Autore Ananda Devi
Titolo Eva dalle sue rovine
EdizioneUtopia, Milano, 2021, , pag. 144, cop.fle., dim. 13,7x21x1,3 cm
OriginaleÈve de ses décombres
EdizioneGallimard, Paris, 2006
TraduttoreGiuseppe G. Allegri
LettoreSara Allodi, 2021
Classe paesi: Mauritius , narrativa mauriziana









 

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Pagina 5

EVA:


Camminare mi è difficile. Claudico, arranco sull'asfalto fumante.

A ogni passo nasce un mostro, pienamente formato.

La notte della città si gonfia, elastica, intorno a me. L'aria salata che viene dal Caudan mi raschia le ferite e la pelle, ma continuo.

Ora seguirò solo la mia logica. Ciò che sto perdendo, questo gocciolio di vita che se ne va e mi muta in creatura esangue, vampirizzando la notte, non ha più nessuna importanza. Il silenzio, penetrato in me, mi toglie il respiro.

Divento il mio stesso passo. La mia ultima risorsa, oramai. Il mio rumore sull'asfalto è un martellare di colpi mancati. Ho la cartella appesa alla spalla destra. Questa sera non contiene solo libri. C'è un gonfiore rassicurante lì dentro, proprio contro l'ascella, la bruciatura di ogni falsa partenza e ogni fallito arrivo. Ben presto non sarà più soltanto un ritmo nascosto nelle mie vene. Il mio marchio si imprimerà su una fronte, fra le sopracciglia. È per questo istante che sono nata.

Mi passo una mano sulla nuca. La superficie rugosa mi sorprende. L'assenza di capelli mi rende più nuda che mai. Poi, ricordo: mia madre li ha rasati. Quando mi sono guardata allo specchio, mi sono vista con una faccia da leonessa. La fame mi faceva da criniera.

Cammino, anche se vorrei correre verso me stessa. La notte vibra. La città trema. Sono uscita. Niente mi fermerà più.

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Pagina 9

SAD:


Sono Sadiq. Tutti mi chiamano Sad.

Tra tristezza e crudeltà, la linea è sottile.

Eva è la mia ragione, ma lei fa finta di non saperlo. Quando mi incrocia, mi attraversa con lo sguardo senza fermarsi. Io scompaio.

Sono in un posto grigio. O piuttosto marrone giallastro, degno del suo nome: Troumaron. Troumaron è una specie di imbuto; l'ultimo scolatoio dove confluiscono le acque sporche di tutto un paese. Qui vengono riaccasati i profughi dei cicloni, quelli che non sono riusciti a trovare una sistemazione dopo una tempesta tropicale e che, due o cinque o dieci o venti anni dopo, hanno ancora i piedi a mollo e gli occhi pallidi di pioggia.

Io ci vivo da sempre. Sono profugo dalla nascita. Come tutti gli altri, cresciuti all'ombra itterica di questi edifici, non ho capito quanto fossero nefasti i loro angoli. Non vedevo le crepe, aperte sotto i nostri piedi, che ci separavano dal mondo. Giocavo con Eva. La chiamavamo scheletrino non solo perché era tanto magra, ma anche per mascherarne l'affetto inconfessato. Giocavamo alla guerra finché in guerra non ci siamo finiti.

Siamo abbracciati alla montagna dei Signaux. Part Louis si aggrappa ai nostri piedi ma non ci trascina con sé. La città ci volta le spalle. Il suo brusio di lava sorda si arresta ai nostri confini. La montagna ci ostruisce la visione di tutto il resto. Tra la città e la pietra, le nostre palazzine, i nostri detriti, i nostri rifiuti. L'eczema delle pitture e il catrame sotto i piedi. Il campo giochi per bambini è diventato un percorso di guerra, con le sue spine, i suoi cocci di bottiglia, le sue speranze biforcute. Qui i ragazzi hanno stretto i pugni per la prima volta e le ragazze hanno pianto per la prima volta. Qui ognuno si è confrontato con le proprie certezze.

Un giorno ti risvegli e il futuro è scomparso. Il cielo scherma le finestre. La notte penetra i corpi e si rifiuta di uscirne.

