Copertina
Autore Ardito Desio
Titolo La conquista del K 2
SottotitoloSeconda cima del mondo
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1954], Saggi , pag. 264, cop.ril.sov., dim. 140x215x28 mm , Isbn 978-88-11-60044-2
PrefazioneMaria Emanuela Desio
LettoreLuca Vita, 2005
Classe montagna , viaggi , sport
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Indice

Presentazione di Maria Emanuela Desio           5
Prefazione                                      9
Sguardo geografico al Karakorum                13
Parte prima
I PRELIMINARI
1. I tentativi precedenti al K 2 33 2. Storia retrospettiva della spedizione 51
Parte seconda
LA PREPARAZIONE
3. Il piano generale della spedizione 63 4. La preparazione in Italia 71
Parte terza
L'ESECUZIONE
5. Il trasferimento dall'Italia al campo-base 91 6. Preparativi per l'assalto 127 7. La dura conquista dello sprone Abruzzi 145 8. L'assalto alla vetta 183 9. Qualche commento alla conquista del K 2 199 10. Il ritorno degli alpinisti 207
Parte quarta
ESPLORAZIONI E RICERCHE SCIENTIFICHE
11. Esplorazioni nel bacino del Baltoro 221 12. Sulla via del ritorno: altri cento chilometri sui ghiacci 229 13. Il lavoro degli scienziati 237 14. Riepilogo delle ricerche scientifiche della spedizione 247 Appendice Breve curriculum dei membri della spedizione 255  

 

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PRESENTAZIONE



Quest'anno ricorrono cinquant'anni dalla conquista della seconda vetta nel mondo per altezza: il K 2 (8611 m). Ma come mai tanto rumore intorno a questa rievocazione?

Cinquant'anni fa la seconda guerra mondiale era terminata da poco e l'Italia stava uscendo da un periodo di oscurità, anche se con una ripresa economica relativamente rapida. Ma per noi italiani, sconfitti in guerra, era difficile dimostrare al mondo che dentro ognuno di noi c'era una grande forza, che eravamo un popolo pieno di fantasia, iniziativa, amore per la patria a cui forse neppure noi credevamo.

Io ero una giovinetta che frequentava il liceo. Dentro di me portavo ancora i ricordi della guerra, anche se distorti dall'età, che mi aveva sorpreso mentre ero bambina. Non avevo sofferto la fame, ma l'angoscia che tutto poteva succedere, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo. La guerra aveva lasciato un segno indelebile dentro ognuno di noi e di questo periodo ho ancora, nella vecchiaia, dei ricordi precisi. Negli anni Cinquanta tutti si davano da fare per ricostruire il Paese, per farlo rinascere, ma avevamo perso la guerra e la risalita era più dura. La conquista del K 2 da parte degli italiani, tentata l'anno precedente senza successo dagli americani, è stata una grande vittoria. Eravamo riusciti in un'impresa nella quale persino gli americani avevano fallito.

Devo dire che io ero rimasta frastornata da questo successo e il fatto che fosse stato mio padre l'artefice insieme a un pugno di uomini con una grande voglia di riuscire, una grande volontà, mi aveva lasciato incredula. Ero abituata a sentire mio padre parlare di grandi avventure e anche questa volta era stata per me una delle sue grandi avventure. Ho cercato di sfuggire al clamore che l'impresa aveva suscitato, conducendo la mia vita in modo normale.

Ora, con la maturità, mi rendo conto che ho avuto una grande fortuna: non solo di vivere un'esperienza come questa, ma di averla vissuta in prima linea. E per questo che ho trovato giusto ricordare questa impresa pubblicando il volume che mio padre scrisse in un mese al suo rientro dalla spedizione, pur distratto dalle cerimonie e dai festeggiamenti. E lo stesso editore di allora mi ha accontentata.

Spero di contribuire con questo a far conoscere alle nuove generazioni che non hanno vissuto quel periodo storico le difficoltà che un'impresa di questa portata aveva creato a chi si era attribuito l'incarico dell'organizzazione, difficoltà di ogni tipo: finanziarie (a quell'epoca la parola sponsor era praticamente sconosciuta), tecnologiche, di comunicazione (l'annuncio della vittoria fu dato solo quattro giorni dopo perché era mancato il contatto radio), politiche.

