Copertina
Autore Philippe Descola
Titolo Diversità di natura, diversità di cultura
EdizioneBook Time, Milano, 2011, Piccoli saggi 8 , pag. 72, cop.fle., dim. 12,2x17x0,7 cm , Isbn 978-88-6218-182-2
OriginaleDiversité des natures, diversité des cultures
EdizioneBayard, Paris, 2010
TraduttoreElena Pozzi
LettoreElisabetta Cavalli, 2012
Classe antropologia , natura-cultura , ecologia , etnografia
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Indice


    DIVERSITÀ DI NATURA, DIVERSITÀ DI CULTURA

  5 Diversità di natura, diversità di cultura

 33 Domande / Risposte


 

 

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Pagina 7

A prima vista sembra che distinguere ciò che è natura da ciò che è cultura non ponga alcuna difficoltà. È naturale quello che nasce indipendentemente dall'azione umana, quello che è esistito prima dell'uomo ed esisterà anche dopo di lui, gli oceani, le montagne, l'atmosfera, le foreste. È culturale invece quanto prodotto dall'azione umana, che siano oggetti, o idee o, ancora, tutto ciò che si trova a metà strada tra gli oggetti e le idee, e che noi chiamiamo istituzioni: una lingua, la costituzione francese o il sistema scolastico, per esempio. Se faccio una passeggiata in campagna e attraverso un bosco, sono nella natura. Posso in quel momento sentire un aereo passare sopra la mia testa, o un trattore nelle vicinanze: sono oggetti fabbricati e impiegati dagli uomini, e appartengono dunque alla sfera culturale. Tuttavia la distinzione non è sempre così semplice. Durante la mia passeggiata costeggio una siepe viva, composta di vegetazione spontanea, di biancospini, di noccioli, di peri corvini, di rose canine. Posso dire che è una siepe naturale, contrariamente alla staccionata di legno che recinta il campo vicino, ma questa siepe è stata comunque sistemata, potata, curata dagli uomini e si trova lì per separare due prati secondo il confine fissato dal catasto, due prati che appartengono a due persone diverse. È dunque il prodotto di un'attività tecnica, quindi di un'attività culturale. Essa ha anche una funzione legale, quindi una funzione culturale.

[...]

Ora, la scienza che pratico, l'antropologia, diffida molto del buon senso. Contrariamente a quello che diceva il filosofo Cartesio, il buon senso non è la cosa più condivisa del mondo. Gli antropologi sarebbero piuttosto d'accordo con un contemporaneo di Cartesio , un grande filosofo e matematico, Pascal , quando diceva: «Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là». Detto altrimenti: le abitudini di vita e i modi di pensare che sono normali in Francia non lo sono in Spagna e viceversa.

È il compito dell'antropologia quello di fare l'inventario di queste differenze e di tentare di spiegarne le ragioni. Per farne l'inventario bisogna andare presso i popoli e osservare i loro costumi, i loro modi di fare, di dire, è necessario condividere quotidianamente la loro vita per più anni, apprendere il loro sapere, capire ciò che fanno. In breve, bisogna fare dell'antropologia. Gli antropologi sono dunque anche degli etnografi o degli etnologi, se volete. Ogni antropologo è anche etnografo o lo è stato. È un buon inizio per affrontare il problema di cui si occupa l'antropologia, cioè comprendere le differenze culturali, poiché, qualunque sia la comunità della quale voi scegliete di condividere la vita per qualche tempo, nel vostro paese o molto lontano da voi, le abitudini di questa comunità saranno senza dubbio diverse dalle vostre, di più o di meno, a seconda della distanza che percorrerete. Così, tentando di identificarvi con persone che conducono un'esistenza distinta dalla vostra, allo scopo di comprenderle meglio, dall'interno, condividendo le loro gioie e le loro pene, le ragioni che le spingono a fare ciò che fanno, voi sarete necessariamente portati, di contro, a farvi delle domande sull'ovvietà delle abitudini di vita della vostra stessa comunità. Voi sarete diventati un po' "altri", e talvolta quasi estranei a quelli che eravate prima, a seconda della durata del vostro soggiorno. Rimetterete in questione alcune delle certezze che parevano attenere al buon senso della vostra comunità d'origine.

È precisamente così che ho cominciato a mettere in dubbio ciò che mi sembrava evidente riguardo alla differenza tra umani e non umani, tra gli esseri che secondo noi appartengono alla natura e quelli che appartengono alla cultura. Una trentina di anni fa sono stato in Amazzonia, al confine tra Ecuador e Perù. Ero partito per studiare alcuni Indiani che i più conoscono come Jivaros e che tra di loro si chiamano "Achuar", che vuoi dire "il popolo della palma d'acqua", poiché vivono in una regione della foresta tropicale punteggiata di paludi dove la palma d'acqua cresce in abbondanza.