La notte e la furia ormonale. Noi ragazzi siamo in astinenza fissa. Ci mettiamo a inseguire le ragazze fino alla fabbrica chiusa che ha divorato i sogni delle nostre madri. Magari è quello che capiterà pure a loro. Della fabbrica restano solo un guscio di metallo vuoto e centinaia di macchine da cucire che hanno dato alle loro spalle una piega da sconfitte e alle loro mani buchi e tacche a mo' di tatuaggi. Ci sono ancora gli scarti di tutte le donne che hanno lavorato lì. Si vede che hanno cercato di dare una parvenza umana alla loro desolazione. Accanto a ogni macchina, un fiore di plastica color malva, foto di famiglia ingiallite, cartoline dall'Europa oppure un fermaglio rosso dimenticato con un ciuffetto di capelli strappati. O ancora simboli religiosi - crocifissi, versetti del Corano, statuette di Buddha, immagini di Krishna - che lasciano intuire la comunità di appartenenza di chi li possedeva, per chi volesse giocare agli indovinelli. Quando la fabbrica ha chiuso, non hanno nemmeno avuto la possibilità di tornare a recuperare i loro oggetti. È stato così improvviso, così inaspettato; solo dopo ho capito che non hanno più voluto vedere niente. Mi chiedo a cosa sia servita, tutta quella loro pietà. Ormai, tutto è in mano alla ruggine e ai nostri giochi perversi, occultati dalle serrande verdastre. Sono le nostre tracce a invadere gli stanzoni irranciditi e le tane dei ratti. L'inchiostro di tutte le verginità perse qui dentro.

Talvolta, quando il quartiere è calmo, mi sembra che i rumori dell'isola, intorno a noi, siano diversi. Altre musiche, sonorità meno funebri, il clicchettio dei registratori di cassa, il tintinnio farlocco dello sviluppo. I turisti, loro, ci provocano senza saperlo. Innocenti come i loro soldi. Li truffiamo per qualche rupia finché non iniziano a diffidare delle nostre facce avvenenti e finte. L'isola indossa il suo abito azzurro cielo per sedurli meglio. Un profumo di mare si sprigiona dal suo interno coscia. Da qui, noi non vediamo il maquillage esterno e i loro occhi abbagliati dal sole non vedono noi. È nell'ordine delle cose.

Le madri scompaiono in una foschia rinunciataria. I padri cercano nell'alcol le virtù di un'autorità che non hanno più. L'autorità, siamo noi, i ragazzi. Abbiamo tracciato i nostri confini come capi militari. Ci siamo appropriati di pezzi di quartiere. Da quando i nostri genitori non lavorano più, siamo noi i padroni. Abbiamo capito che nessuno poteva darci degli ordini. Più nessuno poteva guardarci negli occhi senza tremare. Da quel momento in poi, ognuno si è messo a vivere a modo suo, libero da tutto, svincolato dalle regole. Le regole, siamo noi a dettarle.

Da qualche tempo, però, qualcos'altro si è insinuato nelle mie fantasie. Imbratto i muri della mia stanza di domande, li insanguino con il succo delle parole. Imparo a tacermi. Imparo a dirmi. Imparo a costruirmi e a sottrarmi. Suppongo che siamo tutti così; seguiamo l'onda, come fanno gli altri, ma ognuno si richiude in sé e nutre i propri segreti. Io mi adeguo e fingo di essere dei loro, giusto per la forma, per la sopravvivenza. Eva non lo capisce.

Quando Eva, dalla spumosa chioma color notte, passa con i jeans attillati, gli altri ridacchiano e digrignano i denti; io, invece, vorrei inginocchiarmi. Lei non ci guarda. Non ha paura di noi. La sua solitudine è la sua armatura.

Di notte, i miei ormoni prendono il suo volto e la tratteggiano a grandi fiotti di desiderio. Quando non ce la faccio più esco con la banda, i nostri motorini vanno su di giri e torturano i vecchi che dormono. La mattina, gli altri sono ancora storditi dalle droghe o dal proprio livore. Io faccio una doccia, mi rado e vado a scuola. Questa doppia vita mi consuma, ma per niente al mondo perderei il profilo di Eva al mattino, alla fermata dell'autobus, e quel dito di sole che gioca col suo orecchio.

E poi, lo confesso, amo le parole.

Infilo un libro di poesie nella sua cartella.

Più tardi, lei mi viene incontro e posa su di me lo sguardo. La cosa mi manda in visibilio.

A lei dedico ogni frase che scarabocchio sui muri di casa. A lei dedico i miei soli amari.

Il quartiere è il nostro regno. È la nostra periferia nella periferia, la nostra città nella città. Port Louis ha mutato faccia, le sono spuntati lunghi denti e torri più alte delle sue montagne. Ma il nostro quartiere, lui, non è cambiato. È la trincea estrema. Qui, ci si costruisce un'identità per difetto: quella di non appartenenti. Ci chiamano bann Troumaron - i Troumaron - come se fossimo una delle tante comunità su quest'isola. E forse lo siamo per davvero.