L'impresa del K 2, iniziata quasi in sordina, rimasta nel cuore di mio padre per tanti anni, portata a compimento con grande fermezza e duro lavoro, sia un messaggio ai giovani: non è facile raggiungere vette, anche virtuali, ci vuole una grande volontà, coraggio, dedizione, sacrificio e ancora di più, ma credetemi, ne vale la pena.

Maria Emanuela Desio

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SGUARDO GEOGRAFICO AL KARAKORUM



Accade spesso, a chi s'appresta a visitare per la prima volta un territorio lontano, di crearsi un'immagine del luogo molto diversa da quella che è in realtà. Anche a me è capitato più volte, ma non nel caso del Karakorum.

Devo raccontarvi a tale proposito che molti anni fa, quando dovetti decidere l'argomento per la mia tesi di laurea in geologia, scelsi la ricostruzione delle vicende di una valle delle Alpi Giulie durante l'epoca glaciale. Si trattava di ricostruire l'aspetto di questa valle in base alle forme del suolo e alla distribuzione dei depositi morenici lasciati dai ghiacciai del quaternario, come si presentava cioè quando colossali fiumane di ghiaccio la ricoprivano, fluendo lentissimamente verso la pianura lontana. Ebbene, ricordo che una mattina, affacciandomi alla porta del rifugio alpino, dove avevo trascorso la notte, uno spettacolo sorprendente si parò dinanzi agli occhi. Le nebbie avevano invaso la valle sommergendola sino al livello delle più alte morene, cosicché la mia valle appariva proprio come doveva essere durante una delle maggiori espansioni glaciali.

Rimasi a lungo a fantasticare su quella immagine di un tempo remoto, sino a che i raggi del sole, riscaldando a poco a poco l'atmosfera, fecero svanire ciò che mi era apparso come un sogno.

Quando nella primavera del 1928 mi pervenne l'invito della Società geografica italiana a partecipare come geografo e geologo a una spedizione himalayana, riaffiorò nella mia mente quella visione lontana. E non fu un'immagine fallace!

Ma prima di cominciare a parlarvi del Karakorum, di questa grande catena montuosa dell'Asia, dove ha operato per sei mesi la spedizione italiana che ho avuto l'onore di guidare, è necessario che ve la presenti, cercando di creare nella vostra mente un'immagine più vicina possibile a quella magnifica realtà.


Se per un momento paragoniamo la penisola indiana alla penisola italiana possiamo dire che la catena dell'Himalaya occupa la stessa posizione geografica delle Alpi. A sud dell'Himalaya c'è l'immensa depressione dell'Indo e del Gange; a sud delle Alpi v'è la Pianura Padana. Due grandi insenature spingono il mare a minima distanza dalle montagne, il golfo di Karachi nel Mare Arabico, verso ovest, come il golfo di Genova rispetto alla penisola italiana; il golfo del Bengala nell'Oceano Indiano verso est, come il golfo di Venezia.

Le proporzioni però sono molto diverse. Basti dire che la penisola indiana ha un'area di oltre 4 milioni di chilometri quadrati, mentre la penisola italiana ne misura appena 322.000, cioè assai meno di un decimo. Questa differenza di dimensioni fra le due regioni si riflette anche nei rapporti fra Alpi e Himalaya. Le Alpi hanno una lunghezza di circa 1000 km; l'Himalaya di circa 2500 km; le Alpi culminano sulla cima del Monte Bianco a 4810 m di altezza, l'Himalaya sul Monte Everest a 8840 m.

La Grande Catena Himalayana è formata in realtà da un fascio di catene montuose che nel loro insieme descrivono un grande arco convesso verso il sud. A nord sta lo sconfinato altipiano del Tibet, a sud, come ho già detto, la depressione indo-gangetica. Alle due estremità il fascio di catene si deprime inflettendosi a mezzogiorno e formando verso levante le montagne della Birmania, verso ponente i rilievi del Belucistan. Da questo lato però, all'estremità settentrionale della catena himalayana vera e propria, quasi si giustappone una grande ruga terrestre caratterizzata dalla presenza di montagne altissime, che porta il nome di catena del Karakorum. Il nome deriva dal più importante e noto valico che l'attraversa, il passo Karakorum, che in turcomanno significa ghiaia o terreno coperto di detriti (korum), nera (kara). E dall'iniziale di questo nome sono derivate le sigle K 1, K 2, K 3 ecc. che sono state impiegate dall'Ufficio topografico indiano per designare una serie assai numerosa di cime sprovviste di nome locale.

