Copertina
Autore Philip K. Dick
Titolo Confessioni di un artista di merda
EdizioneFanucci, Roma, 2002 , pag. 286, dim. 140x220x22 mm , Isbn 978-88-347-0862-0
OriginaleConfessions of a Crap Artist [1975]
PrefazioneCarlo Pagetti, Sergio Cofferati
TraduttoreMaurizio Nati
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa statunitense
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Pagina 23

Io sono fatto d'acqua. Non ve ne potete accorgere perchÚ faccio in modo che non esca fuori. Anche i miei amici sono fatti d'acqua. Tutti quanti. Il nostro problema è che non solo dobbiamo andarcene in giro senza essere assorbiti dal terreno ma, anche, che dobbiamo guadagnarci da vivere.

In realtà c'è un problema ancor piú grosso. Dovunque andiamo non ci sentiamo a casa nostra. Perché?

La risposta è: seconda guerra mondiale.

La seconda guerra mondiale ebbe inizio il 7 dicembre 1941. In quei giorni io avevo sedici anni e frequentavo il liceo di Seville. Appena sentii la notizia alla radio mi resi conto che la cosa avrebbe riguardato anche me, che il nostro presidente aveva finalmente la sua occasione di dare una bella lezione ai giapponesi e ai tedeschi, e che ci saremmo ritrovati tutti fianco a fianco. La radio me l'ero costruita da solo. Allora mi divertivo a mettere insieme degli apparecchi riceventi a corrente alternata o continua, e la mia stanza era piena di cuffie, bobine e condensatori, e di ogni genere di attrezzatura tecnica.

L'annunciatore della radio interruppe un comunicato pubblicitario sul pane che recitava cosí:

«Homer! Scegli il pane della Fattoria!»

Io detestavo quella pubblicità, ed ero già pronto a cercare un'altra frequenza quando tutto a un tratto la voce femminile si interruppe a metà. Naturalmente lo notai; non dovetti pensarci due volte per rendermi conto che stava succedendo qualcosa. Avevo i miei francobolli delle colonie tedesche - quelli su cui si vede l'Hohenzollern, lo yacht del Kaiser - sparpagliati appena al di là della striscia di luce del sole, e dovevo sistemarli prima che accadesse loro qualcosa. Invece rimasi nel bel mezzo della mia stanza senza fare assolutamente nulla se non respirare e, naturalmente, lasciare che ogni altro normale processo continuasse a svolgersi. Mantenere il mio stato fisico mentre la mente era localizzata sulla radio.

Quel pomeriggio, naturalmente, mia sorella e i miei genitori erano usciti, e cosí non c'era nessuno a cui potessi raccontarlo. Ciò mi rese livido per la rabbia. Dopo aver sentito che gli aerei giapponesi ci avevano bombardato, mi misi a passeggiare su e giú per casa, cercando di farmi venire in mente qualcuno a cui poter telefonare. Alla fine scesi giú per le scale, andai in soggiorno e chiamai al telefono Hermann Hauck, che frequentava il liceo insieme a me e che era mio compagno di banco nell'aula di fisica 2A. Gli raccontai le novità e lui mi raggiunse subito con la sua bicicletta. Ci mettemmo a sedere e rimanemmo in attesa di altre informazione discutendo la situazione.

Mentre discutevamo ci accendemmo un paio di Camel.

«Questo significa che entreranno in ballo anche la Germania e l'Italia» dissi a Hauck. «E significa la guerra contro l'Asse, non solo contro i giap. Naturalmente per prima cosa dovremo sistemare i giap, e poi rivolgere la nostra attenzione all'Europa.»

«Sono proprio contento che sia capitata l'occasione di dare una bella lezione a quei musi gialli» disse Hauck. Entrambi ci trovammo d'accordo. «Ho una mezza idea di presentarmi volontario» aggiunse. Ci mettemmo a passeggiare per la mia stanza, fumando e tenendo sempre le orecchie tese alla radio. «Quei dannati musi gialli» disse Hermann. «Lo sai, non hanno una loro cultura. Tutta la loro civiltà l'hanno rubata ai cinesi. E sai un'altra cosa? Loro discendono proprio dalle scimmie, non sono degli esseri umani veri e propri. Non è come combattere con dei veri uomini.»

