Copertina
Autore Philip K. Dick
Titolo Cronache del dopobomba
EdizioneEinaudi, Torino, 1997, Tascabili Vertigo 466
OriginaleDoctor Bloodmoney. Or How We Got Along After The Bomb [1965]
CuratoreDaniele Brolli
TraduttoreGianni Pannofino
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe fantascienza
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al sito dell'editore








 

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Pagina 1 [ inizio libro ]

Di buon'ora, nella luce dorata del mattino, Stuart McConchie spazzava il marciapiede davanti alla Modern Tv Vendita e Riparazioni; sentiva il viavai delle auto lungo Shattuck Avenue, i tacchi alti delle segretarie che si affrettavano verso gli uffici, tutto il fermento e gli odori pungenti di una nuova settimana, un'altra settimana in cui un buon commesso poteva mandare in porto un mucchio di cose. Pensava alla bella brioche calda col caffè che avrebbe preso verso le dieci, come una seconda colazione. Pensava ai clienti coi quali aveva parlato: forse sarebbero tornati a comprare oggi stesso, tutti, e il suo registro delle vendite sarebbe traboccato come quella famosa coppa nella Bibbia. Spazzando cantava una canzone dal nuovo album di Buddy Greco. Si chiese quale impressione doveva fare essere famoso, un grande cantante famoso in tutto il mondo, che tutti pagavano per vedere in posti come Harrah's a Reno o nei club eleganti e costosi di Las Vegas che lui non aveva mai visto ma di cui aveva sentito tanto parlare.

Aveva ventisei anni e certi venerdí sera aveva guidato di notte sulla grande autostrada a dieci corsie da Berkeley fino a Sacramento e poi, attraverso le Sierras, fino a Reno, dove si poteva giocare d'azzardo e rimorchiare ragazze. Lavorava per Jim Fergesson, titolare della Modern Tv, a stipendio fisso piú le percentuali e, visto che era un buon venditore, guadagnava bene. E in ogni caso era il 1981 e gli affari non andavano male. Un altro anno di boom, con un ottimo inizio, con l'America che si faceva piú grande e forte, e tutti che portavano a casa piú soldi.

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Pagina 18

Guardando il calendario appeso in cucina, Bonny Keller vide che era il giorno in cui il suo amico Bruno Bluthgeld doveva vedere lo psichiatra, il dottor Stockstill, che aveva curato anche lei. Anzi, ormai doveva aver già finito l'ora di terapia e adesso stava probabilmente tornando in macchina a Livermore e al suo studio nel Laboratorio di Radiazioni, lo stesso laboratorio in cui anche lei aveva lavorato anni fa prima di rimanere incinta. L'aveva conosciuto là, nel 1975. Adesso lei aveva trentun anni e abitava a West Marin. Suo marito, George, era diventato vicepreside del liceo locale e lei era molto felice.

Be', non proprio molto, ecco. Solo moderatamente, tollerabilmente felice. Andava ancora dallo psicanalista, una sola volta alla settimana invece di tre, e per certi versi capiva se stessa, i propri impulsi inconsci e le distorsioni sistematiche paratattiche della realtà. La psicanalisi, sei anni di psicanalisi, avevano fatto molto per lei, ma Bonny Keller non era guarita. La guarigione vera non esisteva: la malattia era la vita stessa, e una crescita costante (o meglio, un adattamento funzionale crescente) era indispensabile, altrimenti la conseguenza sarebbe stata un ristagno psichico.

Lei era decisa a non ristagnare. Per esempio, adesso stava leggendo Il declino dell'Occidente nella versione originale tedesca; ne aveva già lette cinquanta pagine, e ne valeva la pena. A quanto le risultava, tra i suoi conoscenti nessuno aveva letto quel libro, nemmeno in inglese.

Il suo interesse per la cultura tedesca, per le opere letterarie e filosofiche di quella cultura, aveva avuto inizio anni prima grazie al suo contatto con il dottor Bluthgeld. Anche se all'università aveva studiato tedesco per tre anni, non lo aveva considerato una parte essenziale della sua vita adulta; come tante altre cose che aveva studiato, si era depositato nell'inconscio una volta conseguita la laurea e trovato un impiego. La presenza magnetica di Bluthgeld aveva riattivato e ampliato parecchi interessi accademici di Bonny Keller, il suo amore per la musica e per l'arte... Sí, doveva molto a Bluthgeld, e si sentiva riconoscente.

Adesso, naturalmente, Bluthgeld era malato, e quasi tutti a Livermore lo sapevano. Era un uomo di coscienza e non aveva mai cessato di soffrire per quell'errore del 1972, sebbene, come sapevano tutti coloro che lavoravano a Livermore allora, non fosse stato il diretto responsabile. Ma era stato lui stesso a considerarsi tale, tanto da ammalarsi, peggiorando di anno in anno.