Se il Karakorum formi un sistema montuoso a sé o faccia parte integrante dell'Himalaya non è ben chiaro. Ma poiché quasi tutta la nomenclatura geografica delle grandi unità montuose della terra è convenzionale si usa per convenzione considerare il Karakorum una delle grandi unità orografiche della catena himalayana, occupando una posizione che può essere paragonata a quella delle Alpi Bernesi rispetto al sistema alpino. Il Karakorum è inoltre la porzione più settentrionale dell'Himalaya trovandosi suppergiù alla stessa latitudine di Gibilterra.

Questo può spiegare abbastanza bene le differenze climatiche fra il Karakorum e altri segmenti fra i più noti della catena dell'Himalaya come, per esempio, quello nepalese in cui sorge l'Everest. Quest'ultimo, infatti, si trova alla stessa distanza dall'Equatore delle isole Canarie.

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DATI PER LA SCALATA AL K 2
DALLA BASE DELLO SPRONE ABRUZZI
ALLA CIMA



1° CAMPO, 5300 m, Colle Duca degli Abruzzi, al vertice di un cono di detrito, alla base del crestone Abruzzi.

Dal 1° al 2° campo. Dislivello 500 m; si sale una crestina sulla sinistra e qualche metro più sopra si attraversa un canalone con rocce in parte scivolose. Si risale la crestina sul lato opposto della gola (60 m) e si attraversa un altro canalone con neve, alla cui testata sta il 2° campo. Per raggiungere il 2° campo occorre ancora risalire la crestina a sinistra.

2° CAMPO, 5800 m. Selletta con neve al sommo di una gola rocciosa. Campo piuttosto esposto (foto Houston).

Viveri Houston. Marmellata, prosciutto, carne e biscotti. Molto cibo in involucri di plastica. Benzina.

Dal 2° al 3° campo. Dislivello 400 m. Circa un centinaio di metri di corda fissa subito sotto il 3° campo.

Si segue una breve cresta sopra il 2° campo che porta a uno stretto e ripido canale. Alla testata di questo si attraversa un canale nevoso e si raggiunge la cresta che sorge sul lato opposto. Da qui la via è diretta al 3° campo.

3° CAMPO, 6200 m. Sicuro e ampio davanzale di roccia.

Viveri Houston. Grande quantità di marmellata, carne e biscotti.

Fra 3° e 4° campo. Dislivello 250 m. Crestina rocciosa con neve, molto ripida. Cadute di sassi. Quando la via è attrezzata si può salire in un giorno dal 2° al 4° campo.

4° CAMPO, 6450 m. Al piede di una parete rocciosa, buona piattaforma, ma esposta al vento.

Viveri Houston. Pochissimi.

Dal 4° al 5° campo. Dislivello 256 m. Si gira sulla sinistra la parete rocciosa tagliata da un camino obliquo («camino Bill»). Al sommo di questo camino la spedizione Houston ha posto una specie di teleferica. La parete ha un'altezza di un'ottantina di metri circa.

5° CAMPO, 6706 m. Circa 150 m di dislivello sopra il «camino Bill», sul sommo di un contrafforte.

Dal 5° al 6° campo. Dislivello 294 m. Si risale un ripido e difficile contrafforte roccioso di circa 45 m composto da una caratteristica roccia rossa ben riconoscibile dal basso. Poi c'è un camino verticale in roccia friabile con vetrato che richiede alcuni chiodi e un centinaio di metri di corda fissa

6° CAMPO, 7000 m. Posto ristretto per una sola tenda alla base della parte più difficile dello sprone Abruzzi.

Fra 6° e 7° campo. Dislivello 500 m. Si sale per ripide rocce difficili che richiedono l'impiego di parecchi chiodi. Poi si deve effettuare una pericolosa traversata verso est di circa 180 m su ghiaccio di 45 gradi di pendenza.

