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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 7 Dal «libertinismo erudito» al libertinismo filosofico e mondano del Settecento 1. DENIS DIDEROT (1713-1784). PASSIONI E SOVVERSIONI. 13 LA CRITICA DEL POTERE NEI GIOIELLI INDISCRETI I GIOIELLI INDISCRETI (1748, estratti) 19 Capitolo IX Stato dell'Accademia delle scienze di Banza 19 Capitolo X Meno erudito e meno noioso del precedente SEGUITO DELLA SEDUTA ACCADEMICA 22 Capitolo XV I Bramini 24 Capitolo XVI Visione di Mangogul 28 Capitolo XVII Le museruole 33 Capitolo XVIII Dei Viaggiatori 35 Capitolo XIX Della figura degli isolani e della toletta delle donne 41 Capitolo XX Le due devote 46 Capitolo XXI Ritorno del gioielliere 50 Capitolo XXII Settima prova dell'anello. IL GIOIELLO SOFFOCATO 52 Capitolo XXV Assaggio della morale di Mangogul 54 Capitolo XVI Decima prova dell'anello. I CAGNETTI BIRBONCELLI 58 Capitolo XXIX Metafisica di Mirzoza. LE ANIME 63 Capitolo XXX Seguito della conversazione precedente 70 Capitolo XXXI Tredicesima prova dell'anello. LA PICCOLA GIUMENTA 72 Capitolo XXXII Il migliore, forse, e il meno letto di questa storia. SOGNO DI MANGOGUL, OSSIA IL VIAGGIO NELLA REGIONE DELLE IPOTESI 74 Capitolo XL Sogno di Mirzoza 77 Capitolo XLI Ventunesima e ventiduesima prova dell'anello. FRICAMONE E CALLIPIGA 81 Capitolo XLII - I Sogni 84 Capitolo XLIII - Ventitreesima prova dell'anello. FANNI 88 Capitolo XLVII Ventiseiesima prova dell'anello. Il gioiello viaggiatore 95 Capitolo LIII L'Amore platonico 99 Capitolo LIV Trentesima e ultima prova dell'anello. MIRZOZA 105 2. JULIEN OFFRAY DE LA MEITRIE (1709-1751). IL PIACERE, LA LIBERTภ, LA CRITICA: L'ARTE DI GODERE 107 L'ARTE DI GODERE (1751) 115 APPENDICE 143 Antologia di articoli dell'Encyclopédie, ou Dictionnaire Raisonné des Sciences, des Arts et des Métiers, 28 vol., Paris, 1751-1772. «Amore»; «Beatitudine»; «Felicità»; «Gaiezza»; «Gioia»; «Godimento»; «Libertinaggio»; «Piacere»; «Voluttà». INDICE DEI NOMI 217 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Si tratta sempre di destituire le Idee e di mostrare che l'incorporeo non è in altezza, ma alla superficie, che non è la Causa più alta, ma l'effetto superficiale per eccellenza, che non è Essenza, ma evento. G. Deleuze Il termine latino libertinus e la sua ricomparsa in epoca moderna, durante le guerre di religione, sono legati alle intime vicende della società borghese e alla costituzione storica della sua morale razionale e «naturale». Il libertinismo è un tratto costitutivo essenziale della coscienza borghese moderna. L'origine latina antica faceva riferimento, in età repubblicana, ai figli del libertus, lo schiavo affrancato, che venivano chiamati libertini per distinguerli dai padri liberti. In età imperiale la distinzione cade e i due soggetti vengono assimilati in un uso indifferenziato del termine. In tale contesto, nella storia del diritto romano, si distinguevano i figli degli uomini liberi, chiamati ingenuus, dai figli degli affrancati, i libertini appunto. Distinzione di censo e di classe. Osservò Paul Valéry nel 1938: Molto più tardi si chiamarono libertini coloro i quali pretendevano di aver liberato i propri pensieri. Presto quel bel titolo venne riservato a coloro che non conoscevano catene nell'ordine dei costumi. Più tardi ancora, la libertà divenne un ideale, un mito, un fermento... Valery condensa in poche righe una storia tormentatissima. Anche le Sacre Scritture testimoniano di un uso del nome libertini per indicare i discendenti degli Ebrei fatti schiavi da Pompeo nel 63 a.C. e in seguito affrancati, donde il nome della sinagoga di Gerusalemme («degli Affrancati» legge il traduttore) cui i «Libertini» facevano capo, insieme a Cirenei, Cilici, Alessandrini e Asiatici. Sono coloro - ebrei anticristiani - che «insorsero» (surrexerunt) contro la sapienza di Stefano Diacono, «pieno di