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Quando domandavo agli Achuar perché il cervo, la scimmia cappuccina e le piante di noccioline si presentavano sotto un'apparenza umana nei loro sogni, essi mi rispondevano, sorpresi per l'ingenuità della domanda, che la maggior parte delle piante e degli animali sono persone proprio come noi. Nei sogni noi possiamo vederli senza il loro costume animale o senza il loro costume vegetale, ovvero come degli uomini. Gli Achuar dicono in effetti che la grande maggioranza degli esseri della natura possiedono un'anima analoga a quella umana, che permette loro di pensare, di ragionare, di provare dei sentimenti, di comunicare come gli umani, e soprattutto che li porta a riconoscersi, loro stessi, come esseri umani, malgrado la loro apparenza animale o vegetale. Per questa ragione, gli Achuar dicono che le piante o gli animali, per la stragrande maggioranza, sono delle persone: la loro umanità è morale, ed è riposta nell'idea che essi si fanno di se stessi; non è un'umanità fisica, quella che risiederebbe nell'aspetto apparente che essi offrono allo sguardo altrui.

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Questo ci induce a porci delle domande sul nostro modo di concepire il rapporto che gli umani hanno con animali e piante. Noi abbiamo la tendenza a credere che il nostro modo di pensare sia universale ma, evidentemente, non è così. Questo non vuol dire che al di là dell'Occidente, cioè dell'Europa a partire dal XVII secolo e dell'America del Nord successivamente, abbiano sempre trattato i non umani come delle persone. In altri casi, esistono relazioni molto particolari con i non umani, ma affatto differenti da quelle appena viste.

Prendiamo l'esempio degli Aborigeni australiani. Nonostante siano ripartiti in centinaia di tribù che parlano lingue diverse, gli Aborigeni australiani hanno tutti in comune l'organizzarsi secondo un medesimo sistema, il sistema dei gruppi totemici, all'interno del quale le regole che lo strutturano sono dappertutto le stesse. Un gruppo totemico è un insieme di uomini, di donne, di piante e di animali del quale si dice, in Australia, che appartengono a una stessa specie, cosa che a noi pare alquanto strana poiché i loro corpi sono molto diversi gli uni dagli altri. Sono membri di una stessa specie per il fatto che tutti possiedono, malgrado la diversità apparente, le stesse qualità morali e fisiche. Queste qualità sono definite in maniera sufficientemente astratta cosicché possono essere applicate a tutti i membri della classe totemica, siano o non siano umani. Caratterizzano per esempio il comportamento, diremo allora che sono lenti o piuttosto vivi, intraprendenti o piuttosto passivi. Caratterizzano allo stesso modo il temperamento, collerico o piuttosto calmo, gioioso o piuttosto malinconico, ma ugualmente la forma, piccola o piuttosto grande, massiccia o slanciata, arrotondata o spigolosa. Esse qualificano anche la consistenza, soffice o rigida, flessibile o dura, e infine il colore, chiaro o piuttosto scuro. Con questo sistema, noi possiamo dire che certi uomini, donne, insetti, uccelli, rettili, marsupiali, arbusti, pesci fanno parte di una stessa specie totemica poiché sono tutti vivi, grandi, slanciati, spigolosi, di colore scuro, abbastanza rigidi e aggressivi. Nonostante le differenze di forma, possiedono le stesse caratteristiche che si suppone derivino dal totem, sovente rappresentato come un animale del quale il gruppo totemico porta il nome. Ora, questo totem non è veramente un antenato, ma piuttosto una sorta di prototipo.

Cos'è un prototipo? Uno stampo che serve a fare delle copie identiche; solo che nel caso in questione, non è uno stampo che riproduce delle forme esatte come quello per dolci, ma uno stampo che riproduce delle qualità come il codice genetico, attraverso il quale le caratteristiche fisiche sono trasmesse dai genitori ai bambini.

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In ogni caso, si vede bene come per gli Aborigeni australiani, la distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che sarebbe culturale non ha alcun senso poiché nel loro mondo tutto è al medesimo tempo naturale e culturale. Perché si possa parlare di natura, è necessario che l'uomo faccia un passo indietro rispetto all'ambiente nel quale è immerso, è necessario che l'uomo si senta esterno e superiore al mondo che lo circonda. Egli potrà allora percepire il mondo come un tutto, poiché è indietreggiato rispetto a questo, si è estrapolato. Percepire questo mondo come un tutto, come un insieme coerente, diverso da com'è e da come si presenta è un'idea alquanto strana, se ci si riflette. Come dice il grande poeta portoghese Fernando Pessoa , noi vediamo bene che ci sono delle montagne, delle valli, delle pianure, delle foreste, degli alberi, dei fiori, dei prati, noi vediamo bene che ci sono fiumi e pietre, ma noi non vediamo che c'è un tutto al quale ogni cosa appartiene, perché, alla fine, noi non conosciamo il mondo che attraverso le sue parti, e non come una totalità. Ma una volta che abbiamo preso l'abitudine di rappresentarci la natura come un tutto, essa diventa come un grande orologio del quale si può cercare di smontare il meccanismo, per migliorarne i rotismi e il funzionamento. A dire il vero, questa immagine ha cominciato a prendere corpo abbastanza tardi, a partire dal XVII secolo in Europa. Si tratta dunque di una tendenza tardiva nella storia dell'umanità e non si è verificata che una sola volta. Per riprendere una celeberrima frase di Cartesio al quale ho fatto riferimento poco fa, l'uomo è allora diventato «come un padrone e un possessore della natura». Ne è derivato uno straordinario sviluppo delle scienze e delle tecniche, ma anche uno sfruttamento senza freni della natura – ormai composta da oggetti privi di rapporti con gli umani – piante, animali, terra, acqua, rocce, altrettante semplici risorse delle quali possiamo fare uso e da cui possiamo trarre profitto. A quell'epoca, la natura aveva perso la sua anima e nulla impediva di vederla semplicemente come una fonte di ricchezza.

