Copertina
Autore Jacques Derrida
Titolo Sulla parola
SottotitoloIstantanee filosofiche
Edizionenottetempo, Roma, 2004, , pag. 168, cop.fle., dim. 140x200x11 mm , Isbn 978-88-7452-030-5
OriginaleSur parole. Instantanés philosophiques [2002]
TraduttoreAlfonso Cariolato
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe filosofia , biografie
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Indice

Avvertenza                                    9

Nota dei curatori                            11

A voce nuda                                  15

Sull'ospitalità                              77

Sulla fenomenologia                          89

Sulla menzogna in politica                  107

Sul marxismo. Dialogo con Daniel Bensaïd    135

Giustizia e perdono                         145


 

 

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Pagina 15

A voce nuda


DOMANDA: È un compito temibile quello di doverla presentare. Qualunque cosa dica, cadrei nell'aneddoto o in quelle vuote categorie universalizzanti che non ha mai smesso di criticare, come se affermassi che lei è il padre della decostruzione. Se poi dico che basta leggere un passo qualunque dei suoi testi per vedervi diramare tutta la ricchezza delle sue riflessioni, lei mi può rispondere che lascio intendere che da quarant'anni non fa che ripetersi, anche se con lei la ripetizione ha acquisito un valore filosofico. In definitiva, so già che avrei sempre torto a darle ragione.

Alla maniera di Kant, potrei dire: "Jacques Derrida è nato il 15 giugno 1930 a El-Biar, nei dintorni di Algeri, vive, scrive e scriverà ancora". Tuttavia, sono obbligata a constatare come ciò che costituisce il filo conduttore piú esplicito del suo percorso intellettuale si iscriva, si scriva, nei suoi testi direttamente attraverso il filtro dell'autobiografia.


J.D. – È vero che, ripetendomi, spostandomi, perché quel che mi interessa è lo spostamento nella ripetizione, non ho cessato di avvicinarmi a una scrittura di cui spesso si dice che è sempre più autobiografica. Se è vero che i primi testi che ho pubblicato non erano in prima persona e si conformavano, con qualche scarto, a modelli piuttosto accademici, già nel corso degli ultimi due decenni, in una modalità nel contempo fittizia e non fittizia, i testi in prima persona si sono moltiplicati: atti di memoria, confessioni, riflessioni sulla possibilità o l'impossibilità della confessione... sono convinto che in una certa misura ogni testo sia autobiografico, e questa "tesi" si ritrova all'interno di questi scritti cosiddetti autobiografici. Di conseguenza, direi che ciò che è variato nella ripetizione non è il rapporto con l'autobiografia o il passaggio da testi non autobiografici a testi autobiografici, ma una certa modulazione, una certa trasformazione del tono e del regime dell'autobiografia. Credo, infatti, che bisognerebbe diffidare tanto dell'apparenza non autobiografica dei testi cosiddetti antichi, quanto dell'apparenza autobiografica dei testi cosiddetti recenti. In Mémoires d'aveugle, il testo che ho scritto per la mostra del Louvre, tento di dimostrare in che cosa persino quadri che non sono autoritratti siano autoritratti e, quindi, come in ogni caso la distinzione non sia piú cosí pertinente come si crede.


D. – Dunque lei è nato in Algeria, ha frequentato la scuola materna e poi la scuola elementare di El-Biar tra il 1934 e il 1941. Quegli anni corrispondono anche all'inizio della guerra e alla petainizzazione della scuola in un'Algeria che non aveva mai visto un soldato tedesco, che non era mai stata occupata, ma dove lo statuto degli ebrei era già problematico, se si era dovuto attendere il 1875 e il decreto Crémieux perché avessero diritto alla cittadinanza francese.

Come ha vissuto questi eventi? Che cosa passa per la testa di un ragazzino in un momento come questo?


J.D. – Ho difficoltà a rispondere a questa domanda; e non soltanto perché in questa storia le cose sono intricate, ma anche perché ancora oggi non so bene che cosa passava, come dice lei, per la testa di questo ragazzino. Tento spesso di ricordare, al di là dei fatti documentati e dei punti di riferimento soggettivi, che cosa potevo pensare, sentire, provare in quel momento, ma nella maggior parte dei casi questi tentativi falliscono. È per questo che ricostruisco. Si ricostruisce sempre, ma qui la ricostruzione è spesso astratta. Quello che so è il 1934: asilo, sofferenza estrema.