grazia e di fortezza», il quale andava predicando la lieta novella a Gerusalemme. | << | < | > | >> |Pagina 13Il futuro direttore dell' Encyclopédie (1751-1772) la maggiore impresa editoriale e filosofica collettiva del secolo XVIII era di umili origini. Figlio di un agiato artigiano coltellinaio di Langres, piccolo centro della Haute Marne, a circa trecento chilometri a sud della capitale, Denis Diderot era destinato dalla famiglia a divenire abate, allievo del collegio gesuitico della sua città, come lo zio canonico, dal quale avrebbe dovuto ereditare benefici e prebende. Svanita assai presto la fragile vocazione, al sole degli studi letterari e scientifici, ferito nell'animo dalla tragedia occorsa all'amata srette Angélique morta giovanissima, folle, suicida nel convento delle Orsoline, nell'anno stesso in cui scriverà i Gioielli indiscreti (1748) Denis in quell'anno tragico prende anche la responsabilità di coordinatore in capo dell'opera enciclopedica, di cui era stato fino ad allora un semplice traduttore. Eco della vicenda dolorosa della sorella si avrà, molto più tardi, nel romanzo clandestino La monaca (1772, ed. postumo 1798), una delle più cocenti critiche della vita monastica, quadro perfetto del lesbismo e della sessualità delle religiose recluse che ancora negli anni sessanta del secolo scorso doveva fare scandalo, nella versione cinematografica della nouvelle vague. ศ in questo contesto umano e intellettuale che va collocato il fuoco d'artificio libertino dei Gioielli. Opera di fantasia, la prima in cui si cimentò Diderot, alla vigilia dei grandi romanzi «distruttori»: Jacques il fatalista e il suo padrone (1778-1780), Il nipote di Rameau (1762) e La monaca (cui s'ispirerà, più tardi, Alessandro Manzoni per la figura della monaca di Monza), i Gioielli sono un'opera di critica politica, ironica e amara che prende di mira ogni genere di costrizione politica e morale: narrano la storia del regno del Congo (la Francia), con capitale Banza (Parigi), e del suo mitico re, Mangogul (Luigi XV), alle prese con la vita di corte. L'occupazione principale del monarca è ammazzare la noia, con l'aiuto della favorita del suo Harem antipodo immaginifico del convento delle Orsoline in cui morì Angelique Diderot , la filosofa Mirzoza (Madame de Pompadour o Madame de Puisieux), le sue cortigiane e il soccorso di un mago, Cucufa, il quale fa dono al sovrano di un anello magico che ha la virtù di far parlare le parti intime (i «gioielli») delle donne di corte, indipendentemente dal volere delle loro proprietarie. L'idea non è originale. Già C. Crébillon fils (1707-1777), nel Sofà (1742), fece parlare i divani sui quali altre protagoniste avevano vissuto vicende erotiche interessanti. La novità di Diderot consiste nel mélange di serio e di ironico, di filosofia e di satira, nella critica feroce dei costumi cortigiani che il philosophe impietosamente mette in scena con grande abilità di scrittore. I Gioielli conosceranno un successo editoriale immenso, per tutto Settecento e oltre, più di ogni altra opera di Diderot, quanto a numero di edizioni e a loro diffusione. L'occasione biografica del romanzo spiega anche questa natura ambigua: Madame de Puisieux, fascinosa cortigiana di cui Diderot era divenuto l'amante, aveva lanciato una sfida al suo philosophe, asserendo in pubblico che lui, con la sua profondità e serietà, non sarebbe mai stato in grado di scrivere una «cosetta più leggera», alla Crébillon o Dudos. Quale affronto! mai sfida galante fu meglio raccolta. La struttura narrativa è assai semplice. Trenta «saggi dell'anello» - altrettante storie narrate dai gioielli al regale uditore, grazie allo sfregamento dell'anello sulle soggette vengono intercalate da numerose parabole filosofiche sui temi più svariati (sedute accademiche, visioni, sogni, parabole cortigiane ecc.). I saggi sono strutturati nella maniera seguente: 1) c'è un'esperienza