7° CAMPO, 7500 m (?). Sul ciglio della spalla. Sopra uno spazio limitatissimo, sufficiente appena per una tenda da due persone.

Fra 7° e 8° campo. Dislivello di 212 m. Sulla spalla per campi di neve e ghiaccio. Distanza coperta da Wiessner in ore 5.30.

8° CAMPO, 7712 m (Wiessner). Sotto la cimetta della spalla, quota 7740. Questa è troppo esposta secondo Wiessner. Sopra il campo c'è un breve pendio, ma non pericoloso per valanghe e una Bergschrund.

Materiali Houston. Qualche tenda e poco cibo (da non farci conto). Attenzione: campo 8° Houston 1953 (v. foto).

Fra 8° e 9° campo. Dislivello 228 m. Crepaccio, pendio coperto di neve. Poi ripido pendio coperto di blocchi di ghiaccio precipitati dal frontone di ghiaccio soprastante.

9° CAMPO, 7940 m (Wiessner). Al piede di una cresta rocciosa, posizione buona e sicura.

Dal 9° al 10° campo. Dislivello di circa 200 m. Percorso ben protetto; due passaggi difficili a 150 m sopra il 9° campo sul versante SE della cima.

10° CAMPO (bivacco), 8000 m (?). Al piede di una specie di camino che intacca una parete rocciosa sopra il 9° campo.

Dal 10" campo si presentano due vie, una sulla sinistra prevalentemente di roccia, una sulla destra prevalentemente di ghiaccio.

Via di roccia. Si segue una cresta difficile su rocce marce entro a un colatoio nevoso inciso nella parete. A 25 m dal termine superiore del colatoio esiste una sporgenza (8385 m). Da qui occorre traversare in parete un tratto di circa 15 m verso ovest sino a un campo di neve e di là raggiungere la cima.

Via di ghiaccio. Si inizia con una traversata di 120 m verso E su difficili rocce marce sopra lo sperone ripido e coperto di neve, sinché si raggiunge un canale di ghiaccio di circa 15 m che giace a 24 m sotto la sommità del muro di ghiaccio.

Occorre un giorno dal 10° campo alla cima e ritorno (secondo Wiessner, senza maschere).

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Il 30 luglio era una giornata splendida: cielo limpido, atmosfera calma. Dall'8° campo Compagnoni e Lacedelli risalirono il muro di ghiaccio, recuperarono i carichi lasciati il giorno prima e proseguirono verso il ripido canale che intacca la parete rocciosa sottostante alla fronte della cupola di ghiaccio terminale. La neve era abbondante e farinosa: affondavano sino alla cintola. Più in alto la marcia divenne sempre più faticosa. Raggiunto il piede del canale minacciato dalla caduta di seracchi dal tetto sporgente di ghiaccio, piegarono sulla sinistra e si portarono sotto la parete rocciosa incrostata di vetrato: superarono una serie di difficili placche e riuscirono a fissare la piccola tenda d'altissima quota sopra uno stretto terrazzino a circa 8080 m d'altezza. Nella mattinata Bonatti e Gallotti scesero verso il 7° campo per recuperare i due respiratori lasciati a mezza via dai loro compagni, riuscendo a riportarli per mezzogiorno all'8°. La sera prima erano arrivati intanto al 7° campo due hunza, Mandi e Isakhan, i quali proseguirono la mattina dopo con Abram verso l'8° campo trasportando viveri, combustibile e materiali d'accampamento. Alle tre e mezza pomeridiane Abram, Bonatti e Mandi presero i respiratori e altro materiale, e risalito il muro di ghiaccio che sovrasta il campo, proseguirono sulle orme di Compagnoni e Lacedelli. Ma Abram a un certo momento fece ritorno al campo, al quale arrivò alle sette di sera. Gli altri due proseguirono faticosamente sulla neve fresca e farinosa. Il sole volgeva al tramonto, ma il 9° campo era ancora lontano. La marcia proseguì penosamente lenta nel crepuscolo: la notte era ormai vicina. I due gridarono per farsi sentire da Compagnoni e Lacedelli, ma il vento che spirava dal nord fece perdere per qualche tempo le loro voci. Finalmente udirono i richiami dei loro compagni che suggerivano di scendere al più presto: sotto il 9° campo c'erano le ripidissime placche coperte di ghiaccio che sarebbe stato estremamente pericoloso tentare di superare al buio. I due, resisi conto della impossibilità di scendere senza grave rischio della vita, scavarono una buca nella neve, vi si ficcarono dentro preparandosi a trascorrere la notte, una notte certamente terribile a quell'altezza.

