Copertina
Autore Philip K. Dick
Titolo Un Oscuro Scrutare
EdizioneFanucci, Roma, 2002 [1998], AvantPop , pag. 348, dim. 123x180x22 mm , Isbn 978-88-347-0627-5
OriginaleA Scanner Darkly [1977]
TraduttoreGabriele Frasca
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe fantascienza
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

CAPITOLO PRIMO



Una volta un tizio stette tutto il giorno a frugarsi in testa cercando pidocchi. Il dottore gli aveva detto che non ne aveva. Dopo una doccia di otto ore, in piedi un'ora dopo l'altra sotto l'acqua bollente a sopportare le stesse pene dei pidocchi, uscì e s'asciugò, con gli insetti ancora nei capelli; anzi ne aveva oramai su tutto il corpo. Un mese più tardi gli erano arrivati fin dentro i polmoni.

Non avendo altre cose da fare o cui pensare, cominciò a occuparsi in via teorica del ciclo vitale dei pidocchi e, con l'aiuto dell'Enciclopedia Britannica, cercò di determinare a quale tipo appartenessero. Oramai gli avevano infestato la casa. Lesse di molte differenti varietà, finché non ebbe modo di notare la presenza di pidocchi anche nelle vicinanze di casa sua, cosicché concluse trattarsi di afidi. Dopo che tale conclusione gli s'infisse nella mente, non la modificò più, malgrado ciò che gli dicessero gli altri... che, ad esempio, "gli afidi non morsicano gli uomini".

Glielo dicevano perché le incessanti morsicature dei pidocchi lo tormentavano costantemente. Aveva preso l'abitudine di acquistare al 7-11, che apparteneva a una catena di negozi diffusa in quasi tutta la California, bombolette spray di Raid, Black Flag e Yard Guard. Spruzzava inizialmente tutta la casa, poi se stesso. Yard Guard sembrava essere il prodotto più efficace.

Da un punto di vista teorico, aveva potuto notare tre stadi nel ciclo evolutivo dei pidocchi. Durante il primo di questi, gli insetti erano stati portati per contaminarlo da quelli che chiamava i Portatori, persone ignare del ruolo che svolgevano nella loro diffusione. In questo stadio i pidocchi non avevano ancora mascelle o mandibole (imparò quest'ultima parola nelle settimane trascorse in ricerche scientifiche; un'occupazione libresca inusuale per un tipo che lavorava alla Freni e Pneumatici Per Tutti, a rifare le ganasce dei freni alla gente). Era questo il motivo per cui i Portatori non s'accorgevano di nulla. Lui se ne restava di solito seduto nell'angolo più lontano del soggiorno a guardare entrare i diversi Portatori (molti dei quali erano suoi conoscenti mentre altri gli erano ignoti del tutto) ricoperti di afidi ancora in questo particolare stadio amandibolare. Dentro di sé, allora, gli si allargava una sorta di sorriso, perché sapeva che quegli individui erano usati dai pidocchi e ne erano ignari.

«Cos'hai da sogghignare, Jerry?» gli domandavano.

E lui si limitava a sorridere.

Nello stadio successivo i pidocchi mettevano ali o qualcosa del genere, perché in realtà non erano proprio ali; a ogni modo, erano appendici di una certa funzionalità che consentivano loro di sciamare, essendo questo il modo in cui migravano e si propagavano... specialmente verso di lui. In questa seconda fase l'aria prendeva a pullullare d'insetti, al punto che il soggiorno, e poi la casa intera, s'oscurava, come se l'avvolgesse una nube. Fin quando durava questo stadio, tentava di non inalarne.

Gli dispiaceva soprattutto per il suo cane, perché poteva vedere i pidocchi posarglisi addosso e insediarsi in ogni parte del suo corpo, entrandogli presumibilmente fin dentro i polmoni, come avevano già fatto con lui. Probabilmente il cane soffriva alla sua stessa maniera (o quanto meno questo gli suggeriva la sua capacità empatica). Non sarebbe allora stato meglio dare via il cane per il suo stesso bene? No, decise; il cane, per sbadataggine, era oramai infetto, sicché avrebbe portato i pidocchi con sé dappertutto.