vissuta e segreta che viene raccontata, in tutta la sua cruda verità, dai gioielli stessi; 2) Due primi sguardi, altrettanto segreti, quello del soggetto che l'ha vissuta e la riscopre e quello del sovrano guardone; 3) un secondo sguardo critico, quello della Ragione filosofica, incarnata nella parola della favorita del Sultano, Mirzoza, la quale giudica e mette tutto in pezzi, ricostruendo poi il senso complessivo della vicenda narrata, per passare, infine, al «saggio» successivo. ศ una dinamica di alienazione dei soggetti non più padroni del senso delle loro esperienze, la cui verità appartiene ai «gioielli» e di riappropriazione di sé, grazie all'opera rappresentativa di altri soggetti che la ascoltano e la interpretano. L'«onirocritica» ovvero la critica del sogno e delle visioni del re e delle cortigiane (dei loro gioielli) appartiene allo sguardo sovrano della Ragione, ed è in fin dei conti una critica dell'impotenza del Potere. L'universo dei Gioielli è quello definalizzato e senza dio della nuova scienza della natura vivente, in grado di darsi da sé tutte le forme e tutti i contenuti. La coscienza pervertita dei soggetti è messa a nudo in modo impietoso, in un crescendo di forza narrativa che trova il culmine nell'episodio del «gioiello viaggiatore» (cap. 47), il quale nelle diverse lingue straniere delle contrade in cui ha vissuto, parla passivamente delle proprie vicende sessuali. L'alienazione s'esprime nella lingua, con l'uso dell'inglese, del latino e dell'italiano, in serie, a marcare la condizione di non-verità, di perdita di sé in cui vivono le persone delle proprietarie dei gioielli. Resta poco, dunque, della graziosa e lasciva semplicità orientale dei sofà di Crébillon. C'è della filosofia, qui, dell'alta filosofia come indagine scanzonata delle verità scientifiche e morali più essenziali e una critica spietata delle menzogne della vita di corte, delle ricchezze cortigiane, dei potenti del tempo di Luigi XV. E c'è infine l'affermazione del potere incoercibile degli istinti, dell' eros, sulle coscienze e sulle volontà: piacere e godere sono imperativi naturali che non dipendono dalle buone volontà dei soggetti. Questa lieve «intemperanza di spirito» come la definì lo stesso Diderot al marchese di Chàtelet, luogotenente della prigione di Vincennes, nel luglio 1749 insieme alla Passeggiata dello scettico (1747) e alla Lettera sui ciechi (1749), costarono al philosophe tre mesi di galera. Da allora in poi Diderot scelse la clandestinità. Le opere maggiori (Sogno di D'Alembert, Nipote di Rameau ecc.) pervenuteci, sono per lo più postume. Quali, dal punto di vista ideologico, i connotati comuni rispetto a testi analoghi del tempo, come L'Arte di godere, di J. O. de La Mettrie, che presentiamo insieme ai Gioielli? 1) il materialismo: ossia l'affermazione di un universo naturale unico, storico e umano, non diviso in materia e spirito ma tutto solo materia, retto dalle leggi invariabili proprie dei corpi fisici, nelle diverse versioni (atomismo, meccanicismo cartesiano, vitalismo), con conseguente negazione dell'esistenza di pretese sostanze spirituali: anima e dio. I «gioielli» sono una potenza naturale che esplica la propria azione in modo del tutto autonomo rispetto al giudizio e al pensiero degli uomini. Le leggi della materia vivente regolano tali azioni. 