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Pagina 38

Qual è la differenza tra un etnologo e un antropologo?

C'è una sola scienza, l'antropologia, ma che comporta tre tappe differenti. È una buona domanda perché poche persone comprendono veramente la differenza tra queste tre tappe. La cosa, però, è molto semplice, vedrete.

L'etnografia costituisce la prima tappa.

[...]

Veniamo ora all'antropologo. Lo ripeto, l'antropologo, l'etnologo e l'etnografo sono una sola e unica persona. A partire dalla massa di informazioni sulle differenti regioni del mondo, l'antropologo prova a comprendere dei fenomeni più ampi: non solo la differenza tra i sistemi di matrimonio dell'Amazzonia e della Nuova Guinea, ma tra quelli dell'Amazzonia, della Nuova Guinea, dell'Australia, dell'Africa dell'Ovest, dell'Europa cristiana, del Messico antico, ecc. Questo comporta un enorme lavoro di lettura e di documentazione, e uno sforzo più grande ancora per ordinare una infinità di dati disparati e provare a mettere in evidenza dei principi che permettano di classificare le differenze culturali che si trovano nei dati. Per quanto mi riguarda, per esempio, sono ritornato sul terreno soltanto dopo sei anni.

Ora faccio sempre di più dell'antropologia e sempre di meno dell'etnografia. Mi interesso alle diverse forme che possono assumere i rapporti tra umani e non umani, non solo in Amazzonia, dove ho un'esperienza diretta, ma anche in Australia, in Siberia o nella Grecia antica, delle culture che conosco solamente attraverso le mie letture. Su questa base ho avanzato la proposizione che nel mondo esistono quattro grandi modi di concepire le relazioni con i non umani, essenzialmente le piante e gli animali. Il primo consiste nel pensare che i non umani sono provvisti di un'anima o di una coscienza identica a quella degli umani, ma che essi si distinguono gli uni dagli altri grazie a corpi differenti che permettono loro di vivere in ambienti diversi, come è il caso dell'Amazzonia; il secondo consiste nel pensare che gli umani sono i soli esseri dotati di ragione, ma che essi non si distinguono sul piano fisico dai non umani, com'è il nostro caso da molti secoli; il terzo consiste nel pensare che umani e non umani condividono delle qualità fisiche e morali identiche che si distinguono da altri insiemi di qualità fisiche e morali condivise da altri gruppi di umani e non umani, com'è il caso dell'Australia; l'ultimo consiste nel pensare che ciascun umano e ciascun non umano è diverso da tutti gli altri, ma che egli è capace di intrattenere con gli altri dei rapporti di analogia (più grande o più piccolo, più caldo o più freddo, ecc.), come è il caso della Cina o del Messico. Questa proposizione è antropologica, perché si applica a tutta l'umanità; ma risulta direttamente dalle questioni che mi sono posto al tempo del mio lavoro etnologico sull'Amazzonia, il quale è conseguenza della mia inchiesta etnografica presso gli Achuar. Sono tre tappe di una stessa scienza, tre livelli di ampliamento dei fenomeni che studiamo.

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Pagina 64

Per capire meglio quello che ci ha detto all'inizio: l'antropologia è propria del mondo occidentale?

Credo di sì. L'efficacia con la quale l'Europa ha instaurato la sua dominazione coloniale su di una grande parte del mondo viene da lì, da questa curiosità per l'altro, dal desiderio di comprendere le differenze e classificarle. È una tesi che aveva sviluppato una ventina d'anni fa un filosofo e linguista, Tzvetan Todorov , e penso che avesse ragione. Contrariamente ad altre civiltà, gli Europei hanno saputo coniugare il desiderio di sottomettere e il desiderio di conoscere, l'uno dando forza all'altro. Da questo punto di vista l'antropologia è certamente figlia dell'espansione coloniale. Gli Achuar ci ponevano delle domande sulla nostra società, ma ce le ponevano perché noi eravamo là, perché noi offrivamo loro l'occasione di soddisfare la loro curiosità. Loro, però, non viaggiavano per fare delle inchieste. Le grandi civiltà occidentali come la Cina, l'India ma anche gli Incas o gli Aztechi, non erano preoccupate dall'idea di comprendere i modi di vivere altrui e di fare delle inchieste altrove per capire meglio i popoli stranieri. Solo i grandi viaggiatori arabi come Ibn Battûtata o Ibn Khaldoun fanno eccezione. Dicono sempre che sono i Greci ad aver inventato l'antropologia, con Erodoto , ma è a partire dal XVI secolo che una riflessione sistematica sull'alterità ha preso piede nel mondo occidentale.

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