Una quantità di gente specializzata, le apparecchiature piú perfette, i calcolatori elettronici piú moderni per quell'epoca c'entravano per qualche verso nei calcoli errati; non si trattava di errori veri e propri, se si considerava la somma delle conoscenze disponibili a quel tempo. Erano tali solo se si pensava alla gravità delle conseguene. Le enormi masse di nuvole radioattive non si erano allontanate, ma erano state attratte dal campo di gravitazione terrestre ed erano ritornate nell'atmosfera; nessuno ne era stato piú sbalordito del personale di Livermore.

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Pagina 136

Edie parve riflettere, poi disse: - Be' a lui... ehm, piace sentir parlare di roba da mangiare.

- Roba da mangiare? - sbottò Stockstill sbalordito.

- Sí. Lui non mangia, sa. Gli piace che io continui a ripetergli che cosa ho mangiato a pranzo perché, dopo un po', arriva anche a lui... almeno credo. Dev'essere cosí, no, perché possa rimanere in vita?

- Certo - convenne Stockstill.

- Lo riceve da me - disse Edie mentre si rimetteva la camicetta e si abbottonava adagio. - E cosí vuol sapere che cosa c'è dentro. Gli piacciono soprattutto le mele o le arance. E poi... gli piace sentire delle storie. Vuole sempre che gli parli di certi posti, specialmente posti lontani, come New York. Mia madre mi racconta di New York e io lo racconto a lui. Vuole andarci, un giorno o l'altro, e vedere com'è.

- Ma non può vedere.

- Ma io sí - osservò Edie. - Ed è quasi la stessa cosa.

- Tu ti prendi cura di lui, vero? - chiese Stockstill commosso. Per la ragazzina era una cosa normale, aveva vissuto cosí tutta la vita e non sapeva che avrebbe potuto essere diverso. Ancora una volta il medico constatava che non c'era niente di inconcepibile nella natura, era logicamente impossibile che ci fosse. Sotto un certo aspetto, non esistono né anormalità né curiosità, se non in senso statistico. Esiste una situazione insolita, ma niente che debba farci inorridire, anzi, dovrebbe farci piacere. La vita, di per sé, è una cosa buona, qualunque sia la forma che assume. Nel caso di Edie, poi, non c'era particolare sofferenza, né crudeltà o dolore, anzi, soltanto tenerezza e sollecitudine.

D'improvviso la bambina disse: - Ho solo paura che un giorno possa morire.

Non credo, cara - disse Stockstill. - La cosa piú probabile è che diventi piú grande. E questo potrebbe rappresentare un problema, il tuo corpo avrebbe difficoltà a contenerlo.

- E che succederebbe allora? - Edie lo guardò con i grandi occhi scuri - - Allora potrebbe nascere?

- No - disse il medico. - La posizione non lo permette, dovrebbe toglierlo un chirurgo, ma allora... non potrebbe vivere. Il solo modo è che continui a vivere come ora, dentro di te -. Come un parassita, pensò, senza pronunciare le parole. - Di questo ci preoccuperemo a suo tempo - disse accarezzando la testa della bambina. - Se mai sarà il caso.

- Mia madre e mio padre non lo sanno - disse Edie.

- Me ne rendo conto - disse il medico.

- Io gliel'ho detto - disse Edie. - Ma loro... - si mise a ridere.

- Tu non preoccuparti. Continua a fare come hai sempre fatto. Andrà tutto a posto.

Edie disse: - Sono contenta di avere un fratello. Cosí non mi sento sola. Anche quando dorme, lo sento, sento che c'è. E' come se avessi un bambino dentro di me. Non posso portarlo in giro in carrozzella, o vestirlo o cose del genere, ma posso parlargli e ci divertiamo un sacco. Per esempio, gli racconto sempre di Mildred.

- Mildred! - Stockstill non capiva.

- Ma sí -. La bambina sorrise per la sua ignoranza.

- Quella ragazza che continua a tornare da Philip. E gli rovina la vita. Tutte le sere ascoltiamo il satellite.

- Ah, è vero -. Era la lettura del romanzo, fatta da Dangerfield. Fantastico, pensò il medico. Quel parassita che le gonfiava il corpo, immerso nell'umida oscurità, nutrito dal suo sangue, ascoltava, chissà come, il racconto di seconda mano di un famoso romanzo... e cosí entrava a far parte della loro cultura, e aveva anche una sua grottesca vita sociale. Chissà cosa ricava da quella storia? Chissà se ci fantastica sopra, sul romanzo, sulla nostra vita? pensò il medico. Chissà se sogna di noi?

Chinandosi, il dottor Stockstill baciò la bambina sulla fronte. - Benissimo - le disse accompagnandola alla porta. - Adesso puoi andare. Io parlerò un momento con i tuoi genitori. Guarda, nella sala d'aspetto ci sono delle riviste di prima della guerra... vecchie, ma molto belle. Puoi leggerle, ma fai attenzione a non sciuparle.