2) l' edonismo, ovvero l'affermazione di un'etica utilitaristica, fondata sul principio del «Piacere, sovrano signore degli uomini e degli dei» (La Mettrie, L'Arte di godere, infra), che può sfociare in forme diverse d'immoralismo ironico (Diderot), che mettono in questione la credibilità di una «virtù» tutta fatta di apparenze; l'amoralismo (La Mettrie) ovvero una morale eteronoma (ancora Diderot) che insiste sul legame sociale costituente dell'apparato delle leggi e il carattere passivo, dipendente, rispetto ad esso, dei cosiddetti valori. In quest'ultimo caso, l'etica libertina che è anche un'etica dello smascheramento non va in cerca di fondamenti trascendenti o assoluti delle proposizioni e delle massime filosofiche da essa affermate, né trascendentali alla Kant (imperativi categorici: «fa' come se la massima del tuo agire individuale possa valere quale principio di una legislazione universale»), bensì solo di regole sociali naturali atte a indirizzare la condotta degli uomini, garantendo l'equilibrio della comunità. O meglio, regole atte a calcolare, da premesse razionali, l'effetto positivo o negativo di determinate strategie edonistiche volte al soddisfacimento di bisogni vitali, individuali o sociali. Il carattere ritenuto sovversivo, rispetto ai poteri costituiti, di questa morale eteronoma è testimoniato anche dall'antologia delle voci dell' Encyclopédie raccolte qui in Appendice, in particolare le voci «Libertinaggio» e «Libertino», in sintonia con la gran parte dei Dizionari di lingua dell'età moderna. Il godimento e il piacere, l' Eros materialista, in particolare, sono percepiti dai redattori delle Accademie come una minaccia per l'equilibrio stesso delle società politiche. Per quale ragione? Perché scardinano, con la loro verità fisica e immediata, le false apparenze che tentano di celare il senso delle vite, delle esistenze che esperiscono le passioni più naturali. La forza genesica dell' Eros, capace di fondare e formare unità nuove e sempre più ampie, riporta i soggetti, tutti i soggetti, dallo schiavo al sovrano, al fondamento ultimo della loro égalité naturelle. Una parola sull'amore. Nel capitolo 43, al «Ventitreesimo saggio dell'anello». e nella conclusione (cap. 54), Diderot si lascia andare a una rappresentazione dell'amore passione che sembra mettere in crisi l'impietoso cinismo dei racconti alla seconda persona. Non c'è da ingannarsi: laddove vige la logica del privilegio, dell'intrigo e della sopraffazione, l'amore è annientato, sopraffatto dalla parlerie, dal caquet (il chiacchiericcio costante) delle parti genitali. L'interesse e l'egoismo schiacciano inesorabilmente il generoso amore, pure descritto con dovizia di particolari. La verità ultima negativa, amara, beffarda sta dalla parte dei libertini. I «gioielli», dunque, e la loro vitale, irrefrenabile indiscrezione. Nulla di più resta da fare che leggerli e godere, con loro, di questa nuova verità rivelata, dalla quale l' amour passion può rinascere nelle proprie stesse ceneri. | << | < | > | >> |Pagina 58Mangogul si trasferì all'istante da Haria; e siccome parlava molto volentieri da solo, diceva tra sé: «Questa donna non si corica mai senza i suoi quattro mastini; e i suoi gioielli non sanno nulla di questi animali, oppure il suo me ne dirà qualcosa; infatti, grazie a Dio, non ignoriamo che ella adora i suoi cani alla follia». Si ritrovò nell'anticamera di Haria, verso la fine di questo monologo, e di lontano presagì che la signora riposava con la sua solita compagnia. Erano un piccolo barboncino, una danese e due botoli. Il Sultano trasse fuori la tabacchiera e fece due prese del suo tabacco di Spagna, per precauzione, e si avvicinò ad Haria. Dormiva, ma la muta che aveva le orecchie all'erta, sentendo un certo rumore, si mise ad abbaiare e la svegliò. «Zitti, figli miei, disse lei con un tono di voce così tenero che non si poteva supporre parlasse alle proprie cameriere; dormite, dormite e non disturbate più il mio riposo e il vostro». Un tempo Haria fu giovane e bella; ebbe degli amanti del suo rango, ma questi si eclissarono ancor più velocemente delle sue grazie. Per consolarsi di quell'abbandono, ella si consacrò ad una specie di bizzarra fastosità e i suoi lacchè erano i meglio agghindati di Banza. Invecchiò sempre di più, gli anni la gettarono nelle braccia della riforma; si ridusse con quattro cani, due bramini e divenne un modello di edificazione. In effetti, la satira più velenosa con lei non aveva di