«È vero» dissi io.

Naturalmente questo avveniva nel 1941 e nessuno si sognava di mettere in dubbio un'affermazione non scientifica come quella. Oggi sappiamo che neanche i cinesi possiedono una loro cultura. Sono passati tutti dalla parte dei rossi, da quella massa di formiche che sono. Per loro è una forma di vita naturale. Comunque non è cosí importante, perché prima o poi è inevitabile che sorgano dei problemi fra noi e loro. Un giorno dovremo dargli una bella ripassata, come abbiamo fatto con i giapponesi. E quando verrà il momento, lo faremo.

Non molto dopo quel 7 dicembre le autorità militari fecero affiggere degli avvisi sui pali del telefono in cui si intimava ai giapponesi di lasciare la California entro una certa data. A Seville - che si trova circa sessanta chilometri a sud di San Francisco - lavorava un certo numero di giapponesi: uno aveva un vivaio di fiori, un altro una drogheria... le tipiche attività commerciali a orario ridotto di cui erano soliti interessarsi, risparmiando fino all'ultimo centesimo, lasciando che i loro dieci figli svolgessero tutto il lavoro e vivendo in genere con una ciotola di riso al giorno. Nessun bianco può competere con loro, perché sono disposti a lavorare per niente. In ogni caso adesso dovevano andarsene, che gli piacesse o no. A mio modo di vedere, la cosa era per il loro stesso bene, perché molti di noi ce l'avevano con i giapponesi, accusandoli di compiere sabotaggi e di fare la spia. Al liceo di Seville un gruppetto di noi studenti inseguí un ragazzo giapponese e lo prese a calci in pubblico, per fargli vedere come la pensavamo. Per quanto ricordo, suo padre era un dentista.

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Pagina 61

Naturalmente, essendo un uomo maturo, non lo si poteva trattare come si trattano i bambini, e questo mi spaventava. Sotto certi aspetti erano anni che Jack mi spaventava; avevo sempre avuto l'impressione di non riuscire a prevedere ciò che avrebbe potuto fare o dire, quali idee innaturali potessero scaturire da lui... che considerasse i lampioni come figure autoritarie, per esempio, e i poliziotti come oggetti fatti di filo metallico. Sapevo che da bambino riteneva che le teste di molte persone prima o poi si sarebbero staccate dal collo; ce lo avea detto lui stesso. E sapevo anche che pensava che il suo insegnante di geometria al liceo fosse un gallo vestito da uomo... un'idea che poteva essergli venuta vedendo un vecchio film di Charlie Chaplin. Di sicuro quell'insegnante non aveva l'aspetto di un gallo quando si trovava di fronte alla classe.

Facciamo l'ipotesi che venga preso da un accesso di follia e che si metta a mangiare le pecore dei vicini. Nelle zone rurali l'uccisione delle pecore è un crimine molto grave, e chiunque uccida le greggi di solito viene fatto secco sul posto. Una volta un giovane contadino aveva spezzato il collo a tutti i vitelli per chilometri e chilometri... nessuno era riuscito a spiegarsi perché lo avesse fatto, ma di certo era l'equivalente rurale del piccolo malvivente di città che rompe i finestrini o buca le gomme. Il vandalismo di campagna, però, spesso comporta l'uccisione del colpevole, perché le proprietà di una fattoria si esprimono in termini di papere e galline, mucche da latte, agnelli e pecore, al limite capre. Alla nostra destra i Lardner, una vecchia coppia, allevavano capre, e di tanto in tanto ne uccidevano una e la mangiavano, potendosi concedere cose come stufato di capra e zuppa di capra. Per quelli che abitano in campagna una pecora di valore va difesa da ogni minaccia; di solito avvelenano i topi e sparano alle volpi, ai tassi, ai cani e ai gatti che non rispettano la regola, e io non facevo fatica a immaginare Jack preso a fucilate di notte, mentre strisciava sotto un recinto di filo spinato con un agnello sanguinante in bocca.