A volte restava sotto la doccia con il cane, cercando di lavare per bene anche lui. Ma non aveva più successo con lui di quanto ne avesse con se stesso. Gli faceva male sentire che il cane soffriva; e continuava a tentare di aiutarlo. Da un certo punto di vista questa era la parte peggiore della faccenda: la sofferenza dell'animale che non poteva lamentarsi.

«Che cazzo fai tutto il santo giorno sotto la doccia con quel dannato cane?» gli chiese una volta il suo amicone Charles Freck, appena entrato dalla porta.

Jerry rispose: «Devo togliergli gli afidi.» Portò Max, il cane, fuori dalla doccia e prese ad asciugarlo. Charles Freck lo guardò interdetto strofinare la pelliccia del cane con olio per bambini e borotalco. In tutta la casa, qua e là, s'ammonticchiavano bombolerte d'insetticida, scatole di borotalco e flaconi di olio per bambini e di crema per la pelle, la maggior parte dei quali vuoti; di roba di quel tipo ne consumava tantissima.

«Non vedo afidi,» disse Charles. «Ma che cos'è un afide?»

«Alla fine ti ammazza,» disse Jerry. «Ecco che cos'è un afide. Li ho nei capelli, sulla pelle, nei polmoni; e lo stramaledetto dolore è insopportabile... Dovrò farmi ricoverare.»

«Com'è che non li vedo?»

Jerry mise giù il cane, che era avvolto in un asciugamano, e s'inginocchiò sul tappetino setoloso. «Te ne mostrerò uno,» disse. Il tappetino era pieno di afidi; saltavano dappertutto, su e giù, alcuni più in alto di altri. Ne cercò uno particolarmente grosso, data la difficoltà che mostravano le persone a distinguerli. «Prendimi una bottiglia o un barattolo,» disse, «da sotto il lavello. Poi la tappiamo o le mettiamo sopra un qualsiasi coperchio, così potrò portarmi dietro dal dottore uno di questi afidi per farglielo esaminare.»

Charles Freck gli portò un barattolo vuoto di maionese. Jerry continuò a cercare, imbattendosi infine in un afide che faceva salti per lo meno di un metro e mezzo. Era lungo più di due centimetri. Lo prese, lo portò fino al barattolo, lo lasciò cadere dentro con cautela e ci avvitò sopra il coperchio. Poi, con aria trionfante, lo sollevò. «Lo vedi?» disse.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 90

Tutto ciò dava in più alle autorità l'opportunità di effettuare una piccola perquisizione illegale, ben più approfondita di quelle che i loro agenti in incognito normalmente facevano quando nessuno li guardava. Avrebbero avuto il tempo e l'agio di estrarre tutti i cassetti delle scrivanie, per vedere che cosa vi fosse appiccicato sul fondo. Avrebbero avuto il tempo e l'agio di svitare le lampade a stelo per vedere se non saltassero fuori centinaia di pasticche. Avrebbero avuto il tempo e l'agio di guardare nella tazza del cesso, per vedere che tipo di pacchetti avvolti nella carta igienica fossero stati collocati fuori da sguardi indiscreti, dove l'acqua dello scarico li avrebbe automaticamente travolti. Avrebbero avuto il tempo e l'agio di ispezionare il congelatore del frigorifero, per vedere se qualcuno dei pacchi di piselli e fagioli surgelati non contenesse in realtà droga surgelata opportunamente camuffata. Nel frattempo sarebbero state montate le complesse olocamere, e gli agenti si sarebbero seduti nelle varie parti della casa per provare le migliori angolazioni. Lo stesso sarebbe avvenuto coi microfoni. Ma la parte video era più importante e prendeva normalmente più tempo. E, naturalmente, le spie audio e video sarebbero dovute risultare invisibili. Per montarle in tal modo occorreva una certa abilità. Bisognava provare un certo numero di diverse collocazioni. I tecnici che facevano questo lavoro venivano ben retribuiti, dal momento che se avessero sgarrato e un'olocamera fosse stata in seguito scoperta da uno di quelli che abitavano in quella casa, allora tutti gli altri inquilini si sarebbero accorti che gli agenti si erano intrufolati e avevano messo tutto sotto controllo, così che avrebbero finito col normalizzare le loro attività. E, come se non bastasse, a volte capitava che cavavano via dalle pareti l'intero sistema di controllo e se lo rivendevano.