che mordere, e Haria godeva in pace, da più di dieci anni, di un'alta reputazione di virtù e... di quegli animali. Si conosceva pure la sua tenerezza tanto marcata per i cagnetti birboncelli, e non si aveva il sospetto che i bramini vi prendessero parte. Haria rinnovò la sua preghiera alle bestiole e queste ebbero la compiacenza di obbedire. Allora Mangogul portò la mano all'anello e il decrepito gioiello si mise a raccontare l'ultima delle sue avventure. Era passato talmente tanto tempo dalle prime avventure che ne aveva quasi smarrito la memoria. «Levati di mezzo, Medoro, disse con voce roca, mi affatichi. Preferisco Lisetta, la trovo più dolce». Medoro, al quale la voce del gioiello era sconosciuta, continuava il suo lavoro; ma Haria, svegliandosi, continuò, «Togliti, dunque piccolo furfante m'impedisci di riposare. Qualche volta è buono, ma il troppo è troppo». Medoro si tolse di mezzo, Lisetta prese il suo posto e Haria si riaddormentò. Mangogul, che aveva sospeso l'effetto del suo anello, lo rigirò e l'antichissimo gioiello, tirando un lungo sospiro, si mise a farneticare e disse: «Ah! come sono arrabbiato per la morte della grande levriera; era la femminuccia migliore, la creatura più carezzevole; non smetteva di divertirmi: era tutta spirito e gentilezza; a paragone, voi siete solo delle bestie. Quel villan signore l'ha ammazzata... La povera Zinzolina; la penso sempre con le lacrime agli occhi... Ho creduto che la mia padrona ne morisse. Passò due giorni senza bere e senza mangiare; il cervello le si era rivoltato: giudicate voi il suo dolore. Il suo direttore di coscienza, gli amici, gli stessi cagnetti birboncelli non mi avvicinarono. Ordinò alle donne di servizio di negare l'entrata del suo appartamento a quel signore, pena l'immediata cacciata... "Quel mostro m'ha strappato la mia cara Zinzolina, gridava; che non si faccia più vedere, non voglio più vederlo per tutta la mia vita"». Mangogul, curioso delle circostanze della morte di Zinzolina, riattivò la forza elettrica dell'anello sfregandolo contro la falda del suo abito, lo diresse verso Haria e il gioiello riprese: «Haria, vedova di Radamec, s'invaghì di Sindoro. Quel giovanotto godeva di buoni natali, di scarse ricchezze, ma di un "merito" che piace molto alle donne e che costituisce, dopo i cagnolini birboncelli, il gusto dominante di Haria. L'indigenza vinse la ripugnanza di Sindoro per gli anni e i cani di Haria. Ventimila scudi di rendita nascosero ai suoi occhi le rughe della mia padrona e la scomodità dei cagnolini birboncelli; e la sposò. | << | < | > | >> |Pagina 107Il medico materialista e libertino che dal 1748 era esule in Germania, a Potsdam, presso la corte del «re filosofo» Federico II il Grande, nel castello chiamato Sans-Souci [«Senza-Preoccupazione»], La Mettrie, s'annoiava mortalmente, come il personaggio di Mangogul dei Gioielli di Diderot. Abituato a un'esistenza movimentata, con condanne a morte in contumacia, roghi di libri, fughe rocambolesche a L'Aia, dove si nascose dal mandato di cattura spiccato contro di lui a causa de L'Histoire naturelle de l'àme (1745), poi da L'Aia a Potsdam ecc., la vita a corte, nella plumbea Prussia del nord, dovette sembrargli ben povera cosa. Ma almeno era in compagnia di un altro esule famoso, Fran็ois-Marie de Arouet, già noto con il nome di Voltaire (1694-1778) e poteva dirsi «senza preoccupazioni» per la propria libertà, aveva salva la vita. Cosa poteva aver fatto, un intellettuale, per meritarsi tante attenzioni da parte delle Autorità? Di famiglia agiata il padre era notaio La Mettrie fu allievo, in Olanda, del maestro della scuola medica eclettica, Hermann Boerhaarve (1668-1738), soprannominato l'«Ippocrate di Leida», di cui tradusse in francese le Istituzioni di medicina (Paris, 1739-1740). Oltre a vari scritti giovanili di medicina, il philosophe La Mettrie esordì con una ripresa in chiave materialistica