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Pagina 252 [ fine libro ]

[...] Che ne direste se facessimo colazione? Abbiamo tre uova da dividere fra noi. Mio marito è riuscito ad averle da un venditore ambulante, la settimana scorsa. - Uova - ripete Gill. - Di che specie? Di gallina?

- Sono grosse e scure - disse la signora Hardy. - Credo di sí... però non si può esserne certi, finché non le apriamo.

Bonny disse: - Che meraviglia! - Aveva una gran fame. - Credo comunque che dovremmo pagarvele, ci avete dato già tanto... un posto per dormire e anche la cena di ieri sera.

- Siamo soci d'affari - osservò la signora Hardy. - Tutto quello che abbiamo si deve dividere, no?

- Ma io non ho niente da offrire -. Bonny si sentiva desolata, e chinò il capo. Posso soltanto prendere, pensò, senza dare niente.

Ma gli altri non sembravano dello stesso parere. La signora Hardy la prese per mano e la condusse verso la cucina. - Può aiutarmi - spiegò. - Abbiamo anche delle patate. Può pelarle. Serviamo la colazione ai nostri dipendenti, mangiamo sempre insieme... costa meno, e loro non hanno cucina, vivono in stanze d'affitto... Stuart e gli altri. Dobbiamo occuparci di loro.

Siete della gran brava gente, pensò Bonny. Dunque, questa è la città, questo è il posto che abbiamo evitato finora. Avevamo sentito storie spaventose... di ammassi di macerie, con predoni che strisciavano ovunque, e derelitti e sfruttatori e ladri, la feccia peggiore... ed eravamo fuggiti da questo, anche prima della guerra. Avevamo già troppa paura di vivere qui.

Mentre entravano in cucina, sentí Stuart McConchie che diceva a Dean Hardy: - ... e oltre a suonare il flauto da naso, questo topo... - s'interruppe vedendola entrare - un aneddoto sulla vita dalle nostre parti - si scusò. - Potrebbe sconvolgerla. In realtà sono animali intelligenti, e molti li trovano sgradevoli.

- No, mi racconti - disse Bonny. - Mi racconti del topo che suona il flauto da naso.

- Può darsi che mi confonda e metta insieme due animali intelligenti - disse Stuart, scaldando l'acqua per il surrogato di caffè.

Trafficò con il pentolino poi, soddisfatto, si appoggiò contro la stufa a legna, le mani in tasca. - Comunque, mi pare che quel veterano dicesse che il topo sapeva anche tenere la contabilità in modo rudimentale. Ma forse sbaglio -. Corrugò la fronte.

- Io ci credo - gli disse Bonny.

- Ci servirebbe proprio un topo come quello, qui da noi - disse Hardy. - Avremo bisogno di un buon contabile, con i nostri affari che si stanno espandendo.

Fuori, sulla San Pablo Avenue, i carri cominciavano a muoversi. Bonny sentiva il rumore secco degli zoccoli dei cavalli. Sentiva l'attività cittadina risvegliarsi e si avvicinò alla finestra per guardar fuori. C'erano anche delle biciclette e un gigantesco vecchio camion a legna. E poi un mare di gente, a piedi.

Da una capanna di legno spuntò un animale, attraversò cauto la zona scoperta e scomparve sotto la veranda di una casa che si trovava dall'altra parte della strada.

Dopo un attimo ricomparve, questa volta seguito da un altro animale; erano entrambi tozzi, con le gambe corte, forse erano dei bulldog mutanti. Il secondo animale trascinava una specie di slitta, carica soprattutto di viveri. L'arnese sobbalzava sul marciapiede, dietro i due che correvano a cercar riparo.

Bonny continuò a guardare attenta dalla finestra, ma i due animali non ricomparvero. Stava per voltarsi, quando vide qualcos'altro che iniziava la sua attività quotidiana. Era un guscio di metallo, rotondo e mimetico, color fango, e cosparso di foglie e rametti. Balzò fuori, si fermò, alzò due esili antenne tremanti nel sole mattutino.

Cosa diavolo è quella roba? si domandò Bonny. Poi capí che stava assistendo al funzionamento di una Trappola Omeostatica Hardy.

Buona fortuna, pensò.

La trappola, dopo aver sostato ed esplorato in tutte le direzioni, esitò. Infine, un po' incerta, si avviò sulle tracce dei due bulldog mutanti. Sparí dietro l'angolo di una casa vicina. Era solenne e dignitosa e cosí lenta nel suo inseguimento che Bonny non poté fare a meno di sorridere.

La giornata di lavoro era iniziata. Tutt'intorno a lei, la città si svegliava, tornando ancora una volta alla sua vita di sempre.

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