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Era difficile, specialmente in quelle condizioni di quota e di stanchezza, valutare la temperatura. Ma non dobbiamo essere molto lontani dalla verità parlando di 40 sotto zero.

L'ultimo tratto era una larga cresta di neve, non ripida, che andava da sinistra verso destra. A un tratto ci accorgemmo che il pendio si attenuava, la neve diventava consistente, grazie a Dio non si affondava più. Il pendio si attenua ancora, è quasi piano, è piano! Guardiamo intorno, quasi stentando a credere. Dopo mesi e mesi di fatiche, non ci resta più niente da salire. Sopra di noi soltanto il cielo.

«Ma siamo proprio sulla cima?» Dinanzi a noi, a notevole distanza, si alza un'altra elevazione della cresta. Sappiamo che verso nord esiste un'anticima, precisamente quella che si vede dal campo-base, più bassa della vetta autentica. Ma vogliamo essere ben sicuri. Abbassando il capo, osserviamo sull'orizzontale, per non avere poi rimorsi. No, siamo più alti noi. Fin dove arrivano gli sguardi, non c'è assolutamente nulla che ci superi. Sono le sei di sera.

La scena è molto semplice, anche se i sentimenti si accavallano in un indicibile tumulto. Ci abbracciamo. Poi ci buttiamo distesi sulla neve per liberarci dei respiratori. Poi leghiamo a una piccozza le due piccole bandiere: quella italiana e quella del Pakistan e un piccolo vessillo del Club alpino italiano che Compagnoni ha portato dalla sua Valfurva. Il diabolico vento sembra voler strapparle via.

Intorno, mentre la nebbia si è completamente sciolta, torreggiano, in schieramento formidabile, i meravigliosi giganti del Karakorutn. Il panorama e di uno splendore indescrivibile.

La cima del K 2 è come un grande crinale di ghiaccio leggermente inclinato verso nord. Ci potrebbero stare comodamente un centinaio di persone. Guardando in giù alla voragine del ghiacciaio Godwin Austen riusciamo a riconoscere, 3600 m più in basso, il nostro campo-base: dei punti rossi scuri allineati geometricamente. Portandoci sul ciglione orientale della vetta, possiamo scorgere pure le due tendine dell'8° campo. Dio, quanto sono lontane. Solo laggiù è la speranza di salvezza.

Per girare il film e fare varie foto, in bianco e nero e a colori, ci dobbiamo levare i guantoni di pelle. Ma è un supplizio tenere le mani esposte al vento. Le dita accennano a diventare blu. Specialmente Compagnoni nota sintomi di congelamento alla mano sinistra. Per riattivare la circolazione, batte le dita contro la piccozza, ma è come se fossero di legno, non sente più il minimo dolore.

Come se non bastasse, una raffica di vento fa volare via un guanto a Compagnoni. Scompare volteggiando nell'abisso. Poiché le sue dita hanno un aspetto preoccupante, Lacedelli gli cede subito uno dei suoi.

Ora facciamo una specie di trofeo con le due piccozze e le bandierine. Poi, con l'autoscatto, ci filmiamo nell'atto di stringerci la mano (purtroppo questo rotolo, con la macchina relativa, sarà dimenticato al campo 8°, dove chi vuole può salire a prenderlo).

A poco a poco cominciamo a capire di aver fatto qualcosa di veramente bello. E la mente ripercorre in un baleno tutte le fasi dell'impresa, dal giorno ormai lontano in cui Desio ci convocò a Milano per il primo rapporto, al viaggio verso l'India, alla marcia di avvicinamento, alla vigilia al campo-base, ai primi assalti sullo sprone Abruzzi, alla morte del bravo Puchoz. Ma poi il pensiero corre giù verso il precipizio che ci attende, misurando il cammino del ritorno.

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