delle dottrine aristoteliche sull'anima intesa come forma immanente del corpo, nella Storia naturale dell'Anima (1745). Qui l'autore interpretò la dottrina delle tre anime (vegetativa, sensitiva e razionale) riconducendole tutte alle funzioni vitali espresse sui tre livelli una sensibilità generalizzata della materia organica. In seguito, l'opera che lo rese celebre come filosofo eterodosso fu L'Uomo-Macchina, scritto nel 1747. Qui La Mettrie impresse una svolta decisiva alla sua filosofia verso una concezione monistica unità di anima e corpo, negazione della spiritualità e immortalità dell'anima, affermazione, alla Spinoza, dell'unità della sostanza e deterministica in psicologia e fisiologia delle funzioni organiche che lo renderà presto inviso alle autorità accademiche ed ecclesiastiche. L'Uomo-Macchina, indirizzato proditoriamente al grande fisiologo svizzero di G๖ttingen A. von Haller (1708-1777), collega e avversario, concepisce, per la prima volta in modo programmatico, un'analisi dei fenomeni psicologici che fa economia dell'«ipotesi inutile» di un'anima separata dal corpo. Per La Mettrie tutto è corpo nell'uomo: Originariamente non siamo stati fatti per essere dei dotti [...]. La natura ci ha creati tutti unicamente per essere felici; sì tutti, dal verme che striscia fino all'aquila che si perde nelle nubi. Per questo essa ha dato a tutti gli animali una parte di legge naturale, una parte più o meno raffinata a seconda di quanto lo permettono gli organi costruiti in determinati modi di ogni animale. In virtù di quest'etica-fisiologica eudemonistica, per la quale il Sommo Bene è la felicità, nell'uomo, dunque, le funzioni «alte» della conoscenza e della ragione, che i filosofi riconducono all'attività di una sostanza pensante inestesa (res cogitans) e immateriale (Cartesio), in realtà sono spiegabili in termini di fenomeni organici, in particolare fenomeni dell'«organo dell'anima» per eccellenza: il cervello. Un organo determinato dalla Natura a un solo scopo: trovare la felicità, fuggire il dolore, cercare il piacere. Nel titolo risuona con chiarezza il riferimento polemico alla teoria cartesiana degli animali-macchina. Cartesio aveva affermato che tutti gli ammali, ad eccezione dell'uomo, sono privi di «anima» da lui identificata con il puro pensiero (cogito). Ma La Mettrie non intende affermare qui il meccanicismo cartesiano estendendolo agli uomini, bensì rimarcare il fatto che l'uomo, nella sua costituzione organica, obbedisce alle stesse leggi della materia sensibile cui sono sottoposti gli altri enti fisici in natura: si afferma l' unità materiale degli animali e dell'uomo, nel contesto di una dottrina generale organicistica (non meccanica) degli esseri viventi. Infine, La Mettrie offre una chiara rappresentazione funzionale delle attività dell'encefalo come l'unica, vera sede del sentire e del pensare. Quindi l'anima è solo un principio di movimento o una parte materiale sensibile del cervello, che senza tema di errore si può considerare come il motore principale di tutta la macchina; un motore che ha un'evidente influenza su tutti gli altri, e sembra perfino essere stato fatto per primo, in modo che tutti gli altri ne sarebbero solo un'emanazione [...]. Quest'oscillazione naturale, o propria della nostra macchina, di cui è dotata ogni fibra e per così dire ogni elemento fibroso, simile a quella di un pendolo non può esercitarsi sempre. Occorre rinnovarla man mano che si perde, e indebolirla quando è oppressa da un eccesso di forza o di vigore. ศ soltanto in questo che consiste la vera medicina. Da ciò la conseguenza, senza mezzi termini, che l'uomo è un essere ferreamente e interamente determinato dalla Natura e dalle sue leggi: Concludiamo dunque arditamente che l'uomo è una macchina e che in tutto l'universo non v'è che una sola sostanza diversamente modificata. Questa non è un'ipotesi costruita a forza di