La nostra tana, il nostro terreno di gioco, il nostro campo di battaglia, il nostro cimitero. Lì c'è tutto. Non abbiamo bisogno di nient'altro. Un giorno saremo invincibili e il mondo tremerà. Ecco la nostra aspirazione.

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Pagina 20

SAD:


Mi dicono che ce la farò. Ma farcela non significa per tutti la stessa cosa. È un'espressione a declinazione variabile. Nel mio caso, vuole semplicemente dire che le porte chiuse potrebbero schiudersi un filino e che potrei, tirando bene in dentro la pancia, sgusciare ed eludere la vigilanza di Troumaron. Tutti sanno che la povertà è il più feroce dei carcerieri. I prof, invece, dicono che tutto è possibile. Mi raccontano che anche loro imparavano le lezioni a lume di candela. Vedo d'altronde nei loro occhi l'oscurità di pensiero che ne è conseguita. Mi dicono, le occasioni vanno colte, non sta a voi frenare lo sviluppo del paese. Voi, chi?

Gli stereotipi sono fatti per noi: rientriamo in tutti. Siamo dei campioni.

Ti fanno balenare il miraggio del successo, come se mi dicessero senza crederci troppo, con sguardo sfuggente, sei in grado di fare miracoli. È vero, ho una buona memoria. Sono una spugna: assorbo tutto. E sono una vescica: restituisco tutto. Pare che serva ad avere successo. Ingurgitare e rigurgitare.

Ma mi servo di loro, anche. Seguo i corsi. Passo gli esami. Conduco una doppia vita: di notte con la banda, di giorno coi savi.

Mi ricordo il giorno in cui mi sono diviso in due: al corso di francese, la prof, una giovane malaticcia dal colorito giallo pulcino come le sue camicette, che non è poi rimasta a lungo (per questo dico che era qui solo per me, al momento giusto, come un segno del destino venuto a bussare sulla mia zucca addormentata), la prof, quindi, ha detto: leggeremo delle poesie di qualcuno della vostra età. I maschi, appena sentono la parola poesia, fingono di vomitare e si tappano le orecchie facendo dei versacci. Lei, però, in mezzo a tutto quel casino, con la sua vocina tremula, le poesie le ha lette lo stesso e anche qualche lettera di quel ragazzo. È partita con: non si è seri a diciassette anni. All'inizio, mi sono detto: questo si sbaglia perché, per noi, diciassette anni sono una cosa molto seria. Ma subito dopo ho sentito, non la voce di lei, ma quella aspra di un ragazzo che parlava delle sue voglie, della sua ribellione, delle sue ferite, dei suoi desideri, ma non solo, parlava anche del mondo, del suo e del mio, e di colpo ho avuto l'impressione che parlasse a me soltanto. Sì, direttamente. Mi diceva, sono tuo fratello. Poi lei ha letto una poesia dove lui diceva che le vocali avevano dei colori e la cosa mi è sembrata così lampante da farmi trasalire: anche per me le parole avevano dei colori. Più che gli azzurri e gli arancioni dell'isola, nella mia testa le parole assumevano delle sfumature viola rabbia. Quando ha finito, ha detto: questo poeta si chiama Rimbaud.

Io sono tuo fratello.

Io sono il tuo doppio. Sono il tuo singolo. Mi sono diviso, nel vero senso della parola: ero io, Sad, seduto, pietrificato, sulla mia sedia rigida (o rigido, sulla mia sedia pietrificata), ed ero qualcun altro, uno senza legami, che osservava le cose e le scongiurava col pensiero, con la propria sfida, con la propria mortalità.

Quella sera, sdraiato sul letto, ho preso un pennarello e ho incominciato a scrivere delle cose sul muro, vicino alla mia testa. Cose su Eva, ovvio. Lei sola occupava la mia mente. Mi sono messo a parlarle, a usare il tu, a figurarmi dove va, cosa pensa, ciò che vive. Lei non sa che me la figuro così bene. Ho scritto così tanto su di lei che a volte mi dico che sto scrivendo anche la sua vita, e quella degli altri, e di tutti quanti.

Leggo di nascosto, continuamente. Leggo nei gabinetti, nel bel mezzo della notte, leggo come se i libri potessero allentare il nodo scorsoio che ho intorno al collo. Leggo capendo che c'è un altrove. Una dimensione dove le possibilità sono strabilianti.

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