S'era rivelato arduo in tribunale, rit1etteva Bob Arctor guidando sull'autostrada di San Diego in direzione sud, ottenere un verdetto di colpevolezza per furto e ricettazione di strumenti investigativi elettronici illegalmente installati in casa di qualcuno. La polizia avrebbe potuto soltanto appigliarsi a qualcos'altro, a un'eventuale altra violazione del codice. Comunque, gli spacciatori, in situazioni analoghe, reagivano in maniera più esplicita. Ricordava il caso di uno spacciatore d'eroina che, per incastrare una pollastrella, le aveva piazzato due sacchetti di roba nel manico del ferro da stiro; poi aveva fatto una soffiata telefonica anonima all'apposito numero del servizio INFORMATECI, denunciandola. Prima che la soffiata sortisse qualche effetto, la pollastrella aveva trovato l'eroina e invece di disfarsene l'aveva venduta. La polizia, giunta sul posto, non aveva trovato nulla; così, aveva eseguito un esame sulle impronte sonore della registrazione della soffiata e aveva arrestato lo spacciatore per aver fornito false informazioni alle autorità. Una volta fuori su cauzione, lo spacciatore s'era recato a notte fonda a far visita alla pollastrella e l'aveva picchiata quasi a morte. Arrestato nuovamente, quando gli avevano chiesto perché le avesse cavato un occhio e rotto entrambe le braccia e diverse costole, lo spacciatore aveva spiegato che la pollastrella era entrata in possesso di due sacchetti di eroina di ottima qualità che gli appartenevano, e li aveva venduti con buon profitto senza dividere il ricavato con lui. Ecco come, rif1etté Arctor, funzionava la mentalità di uno spacciatore.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 103

Barris comparve al finestrino e disse: «Bob, vuoi un pezzetto di merda di cane? Da masticare?»

Aprendo gli occhi, raggelato, Arctor lo fissò. Gli occhi di Barris, morti dietro le sue lenti verdi, non facevano trapelare alcunché, alcun indizio. Lo ha veramente detto? si chiese Arctor. O è stata la mia testa a inventarsi tutto? «Cosa, Jim?» disse.

Barris cominciò a ridere, e ridere e ridere.

«Lascialo in pace, capito?» disse Luckman dandogli un pugno sulla schiena. «Vaffanculo, Barris!»

Arctor chiese a Luckman: «Che cos'è che ha appena detto? Che cazzo m'ha detto esattamente.»

«Non lo so,» rispose Luckman. «Quando Barris dice qualcosa a qualcuno ne capisco a malapena la metà.»

Barris stava ancora sorridendo, ma era diventato silenzioso.

«Stramaledetto Barris,» gli disse Arctor. «Lo so che sei stato tu a farlo. Sei stato tu a manomettere il cefoscopio e adesso anche l'auto. Sei stato tu, cazzo!, tu, bastardo d'un tossico pervertito.» Non riusciva quasi a sentire la propria voce, ma mentre urlava queste cose a Barris che ancora sorrideva, quel tremendo puzzo di merda di cane cresceva. Non cercò più di parlare e rimase seduto al volante, ormai inutile, della sua auto, tentando di non vomitare. Grazie a Dio c'era anche Luckman, pensò. O altrimenti oggi per me sarebbe finita. Cazzo! Sarebbe finita a causa di questo strafatto verme fottuto, questo figlio di puttana che abita proprio nella mia stessa casa.

«Calmati, Bob.» La voce di Luckman gli giungeva filtrata dai conati di vomito.

«Lo so che è stato lui,» disse Arctor.

«Ma che diavolo, e perché?» gli sembrò che Luckman dicesse, o tentasse di dire. «In questo modo ci sarebbe rimasto secco anche lui. Perché, amico? Perché?»

| << |  <  |