interrogativi e di supposizioni, non è opera del pregiudizio e neppure della mia sola ragione. Avrei disdegnato una guida che credo poco sicura se i miei sensi, portando per così dire la fiaccola, non mi avessero sollecitato, illuminandola, a seguirne le indicazioni. L'esperienza mi ha dunque parlato in favore della ragione: per questo le ho unite insieme. | << | < | > | >> |Pagina 115Piacere! Sovrano Signore degli uomini e degli Dèi, dinanzi a cui tutto scompare, anche la ragione: tu sai quanto il mio cuore ti adori e tutti i sacrifici che t'ha offerto. Non so se meriterò di condividere gli elogi che ti dono; ma mi crederei indegno di te, se non fossi attento ad assicurarmi la tua presenza e a render conto, a me stesso, di tutti i tuoi benefici. La riconoscenza sarebbe un ben magro tributo; aggiungo anche l'esame dei miei sentimenti più delicati. Dio delle anime belle, piacere fascinoso, non permettere che il tuo pennello si prostituisca a voluttà infami, o piuttosto a dissolutezze indegne che fan gemere la Natura in rivolta. Che dipinga i soli fuochi del figlio di Cipride, ma li dipinga con trasporto. Che questo Dio vivente, impetuoso, serva la ragione degli uomini solo per farla dimenticare; che non ragionino se non per esaltare i loro piaceri e lasciarsene penetrare: che taccia la fredda Filosofia, per ascoltarmi. Sento le rispettabili manovre della voluttà. Cortigiane impudiche, sparite! Nascono mali minori dal vaso di Pandora che dal seno dei vostri piaceri. Ebbene! Che dico! dei piaceri? Ve ne sarebbero mai senza i sentimenti del cuore? Più voi prodigate i vostri favori, più offendete l'amore, che li sconfessa. Consegnate i vostri corpi ai satiri; coloro che acconsentono ne sono degni; ma voi non lo siete, con un cuore nato sensibile. Voi vi prostituite invano, invano cercate d'incantarmi con attrattive vulgivaghe: non è affatto al godimento dei corpi, è a quello degli animi ch'io tendo per necessità. Tu l'hai conosciuto, Ninon, quel godimento squisito nel corso della vita più bella: tu vivrai in eterno nei fasti dell'amore. | << | < | > | >> |Pagina 128Non vi avvicinate, mortali fastidiosi e turbolenti, lasciatemi godere... Sono distrutto, immobile; ho appena la forza di aprire gli occhi chiusi dall'Amore. Ma quanti incanti offre tale languore! ศ un sogno o una realtà? Mi sembra di andare giù, ma solo per cadere, o felice sibarita, su un mucchio di foglie di rose. La dolcezza con la quale tutti i miei sensi si distendono su tante delizie me lo ricorda. Dolce ebbrezza! Io godo ancora dei favori di Temira; la vedo, la tengo fra le mie braccia. In tutto il suo bel corpo non c'è una sola parte che io non carezzi, che non adori, che non copra dei miei baci. Ah Dei! Quali attrazioni! E quali omaggi reali merita la stessa illusione! Come non posso sempre vederti così, adorabile Temira! La vostra idea prenderebbe il posto di voi stessa. Perché non mi segue ovunque? L'immagine della bellezza vale la bellezza stessa, quando addirittura non sia ancor più seducente. Memoria dolce dei miei piaceri trascorsi, non lasciatemi mai più! Passati! cosa dico! No, Amore, non lo sono affatto. Sento la vostra augusta presenza... dolce Piacere!... Oh, quale voluttà! I miei occhi s'offuscano... Ah Temira!... Ah Dio potente! ศ possibile che l'assenza abbia tanti incanti e che i nostri deboli organi bastino a quest'eccesso di felicità? No, beni tanto grandi possono appartenere soltanto al cuore [โme], e io lo riconosco immortale dai suoi piaceri.Sopporta, o mia bella Temira, che io mi ricordi qui persino i discorsi più insulsi che sospiravi la prima volta... Quale lotta incantatrice della virtù, della stima e dell'amore! Oh come, a poco a poco, a movimenti ingrati ne succederono di più dolci che nondimeno ti preoccupavano! Vedo le tue palpebre morenti, pronte a chiudere occhi addolciti, inteneriti dall'amore. Il sipario del piacere fu presto steso dinanzi