato a obbedire. «Sono passate così tre settimane. Finalmente è arrivato l'ordine che fosse rilasciato. Era tutto finito. Ho pensato di averlo salvato e di aver salvato me stesso. Mi sarei lasciato tutto quanto alle spalle. Sono andato a casa e ho dormito ventidue ore filate. «Il mattino dopo ho letto quel titolo su "Democracia" e il porongo mi è quasi sfuggito dalle mani. E così che sono venuto a sapere come si chiama il ragazzo.» Sollevò il ritaglio di giornale. «Ernesto Bravo.» A Eva dolevano i seni, erano troppo pieni e spingevano rabbiosi contro ciò che li comprimeva. «Ma... non capisco.» Il dottor Caribe sventolò l'articolo con la fotografia. «Quel ragazzo non può aver complottato contro il governo. L'ho avuto in cura per settimane. L'hanno incastrato.» Eva si appoggiò ai cuscini del divano cercando di non deglutire niente, né saliva né aria né ciò che riempiva lo spazio fra loro. Le contadinelle francesi della tappezzeria erano ridicole, tutte allegre a saltellare qua e là come se nel loro bell'albero d'oro non ci fosse niente che non andava. Ridicole; eppure le sarebbe piaciuto essere come loro, poter continuare a ballare, tenersi stretto ciò che era lucido e brillante e degno di dedizione. Eppure qualcosa, una ferita, si era aperto nella sua casa. Un medico crolla accanto a un vaso di rose bianche; un ragazzo viene brutalizzato fino a diventare irriconoscibile; contadinelle danzano attorno a un albero dipinto il cui vero tronco, intrappolato all'interno, muore. «Mi dispiace», disse. La voce del dottore era sottile, quella di un bambino che si è sbucciato un ginocchio. «Non so più cosa fare.» «Antonio.» Roberto si chinò verso di lui. «Non devi più pensarci.» «Non ci riesco. Ho tradito tutto... la mia professione, la mia coscienza. Perfino mia moglie, che si domanda perché non dormo più. Se non faccio qualcosa per raddrizzare questo torto, so che mi distruggerà.» Eva sorbì la sua faccia smunta e gli credette. Roberto invece sembrava diffidente. «Cosa pensi di fare?» «Voglio dirlo alla gente. Con te al mio fianco. Ho bisogno del tuo consiglio.» «No.» Il corpo di Roberto saltò quasi giù dal divano. «Metteresti in pericolo il tuo lavoro, la tua famiglia... tutto.»
«Lo so.»
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