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Pagina 128

La donna era piuttosto piccola, con i capelli neri e folti annodati in una enorme coda di cavallo, al punto che la ritenni una forestiera. Il viso aveva una tonalità scura, come quello di un'italiana, ma il naso aveva l'ossuta prominenza degli indiani americani. Il mento era deciso e gli occhi grandi e bruni mi fissavano con tanta intensità che provai un senso di nervosismo. Dopo avermi detto salve si limitò a sorridere. Aveva dei denti aguzzi come quelli di un selvaggio, e anche quello mi mise a disagio. Indossava una camicetta verde di taglio maschile, che portava fuori dai pantaloni corti, e sandali dorati, e aveva una borsetta e una busta di stoffa e occhiali da sole. Vidi parcheggiata nel vialetto una nuova Ford giardinetta di un rosso brillante. Per certi aspetti quella donna mi sembrò bella da togliere il fiato, ma nello stesso tempo sentii che c'era qualcosa che non andava nelle sue proporzioni. La testa era un po' troppo grande rispetto alle spalle - ma forse era solo un'immagine ingannevole causata dai capelli neri e folti - e il petto aveva qualcosa di concavo, proprio di vuoto, e non sembrava affatto il petto di una donna. E anche i fianchi erano troppo stretti rispetto alle spalle, e di conseguenza le gambe erano troppo corte rispetto ai fianchi, e i piedi troppo piccoli rispetto alle gambe. Assomigliava a una piramide rovesciata.

Mi venne anche in mente che, malgrado dovesse avere trent'anni suonati, aveva l'aspetto di una quattordicenne un po' sottopeso, ma affascinante. Il suo corpo non era maturato, ma solo il suo volto. Era cresciuta fino a un certo punto, e quell'effetto di asimmetria non era un'illusione. Se la si guardava solo in viso dava un'impressione di assoluta bellezza, ma se la si osservava per intero, allora ci si rendeva conto che in lei c'era qualcosa di sbagliato, qualcosa di fondamentalmente sproporzionato.

La sua voce aveva un timbro rauco e stridente, con toni molto bassi. Cosí come gli occhi, anche la voce esprimeva un senso di autorità forte e intensa, e mi scoprii incapace di sottrarmi al suo sguardo. Benché non mi avesse mai visto prima - non mi avesse mai posato gli occhi addosso, come si dice - si comportava come se si fosse aspettata di vedere proprio me, come se già mi conoscesse. Il suo sorriso ne era una maliziosa confenna. Dopo un po' si fece avanti e io mi scostai per farla passare; lei entrò in casa, scivolando a piccoli passi senza fare il minimo rumore. Sembrava che fosse già stata lí perché si diresse senza esitazione verso il soggiorno e posò la borsetta su uno dei tavoli, lo stesso su cui Fay poggiava sempre la sua. Poi si voltò verso di me e disse:

«Hai mai avuto dolori di testa, di recente? Attorno alle tempie?» Alzò la mano e tracciò una linea lungo la fronte da un occhio all'altro. «Io sí. Lo sai che cos'è?» Volteggiò verso di me e si fermò a poca distanza. «È la corona di spine» disse. «Tutti dobbiamo portarla prima che il mondo possa finire e un nuovo mondo ne prenda il posto. Adesso la porto io. Da venerdí scorso, quando sono salita sulla croce e sono stata crocifissa e poi ho trascorso una notte nella tomba.» Sorridendomi, e tenendo i grandi occhi bruni fissi su di me, proseguí: «Ho dormito fuori per tutta la notte, al freddo, e non me ne sono nemmeno accorta. Mio marito e i miei figli non si sono resi conto della mia assenza; è stato come se il tempo si fosse fermato. Sono stata trasfigurata nell'eternità. L'intera casa vibrava... io l'ho vista vibrare, mio Dio, quasi stesse per sollevarsi nel cielo come un'astronave.»

«Capisco» dissi, incapace di distogliere gli occhi da lei.

«Per tutta la casa» proseguí «si librava una grande luce azzurra, come scintille crepitanti. Io giacevo al suolo e il fuoco di quell'astronave mi consumava. L'intera casa è diventata un'astronave pronta a lanciarsi nello spazio.»

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