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Pagina 32

J.D. – Senza rinunciare alla filosofia, ero interessato a restituire i loro diritti a quelle questioni reprimendo le quali la filosofia si era costituita; la filosofia in ogni modo intesa in ciò che ha di prevalente, di egemonico. Ciò che vi è di egemonico nella filosofia si è costituito attraverso il misconoscimento, il disconoscimento, la marginalizzazione delle questioni che alcune opere letterarie permettono di formulare, e che sono i corpi stessi degli scritti letterari. Ho tentato di rendere piú penetrante la responsabilità filosofica davanti a una possibilità che non è semplicemente letteraria, ma che fa parte anche del discorso filosofico, giuridico, politico, etico: la possibilità di simulacro, di finzione.

In generale, insisto sulla possibilità di "dire tutto" come diritto riconosciuto in linea di massima alla letteratura, per contrassegnare non l'irresponsabilità dello scrittore, di chiunque firmi della letteratura, ma la sua iper-responsabilità, vale a dire il fatto che la sua responsabilità non risponde davanti alle istanze già costituite. Poter dire tutto a titolo di finzione, se non addirittura di fantasma, significa dimostrare che l'istituzione letteraria (considero la letteratura un'istituzione, è per questo che spesso distinguo la letteratura in senso stretto, che è una cosa moderna, relativamente recente, dalle Belle Lettere, dalla poesia, dal teatro o dall'epica in generale), la letteratura in senso stretto è un'istituzione indissociabile dal principio democratico, cioè dalla libertà di parlare, di dire o di non dire ciò che si vuole dire. Naturalmente so che la letteratura non è sempre vissuta in un regime democratico e che la rimozione della censura, massiccia o sottile, è una storia molto complicata. Tuttavia, il concetto di letteratura è costruito sul principio del "dire tutto". Essa interroga dunque l'evento, ciò che è chiamato ad avvenire attraverso simulacri e finzioni, e cosí anche la struttura di finzione che può costituire ogni discorso, in particolare i discorsi performativi, quelli che producono diritti e norme.

D. – Sí, ma è paradossale che lei dica, ne La carte postale per esempio, che la letteratura le è sempre sembrata inaccettabile, la colpa morale per eccellenza come se fosse in grado di trasgredire la legge.

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Pagina 51

D. – Il suo impegno filosofico comincia molto presto, dal 1952 con il suo ingresso all'Ecole Normale Supérieure. Milita in modo intermittente in gruppi di estrema sinistra non comunisti, mentre alla rue d'Ulm a regnare è piuttosto il comunismo stalinista.

A quest'epoca risale anche il suo incontro con Louis Althusser, al quale resterà legato fino alla sua morte.

Nel 1968 rimane assai defilato rispetto ai movimenti, anche se organizza la prima assemblea generale all'ENS.

Nel 1981 fonda con Jean-Pierre Vernant l'associazione Jan Hus per l'aiuto agli intellettuali cèchi dissidenti o perseguitati. Si reca a Praga per animare un seminario clandestino, ma lí viene fermato, imprigionato e condannato per traffico di droga. In questa circostanza, al suo ritorno in Francia, diventa un personaggio pubblico, perché nel treno che l'ha riportata a Parigi un'équipe televisiva riprende quelle che saranno le sue prime immagini.

Nel 1983 partecipa alla Fondazione culturale contro l' apartheid e al Comitato di scrittori in difesa di Nelson Mandela.

Nel 1988 incontra degli intellettuali palestinesi nei territori occupati, ed è l'occasione del suo singolare intervento Interpretations at War.

Nel 1989, dopo la caduta del Muro, partecipa a un gruppo di riflessione; un modo per lei di fare il punto su questo evento, al quale farà seguito una decade a Cerisy su Il passaggio delle frontiere. L'89 è anche l'anno del suo impegno nel Collettivo 89 per l'uguaglianza, che reclamava il diritto di voto per gli immigrati alle elezioni locali.

Dal 1990 ha modo di intervenire nei paesi del vecchio blocco comunista come a Mosca, all'Accademia delle scienze e all'Università, lei è stato ugualmente parte integrante del Parlamento internazionale degli scrittori di Strasburgo nell'affare Rushdie, intorno a cui si articolerà la sua riflessione sulle città-rifugio.

Attualmente, infine, lei continua a preoccuparsi della sorte degli intellettuali algerini.

Mi sembra che la caratteristica del suo impegno politico sia quella di passare innanzitutto attraverso i testi, come testimoniano le sue pubblicazioni degli ultimi dieci anni: L'autre cap, Spectres de Marx, Marx en jeu, legati alla caduta del comunismo, alla questione dell'Europa, al dovere della memoria, al ritorno degli spettri; la questione della democrazia in Politique de l'amitié, o quella della giustizia e del diritto in Force de loi; l'ospitalità con Cosmopolites de tous les pays, encore un effort, De l'hospitalité o ancora Du droit à la philosophie d'un point de vue cosmopolitique. È un po' come se l'effervescenza della fine del nostro secolo si trovasse pensata nella sua necessità e nella sua urgenza sulla punta della sua penna... Ma sarebbe d'accordo nel dire che, sotto la pressione degli eventi, il suo impegno filosofico si è modificato a partire da quella che alla fin fine ha sempre pensato come una politica interiore della scrittura verso una politica piú esteriore, un po' come se oggi la filosofia avesse il dovere di far fronte a una specie di urgenza evenemenziale?


J.D. – Non si fa mai abbastanza politicamente, vale a dire che si ha sempre la sensazione di non lavorare abbastanza al di fuori, giacché mi parla di esteriorità. Quando ci si impegna politicamente, che si sia o meno un intellettuale, è impossibile essere soddisfatti di ciò che si fa, vi è sempre da fare ancora e di piú. Scrivere testi per rispondere a queste urgenze politiche non è mai in ogni caso soddisfacente. Tuttavia, ogni azione politica passa attraverso discorsi e testi. Evidentemente bisogna anche andare fuori, per la strada ad esempio; mi è capitato di farlo, non abbastanza lo ammetto. Bisogna farlo impegnando il proprio corpo, la propria voce, i propri piedi, le proprie mani, ma sarebbe facile mostrare che non ci si impegna mai senza un discorso organizzato, dunque senza un testo. Di conseguenza, il fatto che nel mio modesto caso l'essenziale di ciò che ho cercato di fare sia passato attraverso degli scritti, contrassegna a un tempo l'insufficienza di cui parlavo, ma anche la necessità di pensare la cosa politica.


D. — Eventi come la sua carcerazione hanno cambiato qualcosa nella sua riflessione, nel suo impegno, nella necessità di impegnarsi?


J.D. — Non in maniera considerevole o decisiva, non credo.


D. — Comunque a partire da quel momento lei è diventato piú visibile.


J.D. — Sí, ma non l'ho fatto per diventare piú visibile. L'ho accettato, mentre in precedenza non avevo mai accettato questa visibilità, come dice lei, a proposito dei miei libri o di qualche altra mia attività, ma quando al mio ritorno da Praga sono stato avvicinato in treno da un'équipe televisiva che mi chiedeva di raccontare che cos'era accaduto, ho ritenuto di doverlo fare. Non per rendermi visibile, ma perché pensavo che bisognasse testimoniare pubblicamente ed ero il solo a poterlo fare, in un certo modo. Non ho mai cercato di agire politicamente in maniera visibile o per essere visibile, ma talvolta, bisogna riconoscerlo, la visibilità fa parte dell'impegno politico. La leggibilità è ugualmente decisiva, è il destino e l'evoluzione dei processi di comunicazione: una certa leggibilità sul computer, su Internet per esempio, diventa tanto determinante quanto la visibilità alla televisione o per la strada. Le modalità di manifestazione sono molto cambiate nel corso dei tre ultimi decenni e noi siamo presi in questo cambiamento, che si tratti di testi, di discorsi o della visibilità dei corpi.

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