a loro; la forza ti abbandonava con la ragione, tu non vedevi più, non sapevi ciò che stavi per fare, tu temevi, Ahimè! E quanto tale semplicità aggiungeva ai tuoi incanti e al mio amore; temevi di cadere in debolezze e morire nel momento stesso in cui stavi per versare ben altre lacrime che non le prime, stavi per sentire la pienezza d'essere e il più grande dei piaceri. Da quale voluttà il tuo amore fu seguito di poi! Quali nuovi e violenti trasporti! Dèi gelosi, rispettate lo smarrimento di un'affascinante mortale che dimentica se stessa nelle braccia che essa adora, più felice! Cosa dico! Più Dèa, in questi momenti, di quanto non siate voi Dèi! Amore, lo sei tu stesso solo in virtù dei nostri piaceri! Quale altro pennello, dopo quello di Petronio, potrebbe dipingere quella prima notte!.... Quali piaceri avvolsero la sua ombra voluttuosa! Quale estasi! Che godimenti tutti in uno! Bollenti d'amore, attaccati strettamente insieme, agitati, immobili, ci comunicavamo sospiri di fuoco: le nostre due anime, confuse dai baci più ardenti, non si riconoscevano più; perdutamente consegnate a tutta l'ebbrezza dei nostri sensi, non erano altro più che un trasporto inesprimibile, con il quale, felici mortali, ci sentivamo deliziosamente morire. | << | < | > | >> |Pagina 139Il voluttuoso ama la vita, perché ha il corpo sano, lo spirito libero e senza pregiudizi. Amante della Natura, ne adora le bellezze perché ne conosce il valore; inaccessibile al disgusto, non comprende come questo veleno mortale viene ad infettare i nostri cuori. Al di sopra della Fortuna e dei suoi capricci, egli è la sua fortuna a sé stesso. Al di sopra dell'ambizione, ha soltanto quella di essere felice; al di là dei tuoni, da Filosofo epicureo, non teme più il fulmine della morte. Gli alberi si spogliano del loro mantello, egli conserva il suo amore. I fiumi si mutano in marmo, un freddo crudele congela persino le viscere della terra, brucia dei fuochi dell'estate. A letto con la sua cara Delia, il rigore dell'inverno, il vento, la pioggia, la grandine, gli elementi scatenati accrescono la felicità di Tibullo. Se il mare è calmo e tranquillo, il voluttuoso vede in quella bella tavola d'olio solo un'immagine perfetta della pace. Se i flutti rovesciati da Eolo in furia minacciano di naufragio qualche nave, quel quadro in movimento della guerra, per quanto spaventoso esso sia, lo vede con il piacere di un uomo lontano dal pericolo. Non è uno di quei pericoli che la voluttà corre volentieri.
Tutto è piacere per un cuore voluttuoso; tutto è rose, garofani,
viole nel campo della Natura. Sensibile a tutto, ogni bellezza lo estasia; ogni
essere inanimato gli parla, lo risveglia; ogni essere animato lo
smuove; ogni parte della Creazione lo riempie di voluttà. Vede apparire la
ridente livrea della primavera? Egli ringrazia la Natura di avere
prodigato un colore così morbido e amico degli occhi. Ammiratore
dei fenomeni più sorprendenti, il sorgere dell'Aurora e del Sole; quel
colore brillante di porpora il quale, mascherandosi nell'imbrunire delle nuvole
forma al suo calare la decorazione più superba, i raggi
argentati della luna che consolano i viaggiatori dell'assenza della stella
più bella; le stelle, questi diamanti dell'Olimpo il cui splendore è messo in
rilievo dallo sfondo blu al quale sono attaccati; quei bei giorni
senza nuvole, quelle notti ancora più belle, che ispirano i sogni più
dolci, notti verdi delle foreste, dove il cuore che incatena i suoi pensieri
instabili nei confini stupendi dell'amore, contento, raccolto, si
carezza da sé e non si stanca affatto di contemplare la propria felicità:
ombra impenetrabile agli occhi di Argo, dove basta esser da soli
per desiderare di esser con voi, Temira, ed esser con voi per dimenticare tutto
l'universo. Cosa dirò, infine? La Natura tutta è in un cuore